Sull’inerzia della classe (e l’innovazione a scuola)
Come si fa
Per spiegare cosa intendo per inerzia della classe e provare a dimostrare quanto sia importante averne coscienza soprattutto oggi, mi tocca raccontare un aneddoto che mi è capitato qualche giorno fa. A scuola faccio le ultime due ore, in un quinto anno ottimo, disciplinato, che ho la fortuna di avere da tre anni: la classe ideale. Lavoriamo, andiamo avanti, leggiamo, discutiamo fino alla campanella delle tredici e quaranta. Tornato a casa, lancio la borsa sul divano e poi mi ci lancio anche io, sono distrutto. Entra un secondo dopo mia figlia, al ritorno dalla scuola anche lei e mi fa: «ma che hai fatto? Sei morto!». Le rispondo: «sì, sono stanco morto», e lei: «scusa, non hai le stesse classi dell’anno passato?». «Veramente il quinto ce l’ho da tre anni». «E non sono quelli bravi che mi dici sempre?», mi incalza. «Sì, sono loro» provo a difendermi. Ma lei: «ti sei dimenticato come si fa? Non dovrebbe essere più facile dopo più di due anni insieme? Se sei ridotto così dopo tre settimane non ci arrivi a giugno». Poi mia figlia se ne va in camera sua, lasciandomi solo sul divano, appeso a quel «ti sei dimenticato come si fa?». La domanda non è peregrina, ma comunque la risposta non tardo troppo a darmela: certo che non mi sono dimenticato come si fa, mi dico, tanto più in quella classe dove le cose sono andate bene per due anni. Ma il fatto è che, a forza di stare insieme, a fronte di un rapporto che dura scolasticamente da tanto, in due anni ogni giorno ho dovuto imparare, anzi combattere con l’ostacolo naturale del «come si fa». Scontato no?
L’inerzia della classe
No che non è scontato, e quindi provo a spiegarmi. Due anni con una delle migliori classi mai avute e perciò nella migliore posizione possibile, mi hanno comunque messo giorno per giorno, minuto per minuto, difronte a quella forza vischiosa e sfiancante che definisco l’inerzia della classe. Di che si tratta? Esiste una resistenza naturale, una forza che spinge in senso contrario, una tensione continua con cui fare i conti nella vita di una classe (anche la migliore, figuriamoci le peggiori) e che in genere emerge dopo la prima e sempre più risicata fase in cui la novità lascia ancora docente e studenti sul chi va là. Un’usura naturale alla quale sono sottoposte tutte le strategie didattiche, i canali virtuosi, le lezioni che sappiamo avere più probabilità di successo, fino anche alle battute che sappiamo hanno sempre fatto ridere. Ebbene, l’unico rimedio possibile a questa resistenza, che è scritta nel dna stesso del fare scuola, è di fatto la rimodulazione continua e adattiva di tutta la propria funzione ai minuti, ai giorni, agli anni che passiamo in una classe. Quella roba che insomma l’altro giorno mi ha fatto stramazzare sul divano e che, a dirla tutta, forse ha a che fare con quell’inerzia della vita che tutti conosciamo e che a un certo punto ci insegna che la partita della nostra esistenza non si gioca tanto sulle vette delle grandi gioie o gli abissi dei grandi dolori, quanto sulla fatica di percorrere la pianura del giorno dopo giorno. Beh, scontato anche questo no? Eh sì che siamo già al secondo paragrafo.
