
La scuola ai tempi del Mim /2. Identità tradizionali o individualismi proprietari?
Seconda parte dell’analisi dei libri di Valditara, La scuola dei talenti, di Galli della Loggia, L’aula vuota e di Galli della Loggia e Perla, Insegnare l’Italia. Il primo intervento di questa serie si può leggere qui.
Multiculturalismo e “astrattezza”
La polemica contro il multiculturalismo è l’argomento principale del pamphlet di Galli della Loggia e Perla: da tale polemica discende infatti la controproposta di un curricolo di storia e geografia centrato sulla storia d’Italia. Secondo i due autori, «la rinuncia all’asse formativo dell’identità italiana, avvenuta in omaggio alle letture globaliste e multiculturali, ha creato un vulnus psicopedagogico nella formazione» (Insegnare l’Italia, p. 59). Il superamento della dimensione storica centrata sulla storia nazionale ed europea avrebbe favorito, fin dalla scuola primaria, «l’affermarsi […] della cosiddetta “storia-mondo”» e avrebbe risospinto i programmi verso i «primordi dell’umanità», dal «processo di ominazione» ai «Sumeri e Assiri» (Insegnare l’Italia, pp. 44-47).
Nel libro di Valditara questa critica è espressa per mezzo di un esempio reso noto da una sua dichiarazione pubblica (cfr. il mio precedente intervento): bisognerebbe spostare «l’attenzione verso quei periodi che hanno maggiormente influito sulla costruzione della nostra identità. Non ha senso una scuola che a fine gennaio, in terza primaria, studi ancora i dinosauri» (La scuola dei talenti, ebook, pos. 2420).
La polemica contro il multiculturalismo ha un interessante corollario, quello dell’eccessiva sofisticazione e astruseria delle attuali Indicazioni nazionali. In Insegnare l’Italia se ne criticano le formulazioni cervellotiche, che imporrebbero l’assurdità di «far capire a un bambino di otto-nove anni che cosa sia “la custodia e la trasmissione del sapere” ovvero “il sorgere e l’evoluzione del sentimento religioso e delle norme”», (Insegnare l’Italia, pp. 44-47). Questa critica è puntualmente ripresa nel libro di Valditara: «è […] necessario abbandonare nelle scuole primarie l’astrattezza e la complessità di certe categorie culturali puntando piuttosto sulla narrazione di fatti capaci di colpire l’immaginazione del bambino» (La scuola dei talenti, pos. 2434). Il nesso tra multiculturalismo e astrattezza è meno specioso di quanto non appaia a prima vista.
È un tratto tipico della destra culturale quello di opporre alla logica universalistica, razionalista e socio-costruttivista della sinistra, identificata tout court con l’Illuminismo, una logica “regionale” che riconosca le virtù del particolare e dello storicamente determinato. Archetipo di questa antitesi è Edmund Burke (1729-1797), che nella sua nota polemica anti-francese contrappose la solida concretezza delle istituzioni politiche inglesi, radicate nella storia, all’astratto furore della Rivoluzione, con il suo universalismo del diritto e il suo idealismo, capaci entrambi di fare violenza (materiale e simbolica) alla “realtà”.
Su questa opposizione categoriale si fonda la differenza tra le retoriche politiche conservatrici e progressiste. La sinistra ricorre tipicamente ad argomenti fondati sulla quantità, come l’estensione, il progresso, l’acquisto, la somma (più diritti, più eguaglianza, i tanti contro i pochi, la fratellanza dei popoli contro la specificità delle singole identità, …); la destra a quelli fondati sulla qualità, come l’unico, il particolare, l’originale, il locale, lo specifico, il concreto, valori che garantiscono la difesa di ciò che inevitabilmente va perso nelle quantità astratte della massa, dell’uniforme, del generale (Perelman – Olbrechts-Tyteca, Trattato dell’argomentazione, 2001, pp. 86-87).
