Due rappresentazioni letterarie della maschilità adolescente
Il presente saggio è la rielaborazione di un intervento proposto in occasione del Convegno “La questione maschile. Archetipi, transizioni, metamorfosi” (Padova, 24-27 marzo 2015) confluito nell’omonimo volume curato da Saveria Chemotti (Il Poligrafo, Padova, 2015).
«Tutti gli individui umani, come risultato della loro disposizione bisessuale ed eredità mista, combinano in sé caratteristiche sia maschili che femminili, perciò la pura maschilità e femminilità rimangono costruzioni teoriche dal contenuto incerto». S. Freud, Alcune conseguenze psichiche della differenza anatomica tra sessi (1925).
Questo intervento riguarda la rappresentazione dell’adolescenza maschile e dei luoghi del controllo sociale novecentesco, come il collegio, la palestra, il bordello, in cui il soggetto è chiamato ad adeguarsi alla logica dominante, nel momento in cui alla maschilità si sostituisce la mascolinità. (Cfr. A. Di Biasio, Studiare il maschile, in «Allegoria», 61, 2010, pp. 9-36). Il taglio adottato presuppone l’interpretazione delle scritture letterarie come possibile dicibilità di logiche emotive e modelli corporei e affettivi rimossi dal modello dominante. Entrambi i romanzi esaminati (Il lanciatore di giavellotto di Paolo Volponi e Aracoeli di Elsa Morante) escono nei primi anni Ottanta ma sono ambientati in epoca fascista, in cui i riti ginnico-fallici assumono una dimensione di massa.
La tragedia di Damìn
Il lanciatore di giavellotto (1981) di Paolo Volponi racconta l’adolescenza di Damìn Possanza a Fossombrone durante il fascismo fino al 1940. Il protagonista potrebbe sembrare un tipico personaggio della narrativa del primo Novecento: l’adolescente incapace di integrarsi. I due poli tematici presenti in questo romanzo sono il corpo e la storia: il disastroso apprendistato sentimentale di Damìn e la prima acculturazione di massa del fascismo interagiscono reciprocamente tra loro come in un campo di forze. La vicenda prende le mosse dalla fine di un eden materno. Damìn, a nove anni, è ancora immerso in un rassicurante idillio domestico incentrato sulle figure della madre e del nonno:
Il centro del mondo che ogni giorno cresceva e si illuminava sempre di più era la splendida figura del nonno, forte e alto, manovrabile, utile anche per godere ed esercitare meglio la proprietà della madre. La felicità ricorrente che lo sosteneva in tutto e per tutto era l’immagine di se stesso attaccato al petto della madre, con una mano ficcata tra le due mammelle e con l’altra protesa a cercare di toccare la faccia del nonno: la sua bocca e i suoi baffi. (P. Volponi, Il lanciatore di giavellotto, Torino, Einaudi, 2015, p. 10)
Il mondo edenico del ragazzino è destinato a una frantumazione, precoce e dolorosa. Egli, ormai adolescente, intuisce in chiesa la relazione della madre col gerarca fascista Traiano Marcacci, «l’uomo dal pugnale d’argento», e arrampicato sul fico, assiste nell’orto allo «spettacolo vero e immenso della colpa della madre» (p.24), condannando il resto della sua vita a un’ambivalenza irrisolvibile fra vergogna e attrazione mista a odio per lo stesso vincitore Marcacci, «uomo bellissimo e conquistatore e persino assassino» (p. 26). Costretto alla coazione a ripetere, scruta i rapporti sessuali fra la madre e il suo amante e trova rivalsa nell’autoerotismo vissuto come rituale ossessivo. La fissazione si traduce nell’impossibilità di uscire da se stesso: la metafora del vaso compare costantemente nel testo riferita al corpo di Damìn per raffigurare la sua incapacità di «versarsi» negli altri. Mentre i suoi coetanei, riuniti in bande, spiano le donne al fiume acquattati fra le canne o avviano la loro iniziazione sessuale nei bordelli, a lui non è consentito «mettere in scena un’altra donna qualsiasi che non fosse sua madre, o qualsiasi altro incontro d’amore che non diventasse subito quello fra la madre e Marcacci» (p. 33).
