Divide et impera. L’autonomia differenziata
Da quando le Regioni Emilia Romagna, Lombardia e Veneto hanno richiesto al Governo forme ulteriori e condizioni specifiche di autonomia in materia di istruzione e formazione si sono accesi i riflettori sulla scuola statale e sui suoi meccanismi di finanziamento.
La questione attiene a quella che per qualcuno è una vera e propria secessione delle Regioni più ricche in una materia che la Costituzione Repubblicana affida allo Stato: questa richiesta, se accettata, porterà alla regionalizzazione del sistema scolastico statale.
Le Regioni richiedenti dimenticano che la scelta dello Stato Italiano è stata quella di mantenere il controllo dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e che tale garanzia verrebbe ovviamente messa in discussione dalla regionalizzazione del sistema, come è già avvenuto ad esempio per le Università.
Ci si domanda se questo non sia un altro tassello di quel percorso già avviato di rottura dell’unità nazionale in uno Stato in cui non si fa altro che spingere verso forme di autonomia Regionale e gestione locale, con il rischio di continuare ad aumentare il divario tra le differenti aree del Paese, foraggiando lo spostamento della popolazione da alcune regioni ad altre più attraenti sotto il profilo delle opportunità. Si tratterebbe di replicare il modello della Sanità con una significativa differenziazione dei livelli di qualità del servizio pubblico garantito, il che determina la crescita dell’offerta a pagamento di livello medio soprattutto in alcune aree del Paese: dove le risorse scarseggiano la qualità del servizio pubblico tende a scendere sotto la soglia accettabile per il cittadino e il privato si accaparra spazi importanti anche solo perché garantisce un livello medio-basso di servizio. Per non parlare dei meccanismi di controllo, già complessi su sistemi unitari, che diventano differenziati ed inesigibili di fronte a frammentazioni su larga scala.
Una proposta avanzata in sordina
La proposta avanzata dalle Regioni si basa sulle previsioni contenute nell’art. 116 della Costituzione che consente alle Regioni ordinarie di negoziare specifiche condizioni di autonomia.
Questa richiesta appare in antitesi rispetto all’impegno che il nostro Paese si è assunto nell’aderire al percorso di adeguamento di tutti i livelli di istruzione dei paesi europei fatto, qualifiche nazionali comprese. Altra questione da considerare è se la regionalizzazione sia compatibile con la necessità di continuare ad assicurare un pari livello di formazione scolastica e di istruzione a tutti i cittadini: a tutt’oggi lo Stato Italiano garantisce tramite meccanismi di perequazione una particolare attenzione alle aree territoriali con minori risorse disponibili, questo, qualora la regionalizzazione andasse in porto, non sarebbe più possibile. La scuola è una funzione fondamentale, storicamente garantita dallo Stato su tutto il territorio nazionale indipendentemente dalla Regione di residenza, e l’unità culturale e politica del sistema di istruzione è stata fino ad oggi una condizione irrinunciabile per garantire ai cittadini uguaglianza di accesso ai diritti e al sapere, tema fondativo della Costituzione Repubblicana. La scuola è stata l’elemento cardine sul quale si è costituita l’identità del nostro Paese: sebbene dagli anni in cui il cittadino italiano non utilizzava la lingua italiana per la comunicazione quotidiana sia passata quella che ci sembra un’eternità, l’istruzione resta oggi un elemento di integrazione tra le differenti fasce sociali, che garantisce parità di trattamento (o quasi) a prescindere dai livelli economico-sociali di ingresso. L’autonomia differenziata intaccherebbe inesorabilmente il ruolo dello Stato quale garante di unità nazionale e solidarietà, ne conseguirebbe una sperequazione nella concreta esigibilità del diritto fondamentale all’istruzione. Il percorso normativo proposto è quantomeno inedito, giacché le Regioni richiedenti e il Governo sottoscriveranno accordi con vincoli giuridici decennali, mentre il Parlamento sarà chiamato solo a pronunciarsi sull’accordo già siglato e non avrà la possibilità di incidere su un tema che meriterebbe una discussione più ampia, riflessioni approfondite e il coinvolgimento dei cittadini, magari con un salto di qualità rispetto all’attuale formula proposta che si è contraddistinta per l’utilizzo di un giro di bozze informali.
