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diretto da Romano Luperini

Perché leggere “La dismissione” di Ermanno Rea

“L’espressione malinconica dei tuoi occhi, la tua aria tra rassegnata e distratta, i tuoi gesti molli…ecco un buon punto di partenza. Che cosa c’è dentro di te in questo inizio avanzato di millennio?”

Bella domanda per cominciare un libro. Una grande desolata radura, che cos’altro potrebbe esserci? Quanto ai miei immediati dintorni (strano modo di alludere a mia moglie Rosaria), hai fatto bene a tirarli in ballo tra le prima quattro domande che mi hai sottoposto, tanto per entrare in argomento. Giusto una settimana fa Rosaria mi ha preannunciato infatti di essere in procinto di partire per un periodo di riflessione (si dice sempre così quando un matrimonio comincia a traballare).

Non è la prima volta. Di pause di riflessione, nell’ultimo anno e mezzo, se n’è concesse ben tre (è partita, è tornata, e ha continuato a tacere, a ignorarmi: proprio come prima). Questa sarà la quarta. Me lo ha comunicato mentre era a letto e faceva finta di leggere un giornale. Io sfogliavo alcune carte seduto dietro a un tavolino a pochi passi da lei. […]

Mi sono impegnato a raccontarti la mia vita senza neanche l’ombra di una reticenza; a denudarmi innanzi tutto come uomo: marito, padre, amante, macchina di pensieri e di sentimenti quale ogni essere umano è. Intendo stare ai patti sino in fondo. A partire da subito. […]

Ed eccomi alla fabbrica. Anzi, all’ex fabbrica. Ne rimane in piedi ancora un pezzo – il treno di laminazione, ma per fortuna sta per andare via anche quello. Meno male: la sua presenza era diventata un incubo per tutti. Pensa, sono dieci anni che il tuo amico Vincenzo Buonocore assiste al medesimo spettacolo: come si sgretola e scompare – ma piano, pianissimo, una scheggia alla volta – una grande acciaieria pur condannata in blocco in maniera irrevocabile. Quando si dice un’agonia. Dieci anni possono essere una vita, e tu vuoi che io te li racconti uno per uno: devo essere proprio pazzo ad averti detto di sì.

(E. Rea, La dismissione, Milano, Feltrinelli, 2014, pp.11-13)

Perché segna il ritorno del tema del lavoro nella narrativa contemporanea (nel momento in cui il lavoro viene meno)

Pubblicato agli inizi del nuovo millennio, La dismissione (2002) si configura come il “capostipite” della narrativa contemporanea sul lavoro: il libro, a cavallo tra inchiesta e reportage, è rilevante infatti per il ritorno in narrativa di questo tema, assente dal 1989, anno di pubblicazione delle Mosche del capitale di Paolo Volponi. Più in particolare La dismissione torna a raffigurare il mondo operaio a distanza di alcuni decenni dalla stagione della cosiddetta “letteratura industriale” affermatasi tra gli anni Sessanta e Ottanta del Novecento: si pensi a “classici” del genere come Bianciardi, Ottieri, Balestrini, Di Ciaula. Tuttavia mentre in quei romanzi la presenza operaia, per quanto rabbiosa o alienata, è in una fase di lotta per la conquista dei propri diritti, La dismissione rappresenta, fin dal titolo, la fine della fabbrica fordista in favore delle molteplici delocalizzazioni che investono la produzione industriale italiana dagli anni Novanta.

Dal punto di vista letterario il libro di Rea costituisce almeno per tutto il decennio successivo una sorta di unicum dal momento che la narrativa sul lavoro si concentrerà in larga parte sul racconto del precariato (esemplari a questo proposito rispettivamente i libri di Michela Murgia, Il mondo deve sapere  e di Aldo Nove, Mi chiamo Roberta, ho quarant’anni, guadagno 250 euro al mese entrambi del 2006) o su quello delle morti bianche (si pensi ad Amianto (2012) di Alberto Prunetti e a La fabbrica del panico (2013) di Stefano Valenti).

Per la stesura de La dismissione, Rea, giornalista e scrittore napoletano, è tornato nella sua città dove ha seguito alcune fasi del lungo processo di smantellamento dell’Ilva di Bagnoli, una delle più importanti acciaierie italiane. L’autore, relazionandosi con Vincenzo Buonocore, l’operaio addetto allo smontaggio delle colate continue, ha raccolto una serie di materiali che si distillano in un racconto nel quale non fiction e fiction si ibridano, come del resto accade in molte scritture dell’estremo contemporaneo.