L’insistenza di Insegnare l’Italia sulla sfera semantica della concretezza è reperibile quasi ad apertura di pagina, in sintonia con l’assunto – in effetti fondato pedagogicamente – dell’esigenza infantile di immediatezza psicologica e prossimità fisica degli oggetti di apprendimento. Occorre «avvicinarsi alla storia partendo da ciò che è più vicino nel tempo e nello spazio, […] poi, in un secondo tempo, iniziare a muoversi verso ciò che è distante e intellettualmente complesso» (Insegnare l’Italia, p. 48), «cominciare a collocarsi psicologicamente in un punto preciso del mondo e da quel punto di vista iniziare a sporgere lo sguardo sull’altro» (p. 61). I bambini comprenderebbero assai meglio un insegnamento della materia che ne riscopra il carattere originario di narrazione, «il contenuto intimamente drammatico – e perciò morale – della storia: la quale alla fine è sempre dramma di esseri umani mossi da sentimenti che continuano ad essere tuttora i nostri» (p. 50). Per questa via si esorcizzerebbe anche l’eterno revenant del “nozionismo”: l’identità italiana potrebbe rappresentare un «criterio ordinatore» (p. 68) e, con termine tecnico della didattica della scuola primaria e dell’infanzia, uno «sfondo integratore» (p. 69) per la storia e per diverse altre discipline. Al contrario, «una didattica indirizzata ai “quadri di civiltà” […] frutto di una concettualizzazione quanto mai complessa» (p. 51), quale quella prevista nelle Indicazioni nazionali in vigore, sarebbe destinata a mancare l’incontro con il piano qualitativo e concreto dell’esperienza psicologica dei bambini, anche perché dedotta dalle scienze sociali, le quali, secondo Galli della Loggia, avrebbero contribuito ad adulterare il carattere umanistico della storia, nella direzione di un’eccessiva astrazione e scientificizzazione.
La sovrapponibilità tra astratto-quantitativo-universalistico e concreto-qualitativo-identitario è evidente in un passo come questo del libro di Galli della Loggia del 2020:
la cifra che […] la scuola adotta è volutamente quella dell’“astratto”, del rifiuto di aderire a una qualche sostanza culturale di segno forte. Si direbbe quasi che, una volta assoggettatasi alla dimensione del sociale, dell’economia, della sociologia, dell’antropologia, una volta accettato di diventare una loro semplice articolazione, la scuola possa riconoscersi solo nelle forme più estrinseche e frigide della contemporaneità politica – la cittadinanza, la Costituzione, l’Unione europea – e nei loro rispettivi involucri ideologici: un universalismo di principio, il riconoscimento di diritti a tutti su tutto, l’ambizione d’instaurare il regno della virtù (L’aula vuota, ebook pos. 2407 sgg.).
Forme di acculturazione
Lo studio della storia e geografia d’Italia garantirebbe perciò una solida presa sulla nostra realtà storica, che sfuggirebbe ai sofismi astratti della pedagogia interculturale. Peraltro, secondo Insegnare l’Italia, il nostro sarebbe un paese plurale per costituzione, da sempre attraversato da profonde differenze storiche e geografiche e non ci sarebbe perciò alcun rischio di monismo etnocentrico nella scelta di concentrarsi sulla storia patria.
Galli della Loggia e Perla prevengono l’obiezione che a chiunque verrà in mente: e i figli degli stranieri? E le culture alloctone presenti in Italia dopo ormai quattro decenni abbondanti di immigrazione? Pur prendendo in considerazione il rischio di una «acculturazione forzata all’italianità», che minerebbe il diritto «all’eguale rispetto che si deve a ogni cultura» e quello che ogni persona ha «a mantenere integri la propria identità antropologica, la propria storia, i propri costumi, la propria religione» (Insegnare l’Italia, p. 43), i due autori sostengono che il modo migliore per garantire una effettiva inclusione ai figli degli stranieri sia quello di farne degli italiani attraverso lo studio della nostra storia e geografia. La riuscita di tale processo di acculturazione combatterebbe anche l’alienazione identitaria degli immigrati, i quali, sradicati dal contesto della famiglia, del vicinato, dei luoghi storici del paese di origine, si trovano a vivere nelle periferie «senza storia» delle nostre città (pp. 58-59). Ma la preoccupazione è anche di squisito ordine demografico:
ormai sappiamo bene che per sfuggire alla prospettiva di uno spopolamento e di un veloce declino economico che ai ritmi attuali segnerebbe nel giro di pochi decenni la virtuale cancellazione del nostro Paese, non ci resta che contare sull’arrivo di migliaia di persone provenienti da altre regioni del pianeta desiderose di stabilirsi da noi. Ciò che del resto sta già accadendo da tempo. Ebbene, non è forse giusto e utile da mille punti di vista che costoro diventino italiani? (Insegnare l’Italia, p. 42).
