Il convegno di LN: le relazioni/3. La formazione docenti (di letteratura) iniziale e in itinere
Proseguiamo con la pubblicazione settimanale, nel giorno di martedì, di tutte le relazioni e delle restituzioni dei laboratori presentate e discusse durante il primo convegno di LN, che si è svolto a Palermo il 3 e 4 ottobre 2024. In coda all’articolo è disponibile anche il testo pdf in dowload e il video dell’intervento.
INTERVENTO DI LUISA MIRONE
La prospettiva didattica, le strategie di lettura e di insegnamento della letteratura, le stesse finalità dell’insegnamento letterario che sono emerse con chiarezza dagli interventi di chi ci ha preceduti, e che sono ovviamente condivise dalla intera redazione, sono in realtà piuttosto distanti dagli orientamenti dettati da quella che – oggi – è la formazione iniziale dei e delle docenti di letteratura e da cui dipendono le aspettative e le richieste dei e delle docenti relativamente alla formazione in itinere.
Quando Stefano Rossetti e io entrammo di ruolo, erano gli anni ’90; si entrava per concorso, uno diverso per ciascuna classe, e l’esame tanto scritto quanto orale verteva quasi esclusivamente sull’accertamento disciplinare. Per ovviare a questo disciplinarismo che già allora doveva apparire antiquato, nel cosiddetto anno di prova e negli anni immediatamente successivi fummo avviati a corsi sempre più distanti dall’approfondimento delle nostre discipline di insegnamento e inerenti invece questioni pedagogiche, metodologiche, tecnologiche etc. Nel tentativo, di per sé apprezzabile, di trovare un equilibrio tra la dimensione squisitamente disciplinare e quella più propriamente – diciamo così – professionalizzante, furono istituite le SISS. Lo schema che segue riassume brevemente l’itinerario che, dalle SISS, ci ha condotti alle Scuole di formazione insegnanti e alla obbligatorietà dei 60 CFU per l’insegnamento.
- 1999 (ministro Berlinguer), SISS: nove cicli, ciascuno di durata biennale (il decimo sospeso dalla ministra Gelmini)
- 2011-2012 (ministra Gelmini) e 2014-2015 (ministra Giannini): TFA (due cicli con durata annuale)
- 2018-19: TFA riconvertiti in FIT (ministra Fedeli)
- 2019: soppressione TFA (ministro Bussetti)
- 2022: 60 CFU (PNRR, ministro Bianchi) (obbligatori da 01.01.2025)
Non ci soffermiamo su ognuna di queste tappe, che attraversano peraltro governi di vari colori. Ci limitiamo qui a osservare che, fatta eccezione per quegli atenei che hanno affidato a insegnanti delle scuole la didattica disciplinare, i e le docenti dalla formazione iniziale specifica sono sempre stati esclusi: la figura di tutor coordinatore infatti non ha compiti didattici. A fare le spese di questo processo sono le stesse discipline: prendiamo in considerazione le ultime modalità concorsuali e ci accorgiamo facilmente che lo specifico disciplinare, rispetto al passato, ha decisamente perso terreno a favore della formazione pedagogica. Anche in questo caso, uno schema ci aiuta a coglierne i nuclei essenziali:
- Prova scritta: 100 minuti per 50 domande
- 10 quesiti ambito pedagogico
- 15 quesiti ambito psicopedagogico, con aspetti legati all’inclusione
- 15 quesiti ambito didattico-metodologico, con aspetti relativi alla valutazione
- 05 quesiti lingua inglese livello B2
- 05 quesiti strumenti informatici
- Prova orale: 45 minuti per simulazione di lezione
La prova valuta le conoscenze e competenze del/della candidato/a sulla disciplina della classe di concorso, nonché le competenze didattiche e l’abilità di insegnamento, eventualmente anche attraverso un test specifico (ma non specificato, ndR).
