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Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967)

Pubblichiamo un estratto del quarto capitolo della seconda parte dal libro Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967) (Pacini, 2024) di Luca Mozzachiodi, ringraziando autore ed editore.

L’antifascismo e il rinnovamento culturale tra intellettuali e partiti

Se ci siamo dilungati in questo tipo di riflessioni non è solo per il loro obiettivo interesse e perché, come sottolineano sia Bechelloni che Mughini nella loro ricerca sulle riviste, costituirono spesso i primi fondamentali mezzi di accesso alla storia politica, alla sociologia, all’economia e alla cultura di tanti futuri militanti del decennio 1968-1977 in un momento in cui, almeno fino al «Manifesto», la Nuova Sinistra non possedeva veri e proprio organi di stampai, ma anche perché descrivono assai bene un insieme di problemi che furono noti e influenzarono quasi tutti gli scrittori di sinistra del tempo; non solo dunque quelli che erano implicati nelle redazioni come Asor Rosa, Fortini o Solmi, ma anche tutta una folta schiera di altri da Pasolini a Giudici, a Roversi a Scalia e Calvino nel rimeditare ancora, questa volta a neocapitalismo dispiegato, funzione e ruolo dell’intellettuale. Scardinato il mito dell’ora x della rivoluzione con il partito nuovo e la via italiana al socialismo, caduta l’immagine del campo socialista come privo di contraddizioni con la crisi ungherese, ora esplosione economica e recessione mostravano agli scrittori simpatizzanti la non inevitabilità del socialismo stesso e l’essere il capitalismo tutt’altro che un puro frutto di politiche reazionarie e interessi di un blocco di potere attardato e parassitario come pure si era a volte creduto.

Se il capitalismo si imponeva come razionalità modernizzatrice anche il volto del “nemico” era sempre meno definibile e la tenuta stessa di uno schieramento basato sull’antifascismo frontista e su una retorica dell’impegno in senso tradizionale diventava meno plausibile; di ciò, poiché era la parte che più da vicino li toccava, si resero conto quegli intellettuali che nel dopoguerra avevano simpatizzato per il PCI, anche se diversissime furono le forme e le ricadute di questa presa di coscienza.

Pasolini, come già ricordato per la lettera in versi a Nenni, fu tra i primi a cogliere questo cambiamento; rispondendo a una inchiesta dell’«Europa Letteraria» dirà con il suo abituale stile icastico: «I residui fascisti non hanno nessuna importanza, sono ormai puro folclore: perché il fascismo non è più quello che stato, l’arcaico fascismo di Mussolini e di Hitler, che poteva andare bene contro la misteriosa Russia degli anni Trenta… Il neocapitalismo è meno stupido del capitalismo di allora»ii.

Il successivo invito a leggere i Quaderni del carcere per interpretare il neocapitalismo è però quanto meno sui generis in un quadro in cui Gramsci non costituisce uno dei riferimenti intellettuali dominanti delle generazioni degli anni Venti-Trenta che si dedicano alla militanza nella Nuova Sinistraiii e si ricollega semmai alla più schietta tradizione comunista così come promossa dallo stesso Togliatti. È a quella tradizione che Pasolini, pur considerandola di fatto superata dagli eventi storici al pari di molti suoi colleghi, renderà vari tributi in quegli anni spesso trasfigurati in una luce poetica: ad esempio nelle poesie di La religione del mio tempo del 1961 che terminano nella sezione Poesie incivili, polemica risposta al mito ottocentesco e democratico della poesia civile, e segnano la fine della possibilità del poeta di parlare in nome del popolo (altri dirà del mandato sociale), ma anche la fine del popolo come operazione politica, della possibilità cioè di instaurare un rapporto organico tra classi lavoratrici italiane, partiti e istituzioni democratico-repubblicane che è in un certo senso il progetto pedagogico dei partiti di massa, o almeno di quelli della sinistra; al suo posto si manifesta la massa, che è soprattutto soggetto passivo, sottoposto al comando del capitale ma senza una propria coscienza, ritratta, ad esempio, in questi versi del Glicine

Altre mode, altri idoli,

la massa, non il popolo, la massa

decisa a farsi corrompere

al mondo ora si affaccia,

e lo trasforma, a ogni schermo, a ogni video

si abbevera, orda pura che irrompe

con pura avidità, informe

desiderio di partecipare alla festa.

