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Su classifiche di qualità e giudizio di valore: i compiti della critica

 

 Senza preamboli e false diplomazie dico subito che l’articolo di Demetrio Paolin non mi trova d’accordo: trovo tuttavia molto interessante che, riguardo alla funzione della critica, vi siano delle divergenze nel seno stesso della redazione di questo blog e credo che le questioni che vengono poste siano così importanti da meritare una discussione e un confronto.

In questi decenni di sovraffollamento editoriale, di sovrapproduzione libraria, di smercio inarrestabile di titoli, la funzione del critico a mio parere resta – deve restare e deve essere – quella del discernimento e della selezione: il critico si pone davanti al testo per mediarlo al lettore, cioè argomentando il suo grado di valore o di disvalore e suggerendone o meno la lettura.

Scrive Demetrio: “La critica letteraria, almeno come la intendo io, è essenzialmente studio del testo, riflessione sulla lingua e sulle strutture sintattiche e, infine, restituzione dello stesso testo sotto forma di discorso. Non stabilisce cosa è buono e cosa no, né stabilisce cosa è letteratura o cosa non lo è; essa si occupa essenzialmente dei testi che sono costituiti “da una serie più o meno lunga di enunciati verbali più o meno provvisti di significato” (Genette, Soglie. I dintorni del testo). Immergendosi in questi enunciati, cerca di raccontare qualcosa, tenta di mettere in chiaro, di rendere nitido, ciò che il testo produce. Non è la qualità la preoccupazione principale del critico letterario”.

Viceversa per me la critica deve stabilire “cosa è buono e cosa no”: non deve sottrarsi al giudizio di valore. Il rischio infatti è che, rinunciando a giudicare, ci si avvicini all’idea inclusiva e indistinta, presente nel recente libro La letteratura circostante di Gianluigi Simonetti (edito da Il Mulino, 2018) in cui si dà più spazio alla scrittura di Fabio Volo o di Federico Moccia che a quella di Michele Mari o di Giorgio Falco e dove si ribadisce a ogni piè sospinto quanto oggi la letteratura sia intrattenimento. Per me non è così. Se voglio “intrattenermi” leggo un’inchiesta del commissario Montalbano di Andrea Camilleri (autore certo non privo di una sua ricerca in particolare linguistica e sociologica); ma se voglio leggere un testo letterario di qualità e di valore compro Mauro Covacich, Luca Ricci, Laura Pariani e Simona Vinci (e l’elenco potrebbe continuare, sia chiaro). Soprattutto, se faccio lavoro critico, in un blog o in classe, devo spiegare al mio pubblico le differenze fra questi libri. Trovo anche che il compito del critico non sia quello di mostrare alle case editrici le loro storture promozionali o quelle insite nella logica del mercato o dei premi: credo che le conoscano benissimo e che ne cavalchino gli eventuali vantaggi.

 

Non trovo sbagliato che, poter continuare a esercitare una responsabilità selettiva nel quadro dell’attuale indistinzione, la critica ricorra al concetto di “qualità”: non si tratta necessariamente di un “bollino” come quello assegnato all’aria o alle merci sul mercato, ma piuttosto di un indicatore del valore, all’interno della dinamica dei generi e della ricezione: i libri di Volo e Moccia o della Postorino non sono “di qualità” nel senso che non sono destinati a restare sul lungo periodo. Il critico non può esimersi da questa presa di posizione e ha il compito di distinguere e orientare il lettore.

Le classifiche riproposte da Vanni Santoni con il sostegno della rivista L’Indiscreto possono dunque avere di certo dei limiti quanto a criteri di votazione, reclutamento degli “esperti” e risultati, ma costituiscono comunque un tentativo di ovviare alla pratica della recensione-marchetta (passatemi il termine) che ormai è l’unica invalsa sui giornali. È un modo (senz’altro esile, parziale, migliorabile) per mobilitare la riflessione – e la segnalazione “di qualità” – rispetto al mare magno di pubblicazioni.

Trovo infine interessante che nel testo di Demetrio, all’idea di una critica come descrizione (il riferimento a Genette) si accosti un discorso sull’estetica del dono: ne consegue un’immagine “neutra” di critico che smonta e “decodifica enunciati” e al contempo che svolge questo suo lavoro fuori dalla sfera del mercato: una sorta di “tecnico volontario”. Rispetto a questo vorrei aggiungere che la gratuità del mio lavoro critico è innanzitutto garanzia di libertà e autonomia di giudizio e, al contempo, è frutto di un percorso di studi e di formazione che non può non influenzare le propensioni formali e tematiche con cui mi avvicino ai testi. E, nel profondo di me, più che un dono è una necessità.

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