
Ancora su Il corpo di Stephen King. Un’esperienza didattica
Col passare del tempo ho sempre più l’impressione che insegnare nella scuola sia «più una strada di dubbi che di certezze», come scriveva Vittorio Sereni a proposito della pratica poetica. Più trascorro il mio tempo in classe, più mi chiedo quale sia il significato della mia professione e come svolgerla bene.
Nel mio caso si tratta più specificamente di insegnare Italiano e Storia in un Istituto Tecnico Industriale Statale di una zona di frontiera (se vogliamo ancora scomodare Sereni e la sua prima raccolta poetica): la mia scuola è infatti esattamente dove la città finisce ma non finisce, al confine tra la vasta provincia a sud della mia città e i grandi quartieri periferici della città stessa, noti anche altrove grazie a un famoso impianto industriale automobilistico e alle case in serie degli operai.
Più volte ho la sensazione di lavorare in una situazione di marginalità non tanto – non solo – per la posizione geografica o per le storie dei ragazzi e delle ragazze che frequentano il mio Istituto (le loro fragilità non sono poi così diverse, in fondo, da quelle proprie di questa giovane generazione), ma perché insegno in un Istituto Tecnico. Insegnare nei Tecnici e nei Professionali significa essere dimenticati spesso, quando si parla di scuola secondaria superiore, dall’opinione pubblica, dai giornali, dalle televisioni, dai colleghi dei Licei, finanche, purtroppo, dalla politica. Se queste scuole vengono ricordate è d’altra parte soltanto per gravi fatti di cronaca o perché le si vuole rendere l’anticamera del mondo del lavoro.
In questo senso di incertezza che sento attorno, ma nella profonda convinzione che la scuola pubblica debba essere un luogo di resistenza con il preciso compito di fornire molteplici chiavi di lettura della realtà e delle società (tra cui, ovviamente, la nostra), mi aggrappo alle letture: sono tanti i libri e gli articoli sulla scuola che mi hanno aiutato a porre le giuste domande (non credo che ci siano risposte giuste sempre e comunque in questo lavoro); i più belli sono quelli scritti dai colleghi e dalle colleghe in giro per l’Italia. È stata un’occasione per riflettere sul mio agire quotidiano in classe, all’interno però di un contesto più ampio e in dialogo con le esperienze altrui.
L’incontro, l’idea, le finalità
Il 27 settembre 2024 su questa rivista è uscito l’articolo Perché leggere (in classe) Il corpo di Stephen King della collega Emanuela Bandini. Da tempo mi chiedevo quale libro potessi leggere alla mia nuova classe prima di soli ragazzi (l’indirizzo è meccanica-meccatronica). Sono stato convinto dalle buone ragioni sostenute da Bandini: il racconto di King è un’appassionante vicenda di formazione, offre molteplici spunti di lavoro e parla dell’importanza di raccontare storie (aggiungo io: ha per protagonisti quattro adolescenti maschi in cerca di sé e di avventura). Rivelo subito, però, anche un altro mio debito: il bellissimo capitolo Stand by Me (come il celebre film di Rob Reiner ispirato al racconto) contenuto nel recente libro di un altro collega, Alfredo Palomba, dal titolo quanto mai eloquente: Il cuore dell’uragano. Lettera a un ministro dell’istruzione sulla scuola che meritiamo (Bompiani, 2024, pp. 250-269).
Ho colto l’occasione al volo e mi sono lanciato: qualche giorno dopo ho comunicato alla classe che tutti i lunedì, alla sesta e ultima ora (!), avrei letto ad alta voce quel racconto; ho precisato, poi, per rassicurare i già preoccupati, che la lettura integrale sarebbe stata portata avanti esclusivamente da me in classe, non da loro a casa. Le reazioni sono state naturalmente varie e non deve stupire il disappunto di chi, poco abituato alla lettura, ha alzato gli occhi al cielo sbuffando. Così come non deve stupire la prima domanda che ho ricevuto in quell’occasione: «Prof, ma l’attività è valutata?».
A quella domanda ho risposto subito di no perché il mio proposito è sempre stato quello di portare in classe una lettura disinteressata, slegata da qualsiasi logica di valutazione e da qualsiasi altro obiettivo secondario: orientamento, educazione civica, interdisciplinarità o altri progetti di cui è ormai piena la nostra scuola. Sono d’accordo con la collega Silvia Azzarà quando scrive, su questa rivista, che «Insegnare letteratura e leggere i grandi classici nella scuola di oggi, pressata da urgenze e logiche che spesso ci sembrano andare in altra direzione, è quasi un atto di “resistenza culturale”».