La rottura della contrattazione collettiva nazionale
Con la regionalizzazione, assisteremmo al primo vero atto di rottura della contrattazione collettiva nazionale perché inevitabili sarebbero le ripercussioni sul livello contrattuale. Torna di moda il tema delle gabbie salariali e non è un caso che chi bazzica le scuole della Lombardia, ad esempio, stia assistendo in queste settimane ad un chiacchiericcio insistente sui presunti inquadramenti contrattuali del personale, che secondo alcuni avranno base regionale. In un clima di crescente contrapposizione chiariamoci con il personale di scuola: per risolvere i problemi delle scuole del Nord non basta liberarsi del Sud e il fatto in sé che la regionalizzazione si traduca in un aumento salariale per il personale delle tre fortunate Regioni non è certamente un automatismo. A tutt’ora, nelle bozze informali di aumenti salariali non si parla. Né da questo punto di vista, i precedenti sono particolarmente felici: la storia della Formazione Professionale e dell’Università ad esempio ci racconta che sulle retribuzioni la frammentazione dei docenti in Lombardia ha giocato al ribasso nei meccanismi di accreditamento degli Enti, aprendo le porte a contratti penalizzanti per i lavoratori e in ogni caso non determinando aumenti retributivi medi. In termini finanziari, comunque, le Regioni non avrebbero un maggiore stanziamento di risorse rispetto a quello che oggi spende lo Stato per i servizi trasferiti. Infine la storia ancora della Lombardia, ci racconta per quanto riguarda le scuole dell’infanzia, che le risorse pubbliche sono confluite in larga parte non sulle scuole statali ma sulle scuole paritarie che, applicando contratti più poveri, hanno maggiore margine di sperimentazione. Dunque per i docenti lombardi, veneti ed emiliani della scuola statale le speranze non sono supportate da elementi concreti. Salari a parte, si apriranno forme di reclutamento e sistemi di valutazione disuguali con una restrizione dei movimenti del personale tra diverse Regioni. Ma siamo proprio sicuri ad esempio che i vincoli relativi ad assunzioni di personale su base regionale non determineranno sul lungo periodo una maggiore difficoltà proprio nelle Regioni più ricche, nel reperire il personale? Queste Regioni oggi non producono il numero necessario di docenti abilitati per la copertura di tutti i posti vacanti. Dietro gli slogan utilizzati dai sostenitori dell’autonomia differenziata che puntano sostanzialmente sul garantire la stabilità del corpo docente, si nasconde il rischio per gli studenti di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna che alla fine non si trovino abbastanza insegnanti già residenti in Regione. Nelle Regioni settentrionali infatti, l’insegnamento, a causa sia del declino del prestigio della professione docente sia della bassa remunerazione, molti laureati preferiscono avviare percorsi di lavoro nei comparti privati dove, a fronte di orari di lavoro peggiori, possono ambire a stipendio e a progressioni di carriera più interessanti nella maggior parte dei casi, ma soprattutto a percorsi di stabilizzazione con tempistiche ben più ragionevoli della decina di anni circa che per alcune classi di concorso prevede la scuola statale. Non bisogna dimenticare poi che l’attuale burocratizzazione della professione docente, il proliferare di progettualità d’istituto estremamente consistenti in termini orari e non remunerate, assieme ai rischi legali collegati alle responsabilità ormai innumerevoli di chi nell’insegnare non si sente sufficientemente tutelato dall’ordinamento e spesso non riesce a condividere con le famiglie veri percorsi educativi sono elementi che stanno rendendo questa professione una missione di pochi appassionati più che un lavoro scelto sulla base di uno schema di valutazione costi\benefici. Ci si domanda dunque a quale bacino di aspiranti docenti residenti in Regione, il Veneto, la Lombardia e l’Emilia stiano pensando e se in assenza di titolati abilitati si stia pensando di arruolare residenti in Regione chiudendo un occhio sui percorsi di accesso. E’ ragionevole credere che il prezzo da pagare per questa forma di autonomia passerà per arretramenti sul fronte dei diritti contrattuali: ad esempio è facilissimo immaginare una possibile riformulazione degli orari di lavoro in direzione della sempre più pressante soddisfazione dell’esigente utenza proprio delle Regioni settentrionali. Lo slogan “scuole aperte” è ancora di gran voga, ciò che non si dice è che in mancanza di personale le scuole le si apre facendo fare i salti mortali a chi c’è, indipendentemente dal numero degli alunni. Difficile in questo panorama immaginare il miglioramento delle condizioni contrattuali di chiunque dei lavoratori delle diverse Regioni a fronte dalla frammentazione del sistema.
Ma la regionalizzazione conviene agli studenti?
Infine, agli studenti non andrà meglio: l’autonomia differenziata configurerà un sistema scolastico frammentato, differenziato, ancora più disgregato culturalmente e di conseguenza socialmente, più debole nell’affrontare le emergenze educative del momento storico in cui viviamo. Dalle statistiche Europee si evince che l’Italia è già oggi ai primi posti d’Europa per le diseguaglianze regionali negli esiti dell’istruzione ed è piuttosto improbabile che l’autonomia differenziata possa determinare un’inversione di rotta. Dal punto di vista pedagogico non si riescono neanche ad intuire i vantaggi nella regionalizzazione del sistema, tanto più che non pare che le Regioni interessate abbiano utilizzato criteri pedagogici per avanzare le loro proposte e che si dimentica, in questo gran ragionare, che le istituzioni scolastiche sono autonome dal 2000. Da allora possono spaziare in sperimentazioni curricolari ed extracurricolari, coinvolgere in percorsi didattici i Comuni e gli enti privati, possono scegliere tra differenti formule di orario, possono avviare percorsi di alternanza scuola lavoro, scegliere come gestire il 20% dell’orario delle lezioni, il tutto sempre senza maggior aggravio di risorse, clausola che non impedisce loro di acquisire risorse dagli enti locali più generosi e che fa sì che alcune scuole siano più belle, più sicure e più interessanti di altre. Un Paese che si rispetti dovrebbe guardare con occhio più attento proprio a queste ultime. Si allontana evidentemente il sogno di un Paese che abbia tra i propri obiettivi quello di innalzare il proprio livello collettivo d’istruzione. C’è da riflettere a questo punto su quali siano oggi gli obiettivi del Paese.
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