E s’assesta là dove il Nuovo Capitale vuole.

Muta il senso delle parole:

chi finora ha parlato, con speranza, resta

indietro, invecchiato.

Non serve, per ringiovanire, questo

offeso angosciarsi, questo disperato

arrendersi! Chi non parla, è dimenticatoiv.

Nel tempo il popolo referente delle raffigurazioni letterarie, poetiche e cinematografiche di Pasolini si preciserà come sottoproletariato del Meridione e poi del Terzo Mondo, visti dal poeta come i luoghi non ancora omologati dalla spinta unificante del neocapitalismo e dove quindi sopravvivono società, ideologie e valori propri di un mondo pre-capitalisticov.

Siamo di fronte, con Pasolini, al maggiore esempio di quello che un critico legato al PCI ma appartenente alla nuova generazione come Gian Carlo Ferretti definirà «letteratura del rifiuto». Lungi dall’essere un mero rifiuto della contemporaneità o della società, per Ferretti il rifiuto dei letterati italiani degli anni Sessanta si inquadra perlopiù nella forma di un rifiuto della società capitalistica e nella ricerca di vere e proprie forme di disobbedienza o contrasto alla loro crescente integrazione nel capitale (se si vuole si possono leggere queste spinte come una forma omologa alle insubordinazioni operaie disorganizzate, o organizzate occasionalmente nella forma gruppo o rivista) che nella più parte dei casi mancano però di dialettica, cioè sono incapaci di concepire una rivoluzione della letteratura non a partire dalle forme e dai prodotti, ma dallo statuto sociale dello scrittore e spesso la mancanza di un contatto diretto con la lotta di classe (o a voler consentire con Ferretti con il movimento operaio organizzato) li spinge a creare delle vere e proprie mitologie agonistiche come il sottoproletariato precapitalista pasoliniano.

Particolarmente sviluppato è questo tema nella raccolta del 1964 Poesia in forma di rosa, dove meridionali e abitanti delle colonie in lotta per la liberazione sono accostati come riserva di senso in una elegia per lo scomparso mondo contadino nel poemetto La Guinea e insieme si denuncia l’alba di quella «Nuova Preistoria» che rappresenta l’attuale fase di totalizzazione capitalistica che sarà nondimeno messianicamente superata grazie alla potenza antagonistica dei non-integrativi, ma se si guarda al testo che chiude la raccolta, intitolato Vittoria 1964, che raffigura una processione di partigiani cui parlano Togliatti e Nenni, il primo raggelato nel mito del “migliore” il secondo che, ora con toni diversi rispetto alla precedente epistola in versi, è raffigurato come «eroe diviso»:

ha spezzato a sue spese la catena

che lo legava al popolo come un vecchio idolo,

dando alla sua vecchiezza nuova pena.

I giovani Cervi, mio fratello Guido,

i ragazzi caduti a Reggio nel Sessanta,

col loro casto, il loro forte, il loro fido

occhio, sede della luce santa,

lo guardano, e aspettano le vecchie parole.

Ma egli, eroe ormai diviso, manca

ormai della voce che tocca il cuore:

si rivolge alla ragione non ragione,

alla sorella triste della ragione, che vuole

capire la realtà nella realtà, con passione

che rifiuta ogni estremismo, ogni temeritàvii.

Il poemetto però si chiude con un’epifania dei partigiani in armi che rientrano verso i monti e verso luoghi celebri della Resistenza (Via Tasso) lasciando l’immagine di un passato non più recuperabile.