Se questo è quanto attiene alla formazione iniziale dei e delle docenti, alle discipline non va meglio se guardiamo alla formazione in itinere. Gli ambiti della formazione docenti individuati dalle disposizioni ministeriali del 15.09.2016 (secondo la legge 107 del 2015, che, tra l’altro, rende obbligatoria la formazione in servizio), non accordano alle discipline alcuno spazio (viceversa riservato a Autonomia organizzativa e didattica, Didattica per competenze e innovazione metodologica, Competenze digitali e nuovi ambienti per l’apprendimento, Competenze di lingua straniera, Inclusione e disabilità, Coesione sociale e prevenzione del disagio giovanile, Integrazione, competenze di cittadinanza e cittadinanza globale, Scuola e Lavoro, Valutazione e miglioramento); e minimo è lo spazio riservato loro dalla cosiddetta Formazione volontaria incentivata (DM Valditara 23.12.2023, in attuazione al decreto legislativo 13 aprile 2017, n. 59), che predilige (i numeri parlano chiaro) l’aggiornamento in ambito tecnologico, la digitalizzazione, le figure di sistema, lo staff, la governance, l’attuazione del sistema nazionale di valutazione delle istituzioni scolastiche, la partecipazione a bandi nazionali ed europei, l’orientamento lavorativo…
Se ne desume una idea di formazione docenti orientata verso un esterno inteso unicamente come ente pubblico, azienda, «territorio»; una idea di formazione che declina la cittadinanza in termini di inserimento dell’individuo nei processi produttivi (i PCTO non ne sono che un segnale), che riduce sensibilmente lo spazio riservato all’argomentazione, ma soprattutto lo spazio riservato allo specifico disciplinare.
“Pedagogia come storia sacra”, la chiama Marco Maurizi in Ecce infans, alludendo al sovrastare vistoso della dimensione pedagogica su quella disciplinare; e ci avverte:
(Una prospettiva univocamente pedagogica concepisce) la scuola come puro luogo di relazioniin cui l’elemento del sapere è secondario e derivato. Ed è in quanto luogo di relazioni e di formazione di prospettive personali sul mondo che la scuola interessa, cioè come vivaio delle esistenze adulte che andranno a costituire il mondo di domani. Viceversa, è solo in quanto luogo di trasmissione del sapere che la scuola mostra di essere a tutti gli effetti e inevitabilmente un’istituzione politica. Anzi, come scriveva Calamandrei, la scuola è addirittura un «organo costituzionale». Perché il sapere ha una sua forma di esistenza oggettiva, si incarna nelle istituzioni incaricate della sua produzione e riproduzione, è uno dei luoghi fondamentali in cui l’universale si realizza e produce i propri effetti. (p.88)
Quel che scrive Maurizi ci riporta con urgenza alle nostre discipline di insegnamento, alla formazione disciplinare dei e delle docenti, al recupero in essa dello specifico disciplinare, agli accessi al reale che la didattica della letteratura è in grado di disserrare e di cui i docenti devono possedere le chiavi. Io credo che avesse profondamente ragione il Gran Lombardo del siciliano Vittorini (Conversazione in Sicilia, Cap.VII):
«Credo che l’uomo sia maturo per altro», disse. «Non soltanto per non rubare, non uccidere, eccetera, e per essere buon cittadino… Credo che sia maturo per altro, per nuovi, per altri doveri. E’ questo che si sente, io credo, la mancanza di altri doveri, altre cose da compiere… Cose da fare per la nostra coscienza in un senso nuovo» (…) «Ah, io credo che sia proprio questo» disse il Gran Lombardo, parlando ora a tutti in generale. «Non proviamo più soddisfazione a compiere il nostro dovere, i nostri doveri. Compierli ci è indifferente. Restiamo male lo stesso. E io credo che sia proprio per questo… Perché sono doveri troppo vecchi, troppo vecchi e divenuti troppo facili, senza più significato per la coscienza…».