Sembrerebbe trattarsi, grosso modo, della soluzione francese all’educazione in una società multietnica: mettere momentaneamente tra parentesi le identità specifiche e socializzare tutti alla medesima condizione di citoyen, garantendo l’apprendimento della lingua nazionale e dei valori repubblicani. Sembrerebbe, se non fosse che i due autori dichiarano
il fallimento dei due approcci che nei Paesi dell’Unione europea hanno caratterizzato l’educazione negli ultimi decenni: […] l’approccio più antico, uniculturalista-integrazionista (adottato ad esempio dalla Francia), il quale nega di fatto la diversità imponendo al giovane immigrato la rinuncia alle proprie caratteristiche identitarie […] e dall’altro lato […] l’approccio multiculturalista [di Canada, Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Paesi Bassi e, secondo gli autori, anche dell’Italia]. È l’approccio che riconosce la diversità come alterità, ma che, nella pratica, vede culture diverse occupare spazi fisici differenti […] per lo più alla stregua di monadi incomunicanti (pp. 57-58).
In effetti, i riot inglesi del 2011 e le periodiche esplosioni di violenza e rabbia nelle banlieue francesi sembrerebbero dimostrare il fallimento di entrambe le prospettive. La proposta identitarista di Galli della Loggia e Perla pretenderebbe di differenziarsene e di risolverne le aporie teoriche e le inconcludenze pratiche. Tuttavia, sul piano delle effettive politiche educative e delle indicazioni pedagogico-didattiche, è difficile capire in che cosa la proposta di acculturazione all’identità italiana dei figli degli immigrati si differenzi dal modello francese: anch’esso, infatti, ha un carattere assimilazionista e patriottico. Il suo patriottismo è però universalista, laico, fondato sui valori metastorici della Rivoluzione. Ed è proprio la sua perfetta incarnazione di quegli ideali a irritare Galli della Loggia e Perla, il cui avversario è l’«universalismo che caratterizza tutte le grandi ideologie politiche (il liberalismo, il socialismo, la democrazia)»:
i Diritti dell’Uomo si applicano indistintamente a tutti gli uomini così come gli operai di tutti i Paesi sarebbero destinati infallibilmente ad unirsi. È appunto perciò che nell’identità gli apostoli delle ideologie universali scorgono il pericolo della resistenza del particolare contro il mondo dei “Princìpi”. Nella tradizione e nell’identità essi temono la minaccia della Vandea contro la Costituzione e il Progresso (Insegnare l’Italia, pp. 17-18).
Questa interpretazione anti-illuminista e anti-universalista della storia è un elemento tradizionale dell’ideologia conservatrice, recuperato anche dalla nuova destra. L’identità particolare, irripetibile, concreta delle patrie ne è il precipitato concettuale, l’emblema e uno strumento retorico e polemico potente. Ma che cosa significhi politicamente e pedagogicamente questa “identità” è da vedere. Proverò a distinguere due piani del discorso.
Il piano polemico
Il polverone contro le Indicazioni nazionali sollevato da Galli della Loggia e Perla ha la precisa forma della “guerra culturale”. Su questo piano, le semplificazioni dei due autori non possono che essere respinte, anche perché attestarsi su di esso – non sono mancate reazioni in questo senso – significa farsi divorare da questa logica.
Il movimento argomentativo di una guerra culturale è doppio e a chiasmo: si prendono le posizioni dei più radicali tra gli avversari – ma direi, più precisamente, dei più macchiettisticamente radicali – e le si attribuisce a tutti, per ridurle ad assurdo e farne emergere il carattere di “ideologizzazione”; si presentano, viceversa, le proprie tesi come pacifiche e ispirate al buon senso. Così il “multiculturalismo” evocato in Insegnare l’Italia viene assimilato tout court alle posizioni più estremistiche della decostruzione dell’identità, mentre la posizione degli autori è riassunta in una serie di affermazioni di questo genere: identità e tradizione nazionale non sono criteri di esclusione, ma di distinzione; esse si costituiscono storicamente, attraverso una narrazione intessuta di invenzione, e non hanno perciò a che vedere con miti di sangue, suolo o razza; «memori dell’insegnamento di Antonio Gramsci, si può essere cosmopoliti, ma solo appartenendo a una patria» (p. 41).