Paradossalmente, dunque, è proprio il momento della dismissione a costituire per Vincenzo l’acme della sua parabola professionale: l’operaio specializzato rappresenta l’“ossimoro” dell’Italia postindustriale dal momento che l’esperienza acquisita in anni e anni di mestiere viene messa a disposizione dello smantellamento – e della svendita – delle colate continue. Particolarmente interessanti risultano, a questo proposito, i primi capitoli del libro, nei quali Buonocore, dopo aver lavorato per quattro anni “senza alcuna tensione” a un progetto astratto di smantellamento dell’impianto, assume con crescente coinvolgimento l’incarico dello smontaggio per conto della multinazionale Steel Works.  La progettazione della complessa operazione, se da una parte assorbe tutte le energie mentali di Vincenzo, dall’altra lo rende inviso a molti colleghi che guardano con sospetto la sua inusuale posizione professionale, della quale lui stesso percepisce l’implicita contraddizione:

Un paio di giorni dopo ricevetti la prima delle tre lettere anonime con le quali sono stato minacciato di rappresaglia se avessi continuato a collaborare con la Steel Works. […] Mi sarebbe piaciuto poterne discutere con lui, intendo l’uomo misterioso […]. Del resto, anche se fossi riuscito a parlargli, che cosa sarei stato in grado di dirgli? Che mi stavo adoperando soltanto affinché le colate continue non avessero troppo a soffrire a causa del trasferimento da Bagnoli a Meisham?” (p.55-56)

Buonocore incarna di fatto l’emblema della sconfitta del lavoro operaio e della coscienza di classe: accogliendo l’invito dell’ingegner Lonardi a sedersi “in perfetta sintonia di vedute” per “accogliere […] coloro che, un pezzo alla volta, si sarebbero portati a casa propria, in Cina, una fetta importante della nostra vecchia fabbrica”, Rea rappresenta la “metamorfosi del lavoro” così come il filosofo André Gorz l’ha esposta nel suo omonimo saggio.

Perché ci ricorda che il lavoro è innanzitutto un momento collettivo, di identità sociale

La dismissione intreccia le vicende personali dell’io narrante – cui Buonocore accenna fin dall’incipit –  alla storia collettiva dell’acciaieria napoletana: nel testo si avverte infatti la voce corale delle dinastie operaie che, nei decenni, hanno dato all’Ilva generazioni di lavoratori.

Uno dei testimoni che meglio incarna la stagione d’oro della fabbrica è Carlo Martinez, emblema dell’operaio che vive il lavoro non solo come gesto fondativo della sua identità, ma anche come forma di solidarietà di classe. Ricordando un vecchio sciopero di importanza storica l’uomo racconta a Buonocore:

“come avremmo potuto non continuare a combattere e a scioperare di fronte ai centocinquantaquattro licenziamenti pretesi a muso duro dalla direzione per scarso rendimento, che era allora la formula con cui all’Ilva ci si liberava degli operai politicamente sgraditi? […] Credevamo in qualcosa, Buonocore. Credevamo nella fabbrica. Sapessi com’era bella: la guerra era appena passata e noi l’andavamo ricostruendo un pezzo alla volta…” (p.74)

Altra figura esemplare dello stabilimento dell’Ilva, assurta a mito, è “l’Inglese”, chiamato così da tutti per la sua bellezza e la naturale eleganza tanto che, ricorda Buonocore, “le donne se lo mangiavano con gli occhi”. La fama dell’Inglese, rimasta ben oltre la sua morte, è legata alla sua attività sindacale, più che alla sua avvenenza: “era sempre a disposizione di tutti, sempre pronto a dare consigli e a dipanare matasse”. Si deve a lui una rilevante vertenza sindacale grazie alla quale, a seguito della morte bianca di un collega, pretese dall’azienda che quella colata di ghisa in cui il compagno era tragicamente precipitato venisse seppellita in quanto il cadavere le aveva “conferito un’anima”. Il momento stesso dell’incidente destina l’anonimo operaio e l’Inglese a venire iscritti nei ricordi e nelle testimonianze orali degli operai dell’impianto per generazioni:

Finivano gli anni cinquanta e lo stabilimento era già assicurato, quanto a incidenti sul lavoro, per un morto al giorno (dopo, al momento di massima espansione, l’assicurazione, si dice, sali tre morti al giorno). […]

Ma fu un caso speciale tragico a collocarlo come sopra a un piedistallo. Era di turno in acciaieria quando accadde una di quelle disgrazie che poi non si finisce più di raccontare: per tutta la vita. Un uomo cade in una siviera colma di ghisa incandescente, densa come una marmellata color rosso rubino, che lo inghiottì rapida e silenziosa: appena uno sfogo, un po’ di fumo, un lieve gorgo.

Non fu il solo ad assistere disperato alla scena. Tutti impietriti. L’Inglese allora si tolse la giacca e la fece volare verso il centro della siviera, come per coprire un immaginario cadavere, come per dirgli: sono con te, siamo tutti con te. (Ivi, p. 338)

Nelle righe successive, quelle nelle quali Buonocore rievoca la vittoria degli operai seguita alla vertenza sindacale, Rea sceglie di opporre molto chiaramente il senso della solidarietà operaia rispetto alla fredda gestione del caso chel’amministrazione dell’azienda avrebbe portato avanti:

Ne nacque una vertenza sindacale: la direzione avrebbe voluto che quella ghisa fosse messa in lavorazione normalmente e trasformata in acciaio; gli operai pretendevano invece che fosse sotterrata da qualche parte. Anche se non conservava più alcuna traccia del loro compagno, dicevano, egli era comunque presente: come se le avesse conferito un’anima, l’avesse resa materia umana. […] alla fine anche la controparte […] dovette ammettere che sì, in effetti quella ghisa non poteva più essere considerata materia cieca e innocente, non aveva più nulla del comune spillaggio d’altoforno, in quanto aveva effettivamente subito un’imprevedibile e inquietante trasformazione. (p.338-339)

In questo senso anche il racconto del crollo della torre piezometrica, atto ultimativo con il quale si chiude definitivamente l’impianto al cospetto dei lavoratori riuniti, accompagnato inaspettatamente dalla melodia dell’Internazionale intonata da un so­litario sassofonista, rappresenta non solo la scomparsa materiale della fabbrica ma anche la celebrazione simbolica del morente orgoglio operaio:

La torre vacilla per un attimo come un ubriaco. […] Poi crolla: un tonfo sordo che è soltanto il prolungamento del boato prodotto dalla dinamite.

Fu più o meno a questo punto che sulla folla, dabbasso, cominciarono a piovere le note (quasi rabbiose, quasi do­lenti, quasi disperate) dell’Internazionale cantate da un so­litario misterioso sassofono. Molte teste si alzarono: non ci potevano essere dubbi sul fatto che la musica arrivasse dall’alto, ma da dove con precisione? Furono indicati vari punti; ci fu chi salutò con il pugno chiuso; molti piangeva­no; qualcuno addirittura singhiozzava. […] andò avanti a lungo. Sempre con quel motivo, con quelle stesse note secche e straziate: Compagni, avanti il gran partito, noi siamo dei lavoratori / rosso in petto un fiore c’è fiorito / e una fede c’è nata in cuor… (p.332)

Perché permette di riflettere sull’idea di lavoro che permea la scuola odierna

Proporre la lettura integrale o antologica della Dismissione nelle classi del triennio può essere quanto mai di aiuto per suscitare delle riflessioni critiche relative alle strategie retoriche con cui il MIM dipinge il mondo del lavoro ai nostri studenti.  Attraverso le numerose ore di PCTO (Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento) alle quali, dallo scorso anno scolastico, si sono aggiunte le 30 ore di Orientamento  (con l’istituzione del Docente Tutor che dovrebbe porsi perfino come “consigliere delle famiglie” e la realizzazione, da parte di ciascuno studente, del “capolavoro” da caricare sulla piattaforma UNICA nel proprio E-Portfolio) gli studenti di ogni indirizzo di studi – dagli istituti professionali ai licei senza distinzione alcuna – vengono indirizzati verso un idillico mondo del lavoro pensandosi delle monadi isolate che, in primis, devono essere dotate di soft skills e di abilità di public speaking; in particolare, poi, gli studenti di liceo si cullano nell’illusione di un lavoro da “colletto bianco”, nel quale la fatica fisica e materiale siano bandite: i corpi (il sudore sulla fronte o lo sporco sulle mani ma anche le pacche sulle spalle e la mano tesa per aiutare un compagno) e la collettività (l’idea di far squadra per realizzare insieme un manufatto, ma anche per chiedere il rispetto di diritti acquisiti) sono i grandi sconosciuti della retorica sul lavoro da parte del MIM. Quei corpi e quella collettività che, insomma, hanno caratterizzato la classe operaia che Rea ritrae attonita davanti allo smantellamento dell’Ilva, sembrano del tutto scomparsi; tuttavia basta avvicinarsi a una zona industriale ancora attiva (Marghera, Monfalcone, solo per citarne due) per accorgersi che quei corpi ci sono ancora e che la loro invisibilità è dovuta al fatto che non sono più, nella maggior parte, “corpi italiani”.

Attraversare le nude e asettiche statistiche di Unica con gli studenti di Quinta e confrontarle con le pagine della Dismissione – o di altri testi cardine sul lavoro dell’estremo contemporaneo –  dove gli spazi della fabbrica e le vite degli operai sono strettamente intrecciati, può dar modo di istituire un dialogo critico e un confronto sull’immagine che si vuole fornire dall’alto rispetto al mondo del lavoro e alla realtà di quel mondo.

La letteratura smaschera la retorica ministeriale, con tutti i mezzi e i generi a sua disposizione: narrativa, poesia, graphic novel, albi illustrati, teatro. Ermanno Rea nella Dismissione, Francesco Targhetta nella sua Elegia per Marghera (tratta dalla raccolta La colpa al capitalismo), Pia Valentinis nella storia familiare a fumetti Ferriera (Coconino Press), Sonia Maria Luce Possentini nell’autobiografico albo La prima cosa fu l’odore del ferro (Rrose Sélavy),  Scandisk di Vitaliano Trevisan – testo teatrale contenuto nella cosiddetta “trilogia della memoria”  Wordstar(s) – sono solo alcuni possibili titoli suscettibili di un attraversamento didattico che demistifichi la bolla di irrealtà che viene proposta nelle ore di scuola, sottraendole per lo più alle materie curricolari. Un modo alternativo – e integrativo – rispetto agli attuali percorsi di orientamento.

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