Cooperazione o meritocrazia? Il ruolo dell’Invalsi nel progetto di vita
Continuiamo la discussione sulle prove Invalsi, in corso di somministrazione in questi giorni nelle scuole, con una serie di riflessioni sulla valutazione basata sui test.
Il principio della cooperazione
In una recente intervista, alla domanda “Il primo ricordo culturale?” rivoltagli da un giornalista del quotidiano La Repubblica, il linguista e filosofo americano Noam Chomsky, docente al MIT di Boston, così rispondeva: “Avere frequentato una scuola privata con un insegnamento non basato sulla competitività (la Oak Lane Country Day School). La competitività non è un problema se è un divertimento innocuo, tipo sfidarsi in un gioco. Ma non vedo perché ciascuno debba coltivare il principio di fare meglio di un altro”(D – La Repubblica, Intervista a Noam Chomsky, 1 settembre 2012). Diciamo subito, in via preliminare, che condividiamo l’idea sottesa all’affermazione di Chomsky: l’approccio pedagogico che costituisce la scelta privilegiata dai docenti italiani nelle scuole di ogni ordine e grado trova oggi nel principio della cooperazione, e non nella ‘cultura’ della competizione, il suo principale modello di riferimento.
Nel processo evolutivo che ha progressivamente distinto gli esseri umani dalle altre specie animali, una delle prime forme di differenziazione è consistita nello sperimentare comportamenti cooperativi all’interno del gruppo, nel prendersi cura dei deboli, dei malati, dei disabili, sviluppando facoltà morali e atteggiamenti altruistici che, rendendo il gruppo più coeso, lo attrezzavano nella lotta per la sopravvivenza. Se, da un punto di vista filogenetico, la cooperazione appare infatti come il sistema più evoluto, quello che garantisce maggiori vantaggi per la specie, sotto il profilo antropologico, i vantaggi di un comportamento cooperativo possono essere sociali, se ricadono sul gruppo nel suo complesso, oppure individuali, cioè relativi ai singoli componenti, se c’è una forte omogeneità interna. Indubbiamente, la nascita e lo sviluppo diacronico delle istituzioni – economiche, morali, sociali, civili, giuridiche – in cui le diverse comunità hanno potuto in passato e possono oggi identificarsi e riconoscere il proprio assetto socio-politico, dipende strettamente da questa necessità di convivenza collaborativa e negoziale di gruppo. Se la competizione, quando non circoscritta nell’alveo di un sano confronto agonistico, governato da regole rispettate e condivise, può facilmente degenerare in esclusione, discriminazione, sopraffazione e conflitto, tendendo a configurare rapporti gerarchici o legami prevalentemente utilitaristici, il principio della cooperazione valorizza, al contrario, i comportamenti prosociali degli individui, promuove forme di interdipendenza e non di dipendenza o gregarietà, inquadra le relazioni in uno spazio orizzontale, educa all’esercizio del dialogo e del confronto, ovvero all’unica, vera forma di convivenza civile possibile: la democrazia consapevole e partecipativa.
Il fine della meritocrazia
La scuola, istituzione, nella Repubblica italiana, costituzionalmente garantita dallo Stato, è il luogo per elezione ove sperimentare fin dai primissimi anni la pratica della collaborazione e il valore dell’apprendimento cooperativo, finalizzandoli al potenziamento delle abilità cognitive, sociali e relazionali di bambini e adolescenti che presto diventeranno adulti, cittadini di una società globale dinamicamente attraversata da una crescente varietà di espressioni culturali sempre più intersecabili e sovrapponibili.