Pochi giorni fa, anticipando al Giornale le nuove Indicazioni nazionali, Valditara ha fatto ricorso alla stessa retorica: «sviluppare questa disciplina [la storia] come una grande narrazione, senza caricarla di sovrastrutture ideologiche, privilegiando inoltre la storia d’Italia, dell’Europa, dell’Occidente»: concretezza della pacifica e pacata narrazione del proprio approccio alla storia contro astrattezza ideologica di quello degli avversari.
Su questo piano polemico è facilissimo mostrare il carattere surrettizio di questa riscrittura delle Indicazioni nazionali, le quali non sono affatto l’incarnazione di un multiculturalismo grottesco. Basta leggerle:
Per educare a questa cittadinanza unitaria e plurale a un tempo, una via privilegiata è proprio la conoscenza e la trasmissione delle nostre tradizioni e memorie nazionali: non si possono realizzare appieno le possibilità del presente senza una profonda memoria e condivisione delle radici storiche […]
Nel nostro Paese la storia si manifesta alle nuove generazioni nella straordinaria sedimentazione di civiltà e società leggibile nelle città, piccole o grandi che siano, nei tanti segni conservati nel paesaggio, nelle migliaia di siti archeologici, nelle collezioni d’arte, negli archivi, nelle manifestazioni tradizionali che investono, insieme, lingua, musica, architettura, arti visive, manifattura, cultura alimentare e che entrano nella vita quotidiana […]
È opportuno sottolineare come proprio la ricerca storica e il ragionamento critico sui fatti essenziali relativi alla storia italiana ed europea offrano una base per riflettere in modo articolato ed argomentato sulle diversità dei gruppi umani che hanno popolato il pianeta, a partire dall’unità del genere umano [dal paragrafo intitolato, tra l’altro, Identità, memoria e cultura storica].
Sono frasi il cui tenore non è molto lontano da affermazioni consimili di Insegnare l’Italia. Risparmio al lettore ulteriori citazioni.
Siamo dunque solo di fronte a un problema di malafede, di incomprensione, di sterile polemica? Basterà pregare i contendenti di sedersi al tavolo della ragionevolezza, mettendo da parte le “polarizzazioni”? No. Siamo di fronte a un dissidio ideologico reale, che riacutizza quella faglia destra/sinistra che quattro decenni di convergenza al centro liberal-democratico avevano indebolito.
La postmodernità ideologica ha liquidato le visioni del mondo – che erano un sinolo di cultura, società, economia – per ridurle a “narrazioni” in civile alternanza l’una con l’altra, sullo sfondo di un sistema economico naturalizzato. Ora che quel sistema economico mostra il suo volto feroce di macchina per produrre diseguaglianze, salta anche il banco della politica e dell’ideologia.
Oltre la guerra culturale, perciò, c’è un piano di maggior complessità storica da considerare: occorre domandarsi per quali ragioni storico-politiche il tema dell’identità sia tornato con tanta prepotenza in scena.
Il ritorno dell’identità
Il tema dell’identità è diventato la cartina di tornasole di un’oscillante difficoltà teorica. Un certo entusiasmo relativistico per la distruzione completa delle sue ragioni – accanto all’utopia di un mondo finalmente liberato dallo Stato-nazione – ha probabilmente allestito una polarità falsata, collocando all’altro capo l’altrettanto semplicistica difesa delle barriere nazionali (Marco Gatto, Un universalismo senza restrizioni, in Id., L’egemonia della superficie, 2024, p. 158).
Le linee di fondo del multiculturalismo e il tentativo di superare le angustie delle identità si sono fissate negli anni Novanta del secolo scorso, in un’epoca di entusiasmo per la globalizzazione: due classici sul tema, Contro l’identità di Francesco Remotti e Modernità in polvere di Arjun Appadurai sono entrambi del 1996 (il primo è citato polemicamente in Insegnare l’Italia).