L’esperienza didattica – preferisco chiamarla così – che ho proposto ha quattro finalità:
- offrire alla classe l’opportunità di ascoltare la lettura ad alta voce di un libro di valore;
- lavorare in modo approfondito su un testo letterario, consapevole che quest’atto richiede «lentezza, riflessione, uno sguardo paziente e aperto alla complessità, tempi distesi che vanno talvolta conquistati e difesi con tenacia in un’organizzazione scolastica che sembra volersi fare contenitore di tante, troppe esigenze» (ancora Silvia Azzarà);
- istituire l’abitudine dell’ora settimanale di lettura, nella convinzione che gli appuntamenti fissi, a scuola, possono essere un elemento positivo (in accordo con la collega Valentina Gianfrancesco, che in Rituali, simboli e accasamento a scuola parla, tra le altre cose, proprio del giorno dedicato alla lettura nella sua classe);
- creare, attraverso la lettura, occasioni di dialogo e di confronto a cui potessero partecipare gli studenti, in modo che avessero tutti, almeno tra le quattro mura dell’aula, uno spazio di ascolto (il garante di questo diritto indiscutibile è ovviamente l’insegnante).
Quest’ultimo aspetto mi sta particolarmente a cuore. Una classe esclusivamente maschile trova difficilmente un proprio equilibrio (o può non trovarlo affatto), come tutti i gruppi sociali forzatamente omogenei. Questo accade per diverse ragioni, tra cui la presenza di pregiudizi, duri a morire, legati alla mascolinità e alla virilità: la lettura di King mi avrebbe permesso di scalfire qualche stereotipo affrontando discorsi che difficilmente i ragazzi avrebbero sentito fuori dalla scuola. L’ora di lettura, in questo modo, prevede per sua natura la partecipazione della classe, coinvolta direttamente nella discussione di volta in volta proposta; poco importa che fosse la sesta e ultima ora del primo giorno della settimana: i ragazzi hanno risposto spesso con intensità e slancio alle mie sollecitazioni – per non parlare di quegli studenti che, apparentemente distratti in altre minime attività, hanno poi riassunto in modo efficace, durante la lezione successiva, quello che avevamo letto la settimana precedente. Sorprendente, poi, il caso di R., che, indaffarato e col capo chino durante l’intera ora, sembrava avesse fatto di tutto tranne che ascoltarmi: stava invece abbozzando la scena elettrizzante in cui i protagonisti attraversano il ponte della ferrovia – a fine lezione si è avvicinato alla cattedra e mi ha fatto vedere il suo disegno con un largo sorriso sul volto: adesso è il segnalibro ufficiale.
C’è da dire un’ultima cosa importante. Spesso i miei studenti conoscono soltanto due tipi di insegnanti-uomini: quelli che rappresentano un modello educativo estremamente rigido, coercitivo e autoritario (quindi un potere arbitrario, consustanziale al potere che si vuole assoluto) e quelli che, al contrario, subiscono l’eccessiva esuberanza della classe perdendone presto la presa. Nelle mie intenzioni c’è sempre stata la possibilità di una terza via di docente-uomo: autorevole ma non autoritario, deciso ma non sordo, accogliente ma non cieco, disponibile a mettersi in gioco e a farsi sorprendere, disposto al confronto senza timori, quindi non muto. E la voce questa volta me l’avrebbe prestata Stephen King.
Prima esperienza significativa in classe: la morte
«Ma voi avete mai visto un corpo umano senza vita?», chiedo alla classe prima di iniziare a leggere, ma senza sapere ancora che quell’ora sarebbe passata in tutt’altro modo. Qualcuno annuisce perché quando era bambino ha visto il corpo della nonna sul letto a casa o quello del nonno in un’anonima casa di riposo. Qualcun altro dice mai (meglio: non ancora), altri più d’uno. Quasi sempre si è trattato chiaramente di persone care, amate in vita. Com’è normale in Occidente, e come ci ricorda Marco Corsi nella bellissima penultima poesia della raccolta La materia dei giorni (Manni, 2021), i ragazzi che ho di fronte hanno «visto la morte diverse volte / e quasi mai era violenta». Nessuna morte umana traumatica né improvvisa, perlopiù malattie, spesso semplicemente la fine della corsa.