Il “popolo” della Resistenza riapparirà un’ultima volta negli estratti dal funerali di Togliatti in Uccellacci e uccellini dove, nelle vesti del corvo, appare anche la figura dell’intellettuale: «Per chi avesse dei dubbi o si fosse distratto, ricordiamo che il corvo è un intellettuale di sinistra – diciamo così – di prima della morte di Palmiro Togliatti» dice la didascalia, e il corvo finisce mangiato dai protagonisti proletari (Totò e Ninetto Davoli). Si deve ritenerla, a mio parere, non solo una chiara allusione alla fine di un certo mandato intellettuale legato alla cultura propugnata dal PCI, ma, più in generale e più in profondità, una allegoria per affermare che, gramscianamente, senza popolo non si dà azione intellettuale autentica che non sia l’intellettualismo (del corvo in cui talora si è voluto riconoscere, un po’ forzatamente, Franco Fortini), la privata ribellione (come quella di Pasolini stesso) o, ancora peggio, la leziosità integrata: in questo senso gli intellettuali della “massa” sono i bizzarri e pomposi dentisti dantisti che appaiono nel film discettare di Dante, di fonti, miscellanee e persino di cultura consumistica (James Bond). Se tutta la società è spinta a destra, gli stessi scrittori nella loro azione sono spesso risospinti verso il ribellismo e il maledettismo piccolo borghese (come moltissimo e consapevole se ne trova nelle opere di Pasolini)viii. Non meraviglia allora il richiamo a Letteratura e vita nazionale, che su questi temi aveva posto i principali argomenti del dibattito a sinistra per tutto il dopoguerra e neppure sarà interamente reazionaria la posizione di fronte al Sessantottoix, quanto piuttosto vi si dovrà vedere il tentativo di richiamarsi a una organicità perduta.

Certo tuttavia se si esaminano le prese di posizione e le strategie di quegli anni il caso di Pasolini è abbastanza solitario: nonostante la condirezione di «»Nuovi Argomenti«», assunta nel 1965, non crederà, a differenza di molti altri, alla collaborazione degli intellettuali in riviste e gruppi di ricerca e meno ancora che questi possano porsi in relazione alla classe senza la mediazione del partito, incentra piuttosto il suo dialogo con le borghesie colte e progressiste cui rivolgerà il suo teatro e si dedicherà al cinema. Diverso il quadro della stessa situazione anche negli ex-compagni di «Officina»x: si vedano questi versi di Roversi nella raccolta Dopo Campoformio, uscita nel 1961:

Tutto sembra caduto? Roma impera,

muore Venezia, il carnevale impazza?

e noi sangue italiano

pazienti a conficcare con la mano

i chiodi dentro al legno dei cuori,

volontà non corrotta da furori

in questi anni coperti di silenzio.

Essere stati vivi sarà inutile?

Non offrire la scure al nostro boia,

non cadere bruciati dalla noia,

il sangue versato servirà.

Mentre scrivo la terra è minacciata,

forze aprono voragini nel fondo

mare, dall’abisso cadono sul mondo.

Veleno, colori sfolgoranti improvvisamente

invadono la pianura,

l’uomo bruciato dalla paura

impazzisce. Questa è l’età

che ci vede vivere, sulla spiaggia

di onde paurose; ma poiché viviamo,

ancora nei pensieri abbiamo la forza

di un ultimo rigore, ancora amore

nella scatola segreta d’una stanzaxi.

Alla “scomparsa” dal dibattito pubblico, alla caduta dell’ideale di una opposizione sistematica e vittoriosa allo stato di cose presente, subentra tuttavia una lucidità nel riconoscere (nel trattare poeticamente in questo caso) i nuovi temi e le contraddizioni della società capitalistiche avanzate.

