Un monito per il presente: l’antimilitarismo di Francesco Misiano
Il disertore (a cura di Luca Salza, Cronopio, 2024) è il testo del discorso pronunciato alla Camera il 12 luglio 1920 da Francesco Misiano (1884-1936): un libriccino importante, che ci permette di rimemorare e di attualizzare, oltre l’oblio, le parole e la vicenda di un militante del movimento operaio oggi del tutto dimenticato, impegnato a fondo contro la prima guerra mondiale.
Si tratta di un testo autodifensivo, scritto in occasione della richiesta di «autorizzazione a procedere» all’arresto per diserzione avanzata dal Procuratore del Re: Misiano si rivolge ai parlamentari da imputato, argomenta le ragioni della sua «rivolta della coscienza» e difende il dovere profondo di opporsi alla guerra:
Dichiaro subito che non mi riconosco colpevole. So di avere agito secondo la mia coscienza, in perfetta coerenza con i miei principi. Io sono internazionalista. Da quando ho avuto l’uso della ragione e la possibilità di comprendere quella che è la costituzione della nostra società non ho potuto pensare diversamente. (…) Partecipai al movimento socialista là dove mi son trovato. Sono stato al mio posto, organizzatore del partito socialista italiano, disciplinato, coerente ai miei principi in ogni occasione. (…) Quando la guerra comparve sul cielo d’Europa io fui contro la guerra. Quando osservai tutte le Potenze del mondo tese in uno sforzo disperato per creare lo strumento della guerra, l’esercito, per agguerrirlo dei prodotti più formidabili che la scienza moderna poneva a disposizione degli uomini, dei potenti per massacrare e uccidere, io odiai colla guerra lo strumento della guerra, lo strumento del dominio, il militarismo (pp. 45-46).
Da internazionalista, Misiano è convinto che non debbano esistere confini né nazioni e che il nemico principale da combattere sia il potere militarista all’interno del proprio stesso paese. Nel 1915, da coscritto, ha svolto apertamente la sua azione di agitatore tra i soldati della sua caserma: per questo è stato arrestato, torturato e rinchiuso in manicomio. Riesce a riparare in Svizzera dove, a Zurigo, ha modo di conoscere Lenin, e in Germania dove si unisce agli spartachisti. Tornato in Italia nel 1919, ancora latitante, viene candidato dal Partito socialista con lo slogan «Mai più un’altra guerra!» e eletto nei collegi di Trieste e di Napoli: i nazionalisti, additandolo come simbolo della “vigliaccheria”, iniziano a montare una violenta campagna che gli impedirà di svolgere le funzioni di parlamentare. Se D’Annunzio a Fiume aveva invitato i legionari a dare la caccia al «traditore», Mussolini alla Camera lo disprezza come «ignobile disertore». Nelle elezioni del maggio del ‘21 viene di nuovo eletto, stavolta per il Partito comunista, ma il 13 giugno, primo giorno della nuova legislatura, diviene il bersaglio dei fascisti: è estromesso violentemente dal parlamento sotto la minaccia delle armi, rasato e costretto a sfilare per le strade con un cartello al collo. Antonio Gramsci, a proposito di questo episodio, scrive: «la prima affermazione dei Fasci in parlamento è un atto (…) di pura e semplice delinquenza».
In questo suo discorso alla Camera, ora pubblicato con la prefazione di Luca Salza, Misiano cerca di trasformare il racconto delle proprie scelte rigorose in un atto d’accusa contro chi lo accusa, mantenendo socraticamente la propria coerenza: «io non chiedo né perdono, né oblio, né tolleranza: chiedo lotta. Io sono qui per lottare; io lotto contro di voi borghesia. Non sono disertore della mia guerra».
La guerra che Misiano considerava la sua, è la lotta di classe, e la sua diserzione è una rivolta della coscienza: davanti ai giudici cita infatti le parole attribuite a Giordano Bruno dopo la condanna a morte. Il suo No alla guerra è dunque incondizionato e implica l’invito a fraternizzare con chi il potere addita come nemico: “guerra contro la guerra”, diserzione e fraternizzazione (che al tempo di Misiano erano state le risoluzioni di minoranza della conferenza di Zimmerwald, in cui prevalse lo slogan «né aderire, né sabotare») dissolvono le logiche che portano i popoli a scannarsi fra loro. Questa corrosione dei principi stessi della guerra ebbe del resto, fra il 1914 e il 1917, diversi esiti, oggi per lo più rimossi: vi furono sospensioni del massacro dovute alla “rivolta della coscienza” e all’insubordinazione spontanea dei soldati, dalla “tregua di Natale” in cui, al fronte disubbidendo agli ordini, truppe tedesche, francesi e inglesi solidarizzarono, al rifiuto della brigata Ravenna di tornare in prima linea, a cui il generale Cadorna rispose con la decimazione, fino a forme organizzate di ribellione, come la stessa Rivoluzione d’ottobre.
Si potrebbe dire che in Italia, il rifiuto della guerra – condiviso, largo, popolare – attestato dai numerosi plotoni di esecuzione che hanno funzionato tra il 1915 e il 1918 contro disertori, renitenti, ammutinati (…) trovi il suo coronamento in questa elezione di Misiano (dalla prefazione di Luca Salza, p. 12).
È trascorso un secolo: si tratta di un passato morto e sepolto? Davanti alle politiche militariste attuali, in cui le governace ci spingono baldanzose sull’orlo dell’abisso, va ricordato, accanto al coraggioso intervento parlamentare di Misiano, il “rimosso” di Caporetto, in cui al fronte si registrarono «sia pure in modo iniziale, velleitario, non mediato politicamente, il sordo dissenso dei soldati, l’estraneità alla patria e alla guerra delle masse militarizzate» (Mario Isnenghi, I vinti di Caporetto nella letteratura di guerra, Venezia, Marsilio, 1967, p. 9). Va ricordato, infine, che il fascismo è nato per annientare la memoria di questa diffusa estraneità alla retorica patriottica e di questa resistenza attiva alla guerra: il caso di Francesco Misiano, primo parlamentare italiano colpito dalla violenza squadrista, potrebbe essere dunque un’allegoria del suo secolo e del nostro.
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