Ma gli anni Novanta non sono stati solo l’apice del sogno del globalismo multiculturale: la costruzione di uno spazio mondiale nel quale nessun ostacolo fosse posto allo scambio tra persone, idee e identità, è un processo che abbiamo faticato a distinguere dalla creazione di un mercato unico per l’incontrollabile flusso dei capitali.
Come ha assai pertinentemente scritto Piero S. Colla, ci troviamo di fronte a un «trend storico» che riguarda tutta l’Europa e l’Occidente. Il parametro dell’identità è ben lontano dal poter essere accantonato dal discorso collettivo o considerato una semplice reliquia del passato (per quanto la destra la agiti strumentalmente e pericolosamente). Lo dimostrano due fatti. Anche le minoranze, che da qualche decennio protestano contro la loro cancellazione dalle narrazioni nazionali, lo fanno «più spesso in nome dell’identità che contro di essa» (Colla, corsivo originale). Inoltre il bisogno di un contenuto etico “forte”, che l’appartenenza nazionale garantiva, oggi non è affatto venuto meno: semplicemente si è spostato verso «forme di sensibilizzazione alla memoria di traumi collettivi, drammi o genocidi» (Colla), come la Shoah e altre ricorrenze o, più di recente, la condanna degli opposti totalitarismi nazista e sovietico da parte del Parlamento europeo (con la sua recentissima coda: la risoluzione sui simboli). Molta parte della sinistra si è adagiata in questi anni su questi formati di memoria e identità. Ma anche il presunto universalismo etico del “mai più”, che abbiamo estratto delle tragedie collettive del Novecento nel tentativo di fondare una memoria comune – cioè una identità –, pone non pochi problemi, come dimostrano gli abusi di cui i costrutti di vittima e trauma sono diventati strumento.
Parlando dell’Unione europea Anne-Marie Thiesse (La creazione delle identità nazionali in Europa, Il Mulino, 2001) ha scritto che si tratta di uno spazio giuridico, economico, finanziario, di polizia, monetario, ma non di uno spazio identitario, come quello che le nazioni europee seppero costruire a partire dal XVIII secolo. La declinazione aggressivamente nazionalistica e poi totalitaria delle identità nazionali ha messo in ombra il carattere non necessariamente escludente e soprattutto il carattere popolare dell’idea di nazione. Secondo Thiesse, la costruzione dell’identità nazionale fu infatti un processo paradossalmente “internazionale”, fondato cioè sullo scambio, l’imitazione, la traduzione tra identità; essa, per quanto “inventata”, garantì la presenza di un referente dotato di continuità nel tempo, al di là di ogni mutazione sociale ed economica, preservando dal rischio di anomia; infine, fu costruita a partire da materiali popolari – il mito già rivoluzionario della “nazione” e il folklore – dando loro per la prima volta dignità culturale, oltre la cultura aristocratica delle corti e dei salotti, e superando il criterio della distinzione di ceto e di ordine, in favore di una più ampia solidarietà nazionale.
Da questo punto di vista la recrudescenza identitaria della destra è anche un sintomo, una risposta (minacciosa) alla crisi: l’aumento delle diseguaglianze e l’internazionalizzazione delle élite ha creato una frattura in quella vecchia solidarietà nazionale; gli effetti distruttivi del neoliberismo hanno accelerato la mutazione sociale ed economica senza che alcunché facesse da contrappeso (oltre a quello dell’identità nazionale, aggiungerei il contrappeso dell’identità di classe, liquidato insieme al sogno socialista).
Siamo di fronte alla irrimediabile «crisi della civiltà liberaldemocratica postbellica, il cui indebolimento non è stata la destra a determinare ma di cui [essa] approfitta», con una «risposta plebiscitaria, ideologica, polemica e anche repressiva» (Carlo Galli, La destra al potere, ebook, pos. 156). Viviamo una «fase di crisi in cui l’ordine politico-narrativo [quello postbellico] che pareva naturale e immutabile comincia a mostrare le sue crepe» (Valentina Pisanty, I guardiani della memoria e il ritorno delle destre xenofobe, Bompiani, 2020, p. 109): in queste crepe la destra insinua la propria contro-narrazione, il proprio progetto egemonico.