I luoghi-chiave dell’apprendistato distruttivo di Damìn sono dunque i giochi ginnici e la festa rurale. Ai giochi regionali, ad Ancona, il ragazzo è accompagnato in corriera dallo stesso Marcacci. È la prima volta che parte da solo ma lo fa al comando dell’uomo che aveva gli aveva «rotto e sottratto la madre e la città», e che ora gli impone «la guida» e «il giudizio nel primo viaggio verso il mondo» (p.95). La trasferta sportiva è insomma occasione per una verifica e un confronto corporeo con il maschio adulto e rivale. Damìn prima vomita, poi riesce a vincere, a «scagliare il giavellotto rovesciando tutto se stesso, fino a traboccare d’amaro» (p.99). Gli altri giovani atleti si assentano per una rapida baldanzosa visita al casino mentre Damin, solo e dolente, vive la vicinanza fisica del virile gerarca in modi ambivalenti, avverte il suo odore «forte e confidente» (p.100), quando alza gli occhi finisce sempre per cercarlo, sente «vicino il peso di quel corpo che era l’oggetto sconcio dell’amore di sua madre. Avrebbe voluto vederlo meglio e anche toccarlo. Addirittura ferirlo». (p. 97).
L’altra sequenza decisiva sequenza del romanzo, incentrata sulla festa rurale, è una delle pagine di Volponi in cui si fa più evidente la qualità visiva della sua scrittura. Vi domina il punto di vista allucinato di Damin, isolato e vulnerato dalla volgarità oscena della «folla enorme dei ballerini»:
le massaie rurali smisero di ballare e si buttarono quasi tutte a terra manovrando le sottane fino ai mutandoni di quel loro sgargiante costume, recuperato in una falsa tradizione per l’ostentazione di virtù ormai del tutto scordate. (p. 207)
L’intero episodio del ballo è intervallato da diverse zoomate sulla roncola, sotto i chiaroscuri della luce lunare, con effetti di alta drammaticità in un superbo crescendo tragico:
Damin esplose subito dentro l’arco che lo scuoteva, travolto dalla collera già pronta: proprio per evitare la scena seguente, immancabile, nota, tante volte vista e più ancora immaginata, con il corpo della donna nudo sulla terra, sotto quello del maschio assassino: quello di sua madre sotto le membra nere di Marcacci e adesso quello di sua sorella sotto il pallore di quel libidinoso.(p. 216)
Una possibile reintegrazione e sopravvivenza di Damin, prima che divenga fratricida e suicida, avrebbe potuto darsi nella creazione artistica. Damìn sembra trovare, nel sedicesimo capitolo, poco prima della “festa crudele”, una possibilità di superamento dei propri turbamenti nella conquista delle abilità del disegno, durante il periodo trascorso presso l’Istituto d’arte di Urbino. Sarà tuttavia il dolore ad avere la meglio: non c’è alcun spazio per l’educazione sentimentale di Damìn entro il dominio di un inconscio collettivo androcentrico (Cfr. P. Bourdieu, Il domino maschile, Milano, Feltrinelli, 1999).
Manuel, maschio materno
Aracoeli, il romanzo terminale di Elsa Morante steso a partire dal 1976 e pubblicato nel 1982, è una lunga rimemorazione da parte del protagonista della fine tragica del proprio stato fusionale, edenico e originario con la madre Aracoeli. Per Manuel, come si coglie fin dall’ incipit, il piacere, la bellezza sembrano collocate tutte indietro, all’origine, in un “c’era una volta”, prima dell’abbrutimento:
Dal tempo che ero bello, mi torna all’orecchio una canzoncina speciale delle sere di plenilunio, della quale io non volevo mai saziarmi. E lei me la replicava allegrissima, sbalzandomi su verso la luna, come per fare sfoggio di me verso una mia gemellina in cielo. (E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi, 1982, p. 3)
Il romanzo narra la personale apocalisse del venir meno delle nenie di culla e dei baci di saliva materni, l’estinguersi del «tempo che ero bello» in favore della deformità fisica e affettiva che trionferà nel tempo degli «infelici amori» degradanti. Eppure, nel moto di degradazione dell’io narrante, si istituisce al contempo una ricerca del tempo perduto, privata e collettiva, che passa per i luoghi di controllo sociale. Come accade, a esempio, per gli eventi del Collegio religioso piemontese avvenuti in piena guerra mondiale, quando il protagonista è un dodicenne.