Assistiamo alle funamboliche evoluzioni della scuola nel reticolo di competenze, conoscenze, alternanze, trasversalità, interdisciplinarità, pluridisciplinarità, ed educazione agli ambiti più svariati (cittadinanza, salute, legalità, inclusività etc.) come fosse uno spettacolo previsto, ma proprio questa prevedibilità ci interroga sulle nostre responsabilità; appunto sui nostri doveri. Troppo a lungo come docenti abbiamo ritenuto che nostro dovere fosse far svolgere agli studenti il programma, una certa quantità di autori (non sempre corrispondente ad altrettanta quantità di opere, chissà perché sentite come meno doverose) canonizzati dalle non sempre limpide Indicazioni ministeriali; e in ultimo – molto peggio – che nostro dovere fosse consegnarli ai rituali d’esame provvisti, come di un lasciapassare, di un bagaglio di tabelle minuziose contenenti crediti, ore PCTO, certificazioni, attestati, capolavori…: un armamentario che silenziosamente autorizza e legittima l’opportunismo e il cinismo del calcolo individuale indifferente ai rapporti, che antepone il profitto del singolo ai dividendi. Però noi il percorso con i nostri allievi lo facciamo insieme: con la classe, non con le eccellenze; per formare cittadini, e non investitori; per educare alla democrazia e non all’azienda. Quindi, se la scuola è il luogo dell’educazione democratica, è la ridefinizione dei nostri doveri di docenti e del loro significato per la nostra coscienza di docenti e cittadini e cittadine che si impone come operazione primaria. E allora i nostri doveri di docenti vanno rivisti e con essi i nostri strumenti.
Comprendete bene, tuttavia, che in queste condizioni organizzare un corso di formazione (come faccio da parecchi anni) perseguendo quella linea tracciata dai precedenti interventi significa in larga misura perseguire una formazione indocile (rubo l’espressione al manuale coordinato da Zinato), adottare quello che vorrei chiamare il metodo Bartleby: una formazione che, come l’antieroe di Melville, dovrebbe saper dire I wolud prefer not to e sottrarsi ai format-formativi.
Quali saranno allora i doveri di questa formazione indocile? Stefano Rossetti e io abbiamo individuato quattro questioni che riteniamo essenziali. Le svilupperemo di seguito, due ciascuno.
La prima questione (o primo dovere) è, a nostro avviso, ridefinire il concetto della centralità dello studente. Nella “pedagogia come storia sacra”, e dunque nella formazione pedagogica dei e delle docenti, e poi nella prassi in aula dal momento in cui si è imposta la “didattica per competenze”, la centralità dello studente è divenuta quasi una parola d’ordine. Purtroppo questa collocazione centrale è stata spesso confusa con una postura narcisistica e autoreferenziale dell’allievo o dell’allieva (pensiamo in ultimo alla piattaforma Unica) che ha generato parecchi equivoci. La riflessione condotta da Biesta in Riscoprire l’insegnamento ci aiuta a riposizionarla correttamente:
La nostra soggettività non è costituita dall’interno verso l’esterno – attraverso atti di interpretazione e adattamento –, ma è chiamata in essere dall’esterno, come interruzione della mia immanenza, un’interruzione o rottura del mio essere-con-me, della mia coscienza. (…) Siamo allora al cospetto di una versione del tutto nuova di quell’evento che è l’insegnamento: non più finalizzato al controllo, (…) all’instaurazione di un ordine per cui lo studente può esistere solo come oggetto, ma evento che richiama la sua soggettività, interrompendone l’egocentrismo, il suo essere-con-sé e per-sé. (p.77)
In altre parole, mettere lo studente al centro non significa consentirgli di abbandonarsi al flusso delle sue mutevoli impressioni ed emozioni; al contrario, significa metterlo nelle condizioni di affrontare la complessità del reale. E questo, se vale per tutte le discipline, vale in particolare per la letteratura. Il dettato delle competenze che le assimila al saper fare, alla imprenditorialità, ne oscura l’aspetto peculiare proprio di oggetto complesso, multiforme, stratificato, dove alla conoscenza dei contenuti disciplinari si associa necessariamente la comprensione, la riappropriazione, l’interpretazione dei contenuti appresi; la competenza letteraria, in particolare, è una competenza essenzialmente narrativa, interpretativa e argomentativa: diventare letterariamente competenti, cioè, significa riuscire a raccontare il mondo raccontandosi e recependo i racconti altrui, significa confrontare “valori con valori”, istaurare un “conflitto delle interpretazioni” e argomentare la propria, come scrive Romano Luperini (Insegnare letteratura oggi, p.233):
La lettura come dialogo con il testo e con gli altri interpreti del passato e del presente presuppone una civiltà del dialogo, fondata sul conflitto delle interpretazioni. Puntare sulla interpretazione e sulla attualizzazione del testo, motivare le ragioni per cui lo leggiamo e valorizziamo, significa interrogarsi sul mondo, scommettere su un senso possibile, confrontare valori con valori.