Tuttavia, gli interventi ministeriali degli ultimi anni, ispirati a modelli socio-economici neoliberisti, dettati da emergenze contabili mascherate da scelte falsamente pedagogiche, hanno diffuso un’idea del tutto antitetica rispetto ai principi e ai valori del percorso di educazione e formazione che sovrintende l’attività di insegnamento/apprendimento nel realizzare il fine ultimo dell’istruzione, ovvero la conoscenza di sé e del mondo. Un’idea che, nel lessico semplificato e banalizzato di sostenitori e simpatizzanti, ruota intorno alla parola d’ordine ‘meritocrazia’. ‘Merito’, ‘meritevole’, ‘meritocrazia’, ‘capacità’, ‘eccellenza’, ‘sistema meritocratico’: sono queste le parole e gli stilemi che molti addetti ai lavori e non pronunciano indifferentemente quando affrontano la questione connessa al riconoscimento e alla valorizzazione delle qualità dei nostri studenti, di noi insegnanti, delle nostre scuole. Occorre chiarire un punto fondamentale: ‘merito’ e ‘meritevole’ non sono sinonimi di ‘meritocratico’ e ‘meritocrazia’. E non era certo alla ‘meritocrazia’ intesa come culto dell’eccellenza competitiva ciò a cui pensavano i nostri padri costituenti quando assegnavano alla Repubblica e alle sue istituzioni il compito di:
rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese (art. 3 della Costituzione italiana).
Ovvero, assegnando alla scuola, primo fra tutti, il compito di riconfigurare gli assetti sociali di partenza per promuovere un’eguaglianza non di status bensì fondata sul concreto esercizio della libertà personale. Un sistema meritocratico, basato esclusivamente sul risultato di una performance giudicata ‘dall’alto’ o ‘dall’esterno’, può essere (e spesso lo è) un sistema profondamente antidemocratico, poiché la valutazione ha sempre una sua dimensione pre-giudiziale, non neutrale, presupposta, fin dall’individuazione dei suoi criteri, indicatori e strumenti, e quindi può essere (e spesso lo è) discrezionale e arbitraria.
La meritocrazia, che altro non è che un modello oligarchico di governance, può portare con sé iniquità morale e ingiustizia sociale: laddove è evidente una capacità innata e laddove qualunque evidenza è impossibile; laddove l’attitudine emerge in un contesto socioculturale che la riconosce e la coltiva precocemente e laddove il riconoscimento è tardivo; laddove il giudizio viene espresso all’interno di una cornice ideologica che ha già precedentemente gerarchizzato la quantificazione e la qualificazione degli indicatori da misurare per la sua attribuzione.
L’ Invalsi e il progetto di vita
Il merito e il suo riconoscimento, correttamente intesi, hanno molto più a che fare con l’analisi dei processi formativi (stimolati, valorizzati e osservati nel loro contesto reale) piuttosto che con il loro risultato finale considerato in termini assoluti, spesso condizionato da meccanismi di selezione e competizione fortemente influenzabili da comportamenti opportunistici, che, a scuola, possono generare errori di valutazione, nuove forme di discriminazione sociale oppure promuovere una didattica finalizzata all’addestramento.
Tuttavia, l’approccio cooperativo, centrato sulla costante valorizzazione dei processi di apprendimento nel percorso d’istruzione, sembra costituire una scelta perfettamente antitetica a quella che, da alcuni anni, il Ministero sta implementando nella scuola italiana, con l’introduzione e la messa a regime di un sistema di valutazione nazionale (INVALSI) basato su batterie di test di verifica delle competenze acquisite nel ciclo primario e secondario, di I e II grado, e, in previsione, ben presto anche all’Esame di Stato. I test INVALSI, costruiti sul modello degli europei OCSE-PISA , vengono concepiti ed elaborati come unità di misura degli apprendimenti degli studenti e finalizzati alla valutazione del sistema scolastico italiano. Creati da un gruppo di lavoro che afferisce a un ente pubblico direttamente controllato dal MIUR, i test costituiscono uno strumento di rilevazione esterno alla scuola ma non indipendente, quindi politicamente marcato, che non focalizza le questioni davvero significative dell’apprendimento e del sapere: la capacità di esposizione orale o di composizione di un testo, la capacità di formulazione critica e sistematica del proprio pensiero, la capacità di cogliere ed esprimere i nessi fra più discipline, la capacità di comprendere e produrre opere complesse.