La soluzione geniale e istantanea
Ma il punto è, ed è qui che volevo arrivare, che quando poi si parla – da fuori soprattutto – di scuola, a nessuno viene in mente di considerare l’inerzia della classe. Negli ultimi tempi in modo plateale, ma in fondo oramai da anni, chi sta a scuola vive questa situazione un po’ paradossale per la quale, sia che parli il responsabile della grande fondazione (che la scuola la guarda da fuori), sia che parli il grande nome mediatico (che la scuola la guarda da fuori), sia che parli l’esperta o l’esperto (che la scuola la guardano da fuori, magari dopo esserne usciti), si trova difronte al giudizio sempre apodittico, alla soluzione sempre istantanea, alla formula sempre magica (ma come avevamo fatto a non pensarci prima) che di colpo risolverebbe tutti i problemi. E non si tratta nemmeno di entrare nel merito di quanto si vada affermando: capita di vedere lo stesso atteggiamento in chi denuncia la crisi atavica del sistema scolastico in toto come in quelli se la prendono paternalisticamente con quella palla al piede chiamata insegnante, nei fautori del definitivo salto iperspaziale nel digitale come anche nei difensori strenui del ritorno alla scuola della predella della cattedra, in quelli che «lo studente al centro, sparisca l’insegnante» e in quelli che «l’insegnante sono io, che generazione ingrata abbiamo allevato». Insomma a tutta la società, al mondo, all’universo intero sembrerebbe chiaro come risolvere i mali della scuola e fare funzionare le classi, ma soprattutto attraverso una formula istantanea e risolutiva. Ma perché a tutti sembra chiaro tranne a chi a scuola ci lavora magari da trent’anni?
Essere parte non tutto
Delle due l’una. O in effetti la classe docente, ma in generale chi a scuola ci lavora, s’è definitivamente persa e perso tra i fumi dei gessetti e della polvere dei libri o forse chi sta a scuola vede qualcosa che da fuori o non si vede, o meglio, di cui non si fa esperienza. La partita della scuola, ma diciamolo pure, quella dell’educazione, si gioca sul tempo lungo della complessità, l’unico capace di risignificare il tempo brevissimo dei cambiamenti dei ragazzi tanto che, lo confesso, io che dopo sei mesi di digiuno d’aula mi sento di dovere recuperare in fretta e furia il ritardo di comprensione accumulato in questo tempo, mi domando con quanta leggerezza d’animo si possa essere così assertivi nei giudizi addirittura senza mai essere entrati in un aula. I tempi lunghi contemplano dunque quell’inerzia della classe che, a volere essere concreti, impone comunque al docente in buona fede e quindi senza preclusioni di sorta verso nessuna miglioria proposta (ben vengano tutte se valide) la coscienza dell’usura naturale a cui è soggetto ogni approccio progettuale, didattico financo umano che sia: perché nessuna chiave è risolutiva, perché non esiste un’unica chiave e per altro le millanta che servono si sbeccano continuamente. Tutto ciò per essere disfattisti? Tutt’altro, semplicemente invece per sottoporre a tutti coloro che lecitamente o meno si affollano tra le file di chi vorrebbe salvare la scuola, la necessità di un bagno comune di umiltà, o meglio di considerazione più realistica della questione. Perché, finché l’innovatore farà la guerra al giapponese della lezione frontale (ma anche viceversa), il sacerdote del digitale inveirà contro il propalatore di fotocopie (ma anche viceversa), l’esperto o l’esperta vorranno crocifiggere l’antidemocratica classe docente (ma anche viceversa), mi pare che al di là del triste gioco delle parti messo in scena, difficilmente la scuola tutta ne potrebbe trarre giovamento. Di contro l’inerzia della classe ci dice una cosa importante: che la questione si gioca su tempi che non sono quelli di un post o di un tweet e che l’approccio a una questione complessa non può che essere complesso. Semplificando molto, ci dice insomma che i partiti della lezione frontale, delle conoscenze, quello dell’innovazione sempre e comunque, della didattica delle competenze, dovrebbero prendere coscienza, anziché della smania dell’eliminazione reciproca, dell’esigenza di essere parte di un unico sistema perennemente mutante, che potrebbe e dovrebbe rigenerarsi in modo continuo e vicendevole grazie alla dialettica sana tra le parti conservative e innovative che da sempre lo compongono. Che poi, a essere sinceri, mi pare che noi docenti queste cose per i corridoi ce le diciamo continuamente, da sempre.
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