Roversi stesso, esclusa l’esperienza di «Rendiconti», fondata nel ’61 per proseguire l’esperienza di «Officina» e sulla quale escono alcuni saggi dei collaboratori di un tempoxii, non pubblica più che raramente testi creativi per grandi editori dei quali intuisce l’organicità al sistema industriale; interpellato da «Nuovi Argomenti con una serie di domande sul neocapitalismo risponderà:

La produzione infatti, oggi, supera il consumo (è risaputo); il rapporto, drammatico, non è più, secondo la fenomenologia tradizionale, fra capitale e lavoro, ma fra capitale e capitale, fra produttore e consumatore; in conclusione: fra produttore e produttore, in una complementarietà di interessi e di problemi alle volte insormontabile. Al limite del dramma diventa una collusione e una complicità. Sicché pare sempre più evidente, dentro a questo contesto, che il sistema del capitalismo (la sua ideologia, più ordinata agli effetti e più aggiornata di quanto non fosse, e necessariamente apparisse, in passato) ha come fine ultimo l’interruzione dell’ordine ordinato (entro cui l’uomo può ancora esibire e arrischiare qualche scelta economica), il proponimento ciclico di una distruzione delle cose, la distruzione globale della merce per ricomporla; non più un assorbimento graduato ma un annientamento rapido; la dissipazione. E subito, la ricostituzione, la ricomposizione nel (e del) dolore […]. Questo è un punto. Il benessere in effetti è soltanto per un momento “storia”; il periodo di adattamento, e di necessario trapasso, che il neocapitalismo concede al consumatore per abituarlo al consumo; un periodo di adattamento al consumo razionalizzato: tenendo conto che il consumatore, o ogni nuovo consumatorexiii.

Di una tendenza diffusa a rappresentare la rottura dell’organicità del partito, ma non solo, in generale di una crisi delle “visioni del mondo” e di una proletarizzazione dell’intellettuale ridotto a funzione impiegatizia e di anonimo consumo è interprete anche Giovanni Giudici che proprio allora, dalla scrivania di un lavoro al reparto pubblicità della Olivetti, intesseva il dialogo con Fortini dal quale sorgono i suoi primi saggi importanti già tutti contrassegnati, se così si può dire, dall’indipendenza forzosa rispetto al partito. Si tratta invece di un autore che manifesta appieno le tendenze che siamo venuti individuando: incentra la sua analisi sul problema dell’alienazione e del rapporto con i vecchi schemi valoriali additato come determinante da Magri negli intellettuali cattolici (gli uomini spersonalizzati della sua poesia sono testualmente «privati consumatori»), ma ha una gamma di riferimenti, come i già ricordati Gorz e Fanon, che mescola temi cari alla nuova Sinistra e dissenso cattolico, con un precoce interesse per la figura di Don Lorenzo Milanixiv, di cui recensisce le Esperienze pastorali, e per le novità che lo sviluppo economico importa nel mondo ancora arretrato della provincia italianaxv. A ciò, come si vede chiaramente nel suo carteggio con Fortini di cui è, a inizio anni Sessanta, interlocutore ricorrente, si somma una ricezione entusiastica delle novità che Panzieri e Tronti proponevano su «Quaderni Rossi»xvi e un tentativo (imperfetto ma significativo di una tendenza) di ritradurle su un piano letterario, si veda uno stralcio di una lettera a Fortini del 30 dicembre 1963:

Come la libertà, o la rappresentatività, o il diritto o la religione assumono nel momento della loro degradazione e strumentalizzazione un significato concretamente deteriore e avverso ai loro stessi motivi, così la letteratura, come istituto […] è degradato allo stesso livello strumentale, mistificato, mercificato […]. Quindi la contestazione delle immagine del presente istituto letterario diventa, oltre che imperativo preliminare e pregiudiziale alla libertà dell’invenzione proprio nella misura in cui l’invenzione poetica si sottrae episodicamente al condizionamento di classe, imperativo politico nel quadro di una volontà trasformatrice e rivoluzionariaxvii.

Tuttavia ci sono, per Giudici, dei margini politici e estetici di lotta anche nelle vecchie forme (tra le quali include la rivista letteraria): «come esistono forme parlamentari democratiche di cui il partito rivoluzionario è autorizzato anzi esortato a valersi, esistono ancora, sia pure come largamente svuotate sovrastrutture, certe forme senescenti e tuttavia investite di potere dell’istituto letterario capitalistico: è necessario servirsene. Appunto per questo si sta discutendo di una rivista e non […] di un seminario privato a a due»xviii.