E solo se, vorrei aggiungere, insieme alla rilevazione degli apprendimenti fatta attraverso una pluralità di strumenti diversi, si promuova una forma di responsabilizzazione e di rendicontazione sociale delle scuole (basata in primis sull’osservazione e sull’autovalutazione) che non generi meccanismi di selezione e competizione tra i docenti e tra i diversi istituti, ma che riconosca, valorizzi e incrementi tutti i processi cooperativi dell’attività educativa, nell’organizzazione delle attività scolastiche e nello svolgimento delle attività didattiche curricolari ed extracurricolari; nel rapporto con le famiglie e con le istituzioni culturali e sociali; nella partecipazione democratica e collegiale agli organi di autogoverno della scuola (Angelo Paletta, La scuola socialmente responsabile. Ripensare i meccanismi di accountability nella prospettiva del Bilancio Sociale, Rivista dell’Istruzione, 6/2007, Maggioli Editore, Rimini).
La formalizzazione, attraverso l’uso sistematico di test standardizzati, di un regime di libera concorrenza sul mercato dell’istruzione statale, costituzionalmente garantita come strumento di pari opportunità per tutti i cittadini, cancellerebbe in modo definitivo qualunque riflessione culturale sul progetto dell’offerta formativa e, più in generale, sull’istruzione e sul suo ruolo sociale e civile, riducendola a strategia di marketing e di promozione sul territorio di un mero prodotto di consumo. Si leggano, a questo proposito, le puntuali riflessioni di Diane Ravicth, autorevole esponente del Dipartimento dell’Istruzione del Governo federale americano (The death and the life of the great american school system. How testing and choise are underminig education, Basic Books, New York, 2010):
Il problema dell’uso dei test per prendere importanti decisioni in merito alla vita delle persone è che i test standardizzati non sono strumenti precisi. Sfortunatamente molti funzionari eletti non lo capiscono, sicuramente non lo capisce l’opinione pubblica. Le persone credono che i test abbiano validità scientifica, come un termometro o un barometro, e che essi siano obiettivi, non offuscati dal fallibile giudizio umano. Ma i punteggi dei test non sono paragonabili a pesi o a misure standard; essi non hanno la precisione di una scala o di un parametro medico. I test variano nella loro qualità, e anche i migliori possono a volte essere soggetti a errori, a causa di errori umani o di errori tecnici. Difficilmente una tornata di test passa senza episodi di cantonate da parte delle principali società che elaborano i test. Talvolta le domande sono malamente espresse. Talvolta alle risposte viene attribuito un punteggio sbagliato. Talvolta la risposta che si suppone giusta è sbagliata o ambigua. Talvolta due delle quattro risposte a una domanda a risposta multipla sono egualmente corrette.
Una valutazione di sistema che miri a innalzare il livello generale dell’istruzione e che abbia come obiettivo reale, e non come puro slogan demagogico, la valorizzazione delle qualità umane dovrebbe piuttosto essere sostenuta da politiche scolastiche di investimento sulla scuola (questa sì una fondamentale raccomandazione da seguire della Comunità Europea, che definisce l’investimento in istruzione e formazione “un indicatore globale”), sulla formazione continua degli insegnanti (disciplinare e multidisciplinare) e sull’apprendimento permanente dei cittadini in contesti formali, cioè scuola e università, “essenziale, non solo per la competitività, l’occupabilità e la prosperità economica, ma anche per l’inclusione sociale, la cittadinanza attiva e la realizzazione personale delle persone che vivono e lavorano nell’economia della conoscenza”.
Relativismo e pluralismo devono essere assunti come principio e come metodo, mobilitando gli interessi e le attitudini di ciascuno e diversificando le possibilità di apprendimento, per garantire il rispetto dei diritti di tutti proprio in virtù della disuguaglianza costitutiva dell’essere umano nella sua dimensione biologica e sociale, per offrire un percorso articolato di conoscenza critica e un tessuto di saperi complessi che metta ciascuno in condizione di realizzare in modo autonomo e dinamico le proprie “capabilities”, ovvero quel ventaglio di occasioni che, coniugato con le capacità personali, rende possibili i funzionamenti significativi degli individui nello spazio interazionale e sociale. (Giovanni Liotti, La dimensione interpersonale della coscienza, Carocci, Roma, 2008, p.102).