Insisto (in mente ho il prosieguo leopardiano della poesia di Corsi: «Allora / mi chiedo, cuore mio, perché ancora / ti spauri dinanzi alla fine naturale / delle cose, perché non ti rassegni / a chiudere gli occhi insieme / alle persone care») e incalzo: «Ma secondo voi è giusto far conoscere a un bambino la morte così da vicino?», «è un bene che i vostri genitori ve l’abbiano fatta vedere?», «se un giorno voi vi doveste prendere cura di un bambino, cosa fareste in una situazione simile?».
Per fortuna non sono tutti d’accordo. È il normale conflitto delle idee ed è bene che venga fuori in determinate forme e non in altre: quale luogo migliore per metterlo alla prova se non la scuola intesa come comunità che ragiona su sé stessa e sul mondo che la circonda? Alcuni ragazzi vorrebbero nascondere il fatto, occultare il corpo e mentire per evitare il trauma; altri, invece, direbbero e mostrerebbe tutto, senza censure. Per qualcuno dipende dalle condizioni del corpo, cioè da quanto è stato martoriato dalla sofferenza, per qualcun altro dipende dall’età del bambino: «Secondo me il limite è intorno ai 5 anni», con sicurezza afferma B.
L’ora passa in fretta (soprattutto per quelli che hanno dalla Presidenza il permesso di uscire un quarto d’ora prima per prendere il treno in tempo) e L. chiude la lezione con una frase che mi sono fatto ripetere: «Se la vita è come la costruzione di una casa e se ogni nostro passo è un mattone, allora un’esperienza come quella di vedere il corpo morto di una persona cara è il cemento che tiene insieme i pezzi». Non è forse quello che dice anche l’io poetico di Corsi alla fine di quella poesia? Non è forse «l’impressione di non aver più, / non aver mai, non aver sempre?».
Seconda esperienza significativa in classe: le paure
Nel tredicesimo capitolo del racconto di King uno dei protagonisti, il giovane Vern Tessio, confessa agli amici, mentre cammina con loro lungo la ferrovia fuori da Castle Rock, di avere un po’ paura di vedere il corpo morto perché sa che potrebbero venirgli degli incubi: «Se è proprio brutto, mi verranno degli incubi su di lui e mi sveglierò pensando che è lui sotto il mio letto, fatto a pezzi in una pozza di sangue».
Per la prima volta uno dei protagonisti problematizza l’avventura attorno a cui ruota tutta la storia, ma, nonostante questo, Vern è comunque attratto da quello che potranno vedere: «Ma sento come se dovessimo vederlo, anche se poi ci sono gli incubi. Sapete? Come se dovessimo… ma forse non dovrebbe essere uno spasso».
Vern, però, si vergogna dei suoi incubi e subito supplica gli amici: «Non lo direte a nessun altro, vero? Non dico degli incubi, ce li hanno tutti – dico di svegliarsi e pensare che può esserci qualcosa sotto il letto. Sono troppo fottutamente vecchio per credere all’orco».
Interrompo la lettura ad alta voce, dico alla classe che noi non siamo fottutamente vecchi per credere all’orco sotto il letto e quindi chiedo: «Allora, qual è la vostra paura più grande?». Le loro risposte, che qui vorrei trascrivere, mi hanno particolarmente colpito: a stento, devo ammettere, ho trattenuto l’emozione.
La mia più grande paura è: la morte in generale, in ogni sua forma; la morte improvvisa e traumatica: es. sparano per strada a mia madre; la morte delle persone a cui voglio bene; l’altezza, nel senso della vertigine; perdere la vista («decisamente meglio perdere l’udito!»); rimanere paralizzato e bloccato a letto; deludere chi crede in me (capiamo subito che non si può deludere chi non crede in noi); sprecare il mio tempo («scrollando i social, ad esempio»); lo scorrere inesorabile del tempo «perché mi pongo degli obiettivi e poi il momento arriva e io non li ho raggiunti»; l’eventualità di non raggiungere gli obiettivi stabiliti «da me o da altri che pensano che io possa/debba raggiungerli»; il tradimento delle persone «a cui ho dato tutto me stesso»; la solitudine in generale e la solitudine che può venire proprio dopo un tradimento; il buio; l’essere osservato al buio; l’acqua e il mare (faccio notare che è la medesima paura di Truman Burbank nel filmdi Peter Weir: l’avete visto?); la povertà: «quando incrocio una persona povera per strada… Non so, provo una strana sensazione che non so spiegare»; il futuro; i ricordi tristi perché «ce ne sono stati molti nella mia infanzia»; un grave infortunio a calcio; la possibilità di ferire i sentimenti degli altri; la possibilità di essere ferito dagli altri; il destino: «se tutto è scritto, allora non posso fare niente per evitarlo».