Questa concezione che prevede l’utilizzo di forme pratico politiche logorate anche in funzione rivoluzionaria, se successivamente avrà una virata in senso di precetto di poetica con l’elaborazione della «gestione ironica» delle forme poetiche, si situa qui in un discorso che, se considera acquisite le novità dell’integrazione neocapitalistica della soprastruttura, riserva però ad essa la possibilità di giocare uno scarto che riabilita le vecchie forme di impegno nella forma di un investimento ideologico nella progettazione dell’opera: di questo recupero attardato che lo protegge però dalle seduzioni tecnopositivistiche della cultura del neocapitale è egli stesso consapevole: «quale concezione del mondo? Non importa: per l’idea di concezione del mondo. Le divisioni ideologiche hanno perduto gran parte del loro senso da quando ci si può dividere in altro modo: quelli che sono per una concezione del mondo e quelli che sono contro una concezione del mondo. L’ideologia dell’ideologia e l’ideologia della non-ideologia. Io sarei per la prima. Troppi peccati da scontare, troppi sbagli da rimediare, troppa ignoranza da colmare»xix. Giudici parlava da una posizione che si potrebbe definire di socialista cattolico, a testimonianza ulteriore di come la crisi intellettuale di quegli anni (che è crisi semmai delle vecchie forme di intellettuale umanista) fosse cosa molto diversa da quella che alcuni anni prima aveva scosso il mondo comunista; vale la pena ricordare che il titolo del suo articolo è tratto dalla prima delle Tesi sulla filosofia della storia (poi meglio note come Sul concetto di storia) di Benjamin, tradotte da Renato Solmi per Einaudi nel 1962xx. Una scelta significativa se si considera l’utilizzo, rilevato abilmente dallo stesso Solmi, di quel testo in funzione di critica alla socialdemocrazia e alla sua concezione di progresso senza rotture storichexxi: nella celebre poesia Una sera come tante, diversamente dalla fine dei miti resistenziali di Pasolini e dalla proposta di impegno critico di Roversi, Giudici “mette in versi la vita”, l’anonimato del consumatore che avvolge anche l’intellettuale preso come individuo e traspone la sovversione della società in termini messianici.

Ma che si viva o si muoia è indifferente,

se private persone senza storia

siamo, lettori di giornali, spettatori

televisivi, utenti di servizi:

dovremmo essere in molti, sbagliare in molti,

in compagnia di molti sommare i nostri vizi,

non questa grigia innocenza che inermi ci tiene

qui, dove il male è facile e inarrivabile il bene.

È nostalgia di un futuro che mi estenua,

ma poi d’un sorriso si appaga o di un come-se-fosse!xxii

Una situazione diversa è quella che riguarda Scalia, prosecutore insieme a Roversi dell’esperienza delle riviste politico-culturali del Disgelo attraverso «Rendiconti»; non tanto perché a differenza di tutti gli altri casi si tratta di uno scrittore saggista puro, che non affianca mai una attività di narratore, poeta o drammaturgo alla sua riflessione critica e che quindi non ha necessità di rilegittimare l’atto creativo in sé sul piano della prassi, ma perché estremamente ricettivo a tutto l’insieme di riferimenti che siamo venuti delineando. Ha una rapida consapevolezza dell’integrazione della critica letteraria, espressa nel saggio Sperimentalismo critico del 1961, che vede mutarsi in funzione di supporto alla circolazione delle merci l’idea della “critica come servizio” invocata da Fortini sul finire degli anni Cinquantaxxiii, ma è probabilmente il primo a parlare, direttamente sulla scia del molto noto saggio di «Quaderni Rossi» su La fabbrica e la società, di una proletarizzazione degli intellettuali conseguente alla loro integrazione nell’industria culturale.