Se non dobbiamo rinunciare a difendere l’idea che l’identità debba essere «uno spazio aperto e conflittuale privo di rigidità essenzialistiche o assolutismi etnici», non possiamo però non ammettere che il progetto del multiculturalismo, almeno nelle modalità che abbiamo fin qui dato per scontate, sia «oggi superato dalla realtà» (Gatto, pp. 161-162, corsivi originali).
Individualismo particolaristico e proprietario
La destra ignora a bella posta queste trasformazioni materiali di lungo periodo e fa strumentalmente «ricorso alla logica del nemico e del capro espiatorio», combattendo contro di esso in «difesa di sostanzialità e stabilità naturali aggredite da una congenita minaccia nichilistica» (Galli, pos. 139). Tale minaccia sarebbe portata dalla sinistra radicale, dal progressismo liberal, dall’internazionalismo universalista: quegli «apostoli delle ideologie universali» cui si allude malmostosamente in Insegnare l’Italia. Su questo sfondo si spiega anche la polemica contro i due modelli di integrazione europei, quello «uniculturalista-integrazionista» e quello «multiculturalista»: il primo è considerato pericoloso perché sarebbe astratto e ipergiuridicizzante; il secondo perché avrebbe un carattere nichilistico e relativista.
In una società anomica, atomizzata, minacciata da pericoli esterni, la destra propone un programma di
implementazione, tanto contro gli universalismi economico-giuridici esterni, quanto contro l’uniforme e anomica fluidità interna, di principi di particolarità, di differenziazione (peraltro facilmente sfociante nella disuguaglianza), di concretezza, concetti nondimeno interpretati ideologicamente non nel senso dell’accettazione di differenze poste sullo stesso piano (questo sarebbe il grave peccato di “relativismo”) ma attraverso concetti come quello di identità religiosa, civile, culturale (la Patria/nazione), le cui radici stanno in una tradizione da conservare e sviluppare con orgoglio e fedeltà. Quindi, la lotta contro il conformismo, l’uniformazione e l’informalità – tipica della destra – non è per la libertà ma per la tradizione offesa, per l’affermazione di valori ritenuti minacciati ma non per l’accoglienza di stili di vita nuovi. Alla religione civile dell’antifascismo e al progetto democratico pluralistico che ne consegue, e anche alla cultura liberal-progressista, la destra – non è una novità – contrappone una teologia politica dell’identità, e una libertà intesa come appartenenza alla tradizione e anche come espressione di energia non sempre trattenuta entro le regole. Non stanno certo in primo piano né l’universalismo né i diritti dei singoli (Galli, pos. 544)
Il carattere restaurativo e tradizionalista non va però esagerato. Come detto, questa destra fa la propria comparsa in tessuti sociali che hanno subito per decenni gli effetti del neoliberismo: spoliticizzazione, disintermediazione, rafforzamento dell’individualismo e della competizione. La sua idea di nazione e di identità è perciò in gran parte retorica ed è fondata sulla comunicazione mediatica più che su un’elaborazione intellettuale tradizionalmente intesa. In verità «la nazione [o l’identità] della destra è un insieme di individualismi e privatezze» (Galli, pos. 1112). Nella «atrofizzazione dei corpi intermedi», se «la sinistra si è mossa prevalentemente verso l’implementazione dei nuovi diritti individuali, […] la destra difende individualismi proprietari, eventualmente organizzati in interessi corporativi, sforzandosi di ridurre ulteriormente la già ridotta capacità universalistica dell’azione dello Stato» (Galli, pos. 1110, corsivo mio).
È perciò essenziale, nell’analisi delle politiche scolastiche di questa destra anti-liberale ma non anti-liberista, considerare tanto la dimensione socio-culturale propriamente conservatrice, quanto quella materiale (economica e di intervento sui meccanismi della riproduzione sociale): guardare insieme al rischio di ritorno all’ordine (la militarizzazione dell’educazione civica, la “pedagogia dell’umiliazione” di Valditara, l’intimidazione verso la libertà di espressione dei docenti: vedi il caso Raimo), e all’intensificazione dell’agenda neoliberista, che la destra si è ora incaricata di portare avanti in una declinazione particolarmente virulenta. Nel prossimo intervento proverò a scendere più nel dettaglio di queste politiche scolastiche, tenendo però fermo questo quadro interpretativo.
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