Cosa verrà dopo? Non lo so ancora, ma le possibilità sono molte. A guidarci, comunque, i quattro amici Gordie, Chris, Teddy e Vern.
«Ho una grande sfida per voi»
Come si reagisce di fronte a queste intime e sincere risposte? Come dovrebbe reagire un buon docente davanti a una classe che è disposta a mettersi a nudo fino a questo punto? Esiste davvero il migliore dei modi possibili? Se c’è, dove o come si impara, dove o come si insegna? Io non so rispondere a queste domande, però sono d’accordo con il collega Alessio Trevisan: se la scuola è il luogo in cui, di fronte alla soggettività e all’Altro, «la dimensione relazionale diventa aspetto centrale», allora è buona cosa che chi educa sia chiamato a indicare un orientamento e a «rendere noto che, in fondo, si cammina sempre verso qualcosa e per qualcosa».
In che modo? Ad esempio sottoponendo le classi, attraverso quel formidabile strumento che è la lettura, «alle domande-toste dell’umano»: chi sono?, chi ero?, chi sarò?, che cos’è giusto fare?, quale direzione prendere?, quali conseguenze?, chi sono gli altri?, chi sono io in mezzo agli altri? Sotto questo punto di vista l’insegnante è chiamato a dare una risposta «che non deve sapere di prescrittivismo ma di autenticità» (Trevisan), e l’autenticità si dà nella relazione educativa intesa come «la condizione di possibilità di un cambiamento con portata e valore trasformativi» (Sara Nosari). La sfida della relazione educativa è proprio questa, ed è tanto grande «perché chiede a chi insegna di compromettersi, cioè di farsi autentico, di sporcarsi le mani se serve, di immergersi nella vita» (ancora Trevisan).
Nel film francese Les grands esprits (2007, diretto da Olivier Ayache-Vidal), François Foucault, quarantenne professore di letteratura francese presso il prestigioso Liceo Enrico IV a Parigi (V arrondissement, a pochi passi dal Panthéon), accetta suo malgrado, per una serie di vicissitudini, il trasferimento in un’altra scuola (il banale titolo della versione italiana è per l’appunto Il professore cambia scuola). Ad accoglierlo in un istituto di periferia a Stains, comune situato nel dipartimento della Senna-Saint-Denis nella regione dell’Île-de-France, è una classe particolarmente turbolenta e con gravi difficoltà di apprendimento.
L’aula diventerà un luogo davvero trasformativo soltanto a patto che si realizzino due condizioni. La prima è il passaggio dalla coercizione alla fiducia nella viva e inafferrabile realtà umana che è sempre ogni classe. All’inizio Foucault assicura una giovane collega che «gli studenti ti rispettano naturalmente quando capiscono che sei inflessibile, quando non passa nulla»: basteranno pochi giorni a fargli capire che nella nuova scuola non può essere così. Il momento di svolta si compie quando un’altra collega gli confida un “segreto”: «gli studenti hanno risultati migliori se gli insegnanti credono nei loro progressi», quindi «non ci sono cattivi studenti». La seconda condizione è precisamente la scena successiva, quando Foucault entra in classe e annuncia solennemente: «Ho una grande sfida per voi: io vorrei che voi riusciste a leggere un libro, un libro intero». Non un libro qualunque.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
L’itinerario è scandito e permette di essere replicato in una qualsiasi classe di scuola superiore. Mi ha colpito molto il preambolo iniziale e l’idea di scuola alla base del pezzo, che condivido appieno. L’unico modo per rendere ancora vivi i testi è, d’altra parte, interrogarsi sul senso che hanno per noi e sulle domande che pongono agli studenti ma, prima di tutto, agli individui.
Se intendiamo poi l’orientamento come conoscenza di sé e l’educazione civica come rispetto delle regole e ascolto dell’altro e con l’altro, non serve che l’azienda entri a scuola, basta aprire un classico.
Faccio un lavoro completamente diverso, lavoro per una grande azienda che mi chiede continuamente di raggiungere risultati.
Penso quindi al lavoro dell’insegnante, il quale naturalmente ha lo stesso obiettivo di ottenere risultati.
La mia riflessione é quanto sia profondamente diverso il risultato che viene chiesto a me rispetto al risultato che può ottenere un insegnante.
Forse il lavoro più bello del mondo. Forse.
Complimenti