Distinguerà infatti nel saggio del ’65 La forza lavoro intellettuale tre tipologie sociali di intellettuali: l’intellettuale «libero» che richiama la teoria marxiana della divisione del lavoro per come presentata nell’Ideologia tedesca e che anche quando non è organico alla classe dominante è oggettivante un prodotto della sua organizzazione economica, l’intellettuale «engagée», prodotto dalla massificazione dei rapporti politici tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta e come tale ancora sopravvivente ai margini del partito (Scalia stesso, come Fortini, e altri lo erano stati per il PSI, Calvino, Asor Rosa, Cassola, Tronti, e moltissimi dei vecchi 101 di Budapest lo erano stati per il PCI, qualcuno, come Spinella o Guiducci, lo era ancora), in una funzione piuttosto cerimoniale e di sostegno che elaborativa e infine una terza, nuova, tipologia che definisce «l’intellettuale come tecnico della comunicazione sociale»xxiv. Questi ultimi hanno la funzione, nel quadro di economia capitalistica, non solo di formare i produttori (anche se è significativo che Scalia, come Fortini del resto, fosse a quell’epoca un professore di scuola), ma anche di formare i consumatori e di orientare le scelte e i gusti nel quadro del bisogno generale di equilibrio espansivo della produzione di merce-cultura-informazione:

Questi nuovi aspetti devono essere compresi e spiegati nella tendenziale globalizzazione dello sviluppo capitalistico, nella duplice (e contraddittoria) direzione di crescente differenziazione specialistica e di funzionalizzazione della divisone tecnica (e sociale) del lavoro. È lo stesso sistema capitalistico (come Totale-determinato e non come formale sistema di rapporti di produzione e comunicazione) che riempie “gli spazi liberi”, gli “spazi di mezzo”, con la totalizzazione del mercato e del processo di “reificazione”, produce-riproduce la pretesa “massa critica” dei consumatori culturali, promuove e istituzionalizza, come funzionari del sistema, gli specialisti e i tecnici della comunicazione socialexxv.

La crescente tecnicizzazione del modo di produzione e la molteplicità di specialità intellettuali che l’intero processo di valorizzazione richiede aumentano e diversificano la manodopera intellettuale che entra così nel mercato del lavoro come figura della forza lavoro al pari degli operai: «Essa presenta alcune caratteristiche strutturali: separazione e, insieme, tendenziale riunificazione funzionale, ai fini capitalistici (produttivistici) della divisione del lavoro in “manuale” e intellettuale, specializzazione delle diverse professioni intellettuali e loro utilizzazione generale-comune come forza-lavoro; disponibilità globale di questa forza lavoro in senso classista»xxvi. Superato qui il vecchio modello di divisione del lavoro che prevedeva per l’intellettuale “libero” un esercizio non funzionalizzato, la divisione neocapitalistica del lavoro si presenta sempre di più come divisione tra tipologie di lavoro specializzato; non siamo qui lontani negli esiti da certe pagine di Operai e capitale, ma in un certo senso è proprio l’ultimo passaggio ad essere il più rischioso: se infatti la forza lavoro intellettuale si contrappone anch’essa al capitale sarà possibile organizzarla in qualche modo e qui c’è uno scoglio che nessuna delle parti in causa sembra avere compreso fino in fondo. Se infatti i comunisti perlopiù additano in queste letture il tentativo surrettizio di rivendicare una specialità-separata e un ruolo direttivo per gli intellettuali che si figurano in rapporto osmotico con la forza lavoro, Scalia stesso e molti altri (abbiamo visto Giudici, ma sarà anche il caso di Fortini) pensano la forza lavoro intellettuale come intellettuale che deve riallocarsi sullo scacchiere ideologico in funzione della sua mutata ontologia sociale e della fine del mandato sociale dell’impegno. Sbagliano entrambi, i comunisti perché prigionieri del mito della potenza dell’ideologia proiettano sui dissidenti potenzialità corporative ben al di sopra della consistenza sociale reale di questi gruppi, gli altri perché pensano essenzialmente a loro stessi e non alla forza lavoro intellettuale in formazione che, con la scolarizzazione di massa, è divenuta sì una vera forza sociale che, di lì a poco, sarebbe entrata in lotta per il proprio riconoscimentoxxvii.