In seguito allo scoppio della seconda guerra mondiale, Manuel rimasto orfano di madre, è condotto in uno squallido Collegio dove conosce tuttavia «una notte di felicità incantata e innocente, mai più provata dopo la perdita di Aracoeli» (p. 87). Il contesto è quello dell’universo concentrazionario di specie religiosa: la camerata, fiocamente illuminata da icone sacre, è sorvegliata da un uomo gigantesco, detto l’Aquila per il grande naso, che si cura di evitare che i piccoli maschi incorrano in “atti impuri”:
Nell’unico dormitorio, dai finestroni schermati, la tenebra era malamente rischiarata da un lumicino detto eterno, dinanzi all’immagine di un agnello incoronato d’oro. In fondo al dormitorio, di là da una tenda tirata a metà, c’era il letto del sorvegliante. […] E faceva, prima, fra i nostri letti, una ronda regolare (alla quale, certe notti, potevano seguirne altre) per controllare, a lume di una pila elettrica, che nessuno di noi tenesse le mani sotto le coperte. Diceva infatti che patire il freddo era sempre meglio che peccare; e che le mani sotto le coperte erano una tentazione al peccato. (p. 87-88)
Una notte, un bambino impaurito e balbuziente si avvicina di nascosto al letto di Manuelito, e chiede piangendo ospitalità perché abituato a dormire con la madre. Il ritratto di questo ragazzino (il cui cognome è Pennati) lo colloca subito nella schiera dei bimbetti creaturali morantiani: «il piccolo globo lanuginoso della sua testa», i cigli «straordinariamente lunghi, incurvati in alto» (p. 89).
Accogliendo, proteggendo e scaldando nel letto quel bambino, Manuel diventa “maschio materno”:
Qua mi usurpò, lentamente, una suggestione inverosimile: come se davvero io fossi sua madre. Sentivo fra la gola e il petto, la lanugine della sua testa tonda e l’esiguo solletico dei suoi cigli inumiditi. Il suo fiatino e i miei respiri scaldavano insieme la nostra cuccia, e il mio petto, attraverso la camicia, toccava il suo torace di passero, coi battiti fiduciosi del suo cuore. Io da quel corpo pigmeo (…) ricevevo un senso d’ilarità quieta, e insieme di superba responsabilità. Maternità, non c’era altro nome per quella mia stranezza. Io ero una madre col proprio figlio piccolo. Però la nostra appartenenza alla specie umana non era necessaria. Piuttosto, io mi ero trasformato in una animalessa (pecora, mucca, rondine, cagna) che proteggeva il suo cucciolo dall’orrore della società umana (pp. 91-92)
L’orrore avrà presto la meglio su quella notte d’incanto. Non solo perché il sorvegliante del Collegio scoprirà, dividerà e punirà i due piccoli maschi trasgressivi, ma soprattutto perché Manuel adulto è destinato a rappresentare la negazione accanita, impietosa, malevola, della celeste creaturalità, è un Useppe andato a male, la cui deformità è fissata dallo specchio di un lercio albergo spagnolo: «un nudo come quelli delle pitture di Bacon». (F. Fortini, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 243).
Nella sua disperata ricerca dell’origine, la voce litaniante di Manuel adulto chiederà al fantasma materno una reintegrazione regressiva, un ritorno al regno delle madri, una fagocitazione perturbante («Ma tu, mamita, aiutami. Come fanno le gatte con i loro piccoli nati male, tu rimàngiami. Accogli la mia deformità nella tua voragine pietosa» p.109). Ma, in età puberale, almeno una notte di «perfetta allegrezza» Manuel l’ha incontrata, un “miracolo”, sciolto dal passato e dal futuro, esprimibile grazie alla forma utopica della rappresentazione letteraria, oltre la tirannia del corpo interpretato attraverso i suoi significati culturali dominanti, duramente performativi:
La notte, dunque, finiva. E io, per dare una sveglia discreta al mio compagnuccio notturno, spensieratamente gli solleticai l’ascella con le dita. (p. 92)
Fotografia: G. Biscardi, Due rappresentazioni letterarie della maschilità adolescente
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