Umanità ed empatia
Non si tratta semplicemente di garantire alla scuola risorse adeguate, condizione necessaria ma non sufficiente, né di applicare alla lettera il principio del “dare a ciascuno secondo i propri bisogni”, trasmessoci con passione dall’esperienza di don Milani a Barbiana. Si tratta, piuttosto, di spostare il focus dell’attività didattica dall’acquisizione degli strumenti necessari alla realizzazione di obiettivi di apprendimento (in termini di risorse, beni materiali o oggetti utili) all’acquisizione di un ventaglio di capacità di funzionamento soggettivamente significativo, cioè consapevole, autonomo e autodeterminato. E’ sotto questo profilo che appaiono così fondamentali, in una relazione tra insegnante e alunno finalizzata allo sviluppo delle capacità cognitive e operative fin dai primissimi stadi della scolarizzazione primaria, il ruolo e la funzione dell’empatia: se è vero che “la capacità di comprendere e condividere l’intenzionalità dell’altro, unita alla conseguente capacità di imitazione e di apprendimento culturale, sarebbe dunque la principale ed esclusiva caratteristica, filogeneticamente determinata, della cognizione umana” (Terrence W. Deacon, La specie simbolica. Coevoluzione di linguaggio e cervello, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2001, pag. 414) ne consegue che modalità di cooperazione empaticamente acquisite costituiscono la risorsa fondamentale di un’attività educativa realmente emancipatrice e costruttrice di capability.
Costruire un percorso di istruzione realmente efficace e significativo per i nostri studenti attraverso una comunicazione empatica, che non miri a gerarchizzare in un modello piramidale e conflittuale le loro progressive conquiste del sapere, significa promuovere stili di apprendimento non competitivo, privilegiare attività di ascolto, elaborazione, riflessione non strettamente legate a criteri valutativi, ma significa soprattutto rigettare il lessico economicistico e le pratiche imperanti di una scuola-azienda misurata sulle ‘competenze’, sul ‘profitto’, sulla ‘performance’, sulla ‘competitività’, su un sistema di ‘debiti’ e ‘crediti’ e sullo ‘sviluppo del capitale umano’.
Significa, insomma, riportare la nostra attenzione sui valori che imperniano il nostro progetto di vita e mettere i nostri studenti in grado di riconoscere e costruire il proprio. In quella dimensione relazionale, reciproca e intersoggettiva, in cui ogni studente – non con pari opportunità di mezzi bensì con pari opportunità di funzionamento – può imparare a definire se stesso e a diventare cittadino del mondo.
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NOTA
Questo articolo è apparso in forma lievemente diversa col titolo La scuola di tutti e per ognuno. Meritocrazia selettiva e cooperazione inclusiva in “La società degli individui”. Quadrimestrale di filosofia e teoria sociale’, 45, 2012/13, Franco Angeli.
A proposito delle classifiche, è opportuno ricordare che il sistema scolastico finlandese risulta da molti anni ai vertici della classifica Ocse-Pisa. Esso è gratuito e interamente finanziato dallo Stato; anche gli istituti gestiti dai privati non possono mettere alcuna tassa per la frequenza o per lo svolgimento di preselezioni, e devono utilizzare fondi statali (viceversa, il finanziamento pubblico delle scuole private in Italia, ancorché costituzionalmente vietato, è sistematicamente realizzato da tutti i governi). Le classi sono solitamente poco numerose, con un massimo di circa 20 studenti per i primi anni del percorso scolastico. Gli investimenti dello Stato nell’istruzione sono tra i più cospicui in Europa, le scuole migliori e più attrezzate vengono costruite nei quartieri più svantaggiati. Il reclutamento degli insegnanti è estremamente rigoroso ma gli stipendi premiano i docenti più qualificati. Manca, infine, qualunque tipo di rigido sistema di ispezione e di controllo, né si svolgono test nazionali standardizzati.
Relativamente agli indirizzi europei si veda: Commissione delle Comunità Europee, Un quadro coerente di indicatori e di parametri di riferimento per monitorare i progressi nella realizzazione degli obiettivi di Lisbona in materia di istruzione e formazione, Bruxelles, 2007.
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