i Cfr. Cultura e ideologia nella nuova sinistra, cit., pp. 475-496.

ii P. P. Pasolini, Mettiamo insieme…, in Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 740.

iii Su questo passaggio anche se prevalentemente incentrati sulla letteratura si vedano M. Gatto, Nonostante Gramsci, marxismo e critica letteraria nell’Italia del Novecento, Macerata, Quodlibet, 2016 e Il presente di Gramsci, (a cura di P. Desogus – M. Gatto – M. Cangiano – L. Mari), Giulianova, Galaad, 2018.

iv P. P. Pasolini, da Il glicine, ora in Tutte le Poesie, cit., vol. 1, p. 1059.

v La bibliografia su questo aspetto dell’opera pasoliniana è praticamente sterminata, noi rimandiamo solo alla fondamentale monografia di Santato, Pier Paolo Pasolini, cit., pp. 275-310.

vi Così Ferretti in La disperata vitalità di Pasolini ora in G. C. Ferretti, La letteratura del rifiuto, Milano, Mursia, 1981, p. 212: «La “Nuova Preistoria” cioè, si colloca nel punto di trapasso tra l’estremo approdo della disumanizzazione e alienazione neocapitalistica, l’estinzione di una intera civiltà, e l’avvento di una nuova aurora».

vii P. P. Pasolini, Vittoria, in Tutte le poesie, cit., vol. I, p. 1267.

viii Ferretti, il critico più simpatetico di Pasolini, parlerà per questo atteggiamento di una vera e propria conflittualità interna data dalla situazione di scacco storico in cui Pasolini si percepisce che sfocia in una borghese «autocondanna e autopunizione», Ferretti, La letteratura del rifiuto, cit., p. 313.

ix Nell’articolo poesia Il PCI ai giovani! Come noto si schierò contro i giovani studenti che si scontreranno con la polizia a Valle Giulia durante l’occupazione della facoltà di architettura.

x Ha rilevato, scrivendo anni dopo, Fortini la differenza di scelte di condotta «È forse difficile oggi rendersi conto di quanto fosse stridulo il contrasto tra il modo in cui veniva vissuto il presente a Torino e Milano in quegli anni di trasformazione profonda e l’immagine che di quello ci veniva da Roma. Per di più quasi tutti gli intellettuali che erano vicini a pubblicazioni come “Quaderni Rossi” e “Quaderni Piacentini”, scomparivano alla vista, rinunciavano alla presenza, sopravvivevano nelle forme più modeste e anonime». Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 122.

xi R. Roversi, Il sogno di Costantino, ora in Tre poesie e alcune prose, Roma, Luca Sossella editore, 2008, pp. 116-117.

xii La rivista si segnala soprattutto nel campo dell’innovazione della critica letteraria secondo una tendenza che emergeva già nella seconda serie di «Officina», Scalia vi introduce Goldmann con il saggio Per un’estetica marxista d’opposizione, in «Rendiconti», A. I, 1 (1961), ora in Scalia, Critica, Letteratura, Ideologia, cit., pp. 127-140.

xiii R. Roversi, Dieci domande su neocapitalismo e letteratura, in Tre poesie e alcune prose, cit., p. 398. Anche in riferimento alla sua posizione, meno apolitica e che si muove invece, come sostiene Ferretti, alla ricerca di un «Gramsci autre», di diversa caratura appare complessivamente l’agonismo roversiano con il capitalismo rispetto a quello di Pasolini: «La consapevolezza, dunque, di questa sua impotenza dà all’agonismo di Roversi, alla sua poesia brandita come arma, una drammaticità autentica, che respinge di per se stessa ogni accusa di astrattezza ideologica o di mitologizzazione in una protesta privata». G. C Ferretti, La rabbia politica di Roversi, in La letteratura del rifiuto, cit., p. 235.

xiv G. Giudici, Potere culturale e linguaggio democratico, in La letteratura verso Hiroshima, cit., pp. 75-88.

xv Id., La parrocchia comunista, in La letteratura verso Hiroshima, cit., pp. 112-119.

xvi La sostanziale doppiezza, talora drammatizzata poeticamente nell’appartenenza alle due chiese è un elemento che guida l’agonismo e il rifiuto di Giudici anche per Ferretti, che lo considera una sorta di poeta dell’alienazione nel “miracolo economico”, si veda G. C. Ferretti, Giudici, l’“essere” e il “dire”, in La letteratura del rifiuto, cit., pp. 252-256.

xvii Fortini-Giudici, Carteggio 1959-1993, cit., p. 92.

xviii Ibid., p. 94.

xix G. Giudici, La teologia è piccola e brutta, in La letteratura verso Hiroshima, cit., p. 180.

xx La tesi è la seguente: «Si dice che ci fosse un automa costruito in modo tale da rispondere, ad ogni mossa di un giocatore di scacchi, con una contromossa che gli assicurava la vittoria. Un fantoccio in veste da turco, con una pipa in bocca, sedeva di fronte alla scacchiera, poggiata su un’ampia tavola. Un sistema di specchi suscitava l’illusione che questa tavola fosse trasparente da tutte le parti. In realtà c’era accoccolato un nano gobbo, che era un asso nel gioco degli scacchi e che guidava per mezzo di fili la mano del burattino. Qualcosa di simile a questo apparecchio si può immaginare nella filosofia. Vincere deve sempre il fantoccio chiamato “materialismo storico”. Esso può farcela senz’altro con chiunque se prende al suo servizio la teologia, che oggi, com’è noto, è piccola e brutta, e che non deve farsi scorgere da nessuno». In W. Benjamin, Angelus Novus, Torino, Einaudi, 19762, p. 72.

xxi Registra Solmi: «All’una e all’altra Benjamin oppone la coscienza dell’unità messianica della storia e del presente come sua punta avanzata, come “tempo ora” o “tempo messianico”», Introduzione a Benjamin, Angelus Novus, cit., p. XXXVIII.

xxii G. Giudici, Una sera come tante, in I versi della vita, Milano, Mondadori, 2006, p. 65.

xxiii Cfr. G. Scalia: Sperimentalumo critico, ora in Critica, Letteratura, Ideologia, cit., p. 170: «L’area della critica militante si è allargata nel senso che è, ormai, l’area delle richieste tipiche della società “lettrice”, quantitativamente ampliata e quantitativamente evoluta, a diversi livelli, che da un lato tendono a uniformarsi in alto, nelle eccezioni d’ élites e in basso negli standards di massa. La critica militante è un servizio sociologico, ma non al modo della critica engagée, è un servizio all’interno dell’industria culturale (nella a più vasta accezione) e nelle coordinate della società di fatto neocapitalistica, non più in quelle “prospettiche” della società In nuce alternativa, o in quelle della “società letteraria” autonomistica».

xxiv Cfr. Id., La forza lavoro intellettuale, in De anarchia, Roma, Samonà e Savelli, 1969, p. 19. Non sfuggirà che non siamo qui affatto lontani dalla tesi di Bauman sulla decadenza da legislatori a interpreti.

xxv Ibid., p. 21.

xxvi Ibid., p. 22.

xxvii Un critico più giovane, come Luperini, appartenente alla generazione successiva, ha già ben più chiaro il rapporto tra proletarizzazione degli intellettuali e nuovi soggetti sociali protagonisti del conflitto di classe, come si vede dal suo ruolo direttivo in «Nuovo Impegno» e particolarmente nell’editoriale «Il Marxismo italiano degli anni Sessanta e la funzione degli intellettuali rivoluzionari», in Marxismo e Intellettuali, cit., p. 203-212, che è tra l’altro un tentativo di difesa delle acquisizioni di questa prima generazione di intellettuali della Nuova Sinistra (soprattutto Asor Rosa e Fortini) dagli attacchi del partito comunista ideologicamente riorganizzato dopo gli anni Sessanta.

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