Significa cioè la perfetta negazione della centralità narcisisticamente intesa, il rifiuto della strumentalizzazione della letteratura come catechismo, piegata a rispondere alle
domande di senso di allievi e allieve – domande che spesso ignoriamo, che spesso non emergono per ritrosia o per mancanza di strumenti per metterle a fuoco; domande che la letteratura dovrebbe piuttosto suscitare. Ma è molto difficile che questo accada, se insegniamo ai giovani a guardarsi narcisisticamente e non li mettiamo nelle condizioni di guardarsi in prospettiva e di guardare in prospettiva anche le opere letterarie, usando la prospettiva per le ragioni per cui è nata: creare raccordi, individuare distanza e vicinanza, collocare nello spazio.
Per far fronte a questa deriva narcisistica e catechistica, riteniamo necessario recuperare gli strumenti argomentativi; e qui si apre la seconda grande questione. Assistiamo al naufragio della argomentazione (se non nelle forme spesso standardizzate del debate); non è più richiesta al docente in formazione iniziale, ma è lamentata come competenza assente dall’accademia e dal mondo del lavoro in genere: che gli studenti non sappiano scrivere e non sappiano ragionare è la osservazione che più spesso ci viene rivolta in quanto docenti di scuola, ritenuti su questo fronte inadempienti. È possibile che lo siamo: in fase inziale nessuno ci chiede più che questo aspetto della nostra formazione venga – per così dire – testato e le linee guida della nostra formazione in itinere non prevedono il consolidamento di questo fondamentale strumento di esercizio della cosiddetta competenza di cittadinanza (con buona pace della sbandierata educazione civica). È necessario dunque che la formazione docenti punti al recupero degli strumenti e degli spazi dell’argomentazione. Mi rafforza nel convincimento il “linkismo”, il trascorrere dei nostri studenti da un argomento a un altro, da una disciplina a un’altra senza alcun riferimento ai contesti; un’operazione molto lontana da quella fusione di orizzonti auspicata da Gadamer. Una delle strade potrebbe essere il ritorno ai modelli argomentativi, a quelle voci di interpreti su cui si sono formate generazioni di studenti specialisti. Penso al realismo di Auerbach, all’aura di Benjamin, alla interdisciplinarità di Debendetti, all’antidogmatismo di Starobinski come a un antidoto al qualunquismo, alla omologazione, all’indifferenza; perfino all’intolleranza, profondamente convinta, davvero come scrive Luperini, che i veri testi letterari sono quelli che ci costringono a interrogarci sul mondo, a scommettere su un senso ancora possibile, a confrontarci – l’unico vero significato della cosiddetta cittadinanza attiva.
INTERVENTO DI STEFANO ROSSETTI
Il mio intervento si ripromette di essere una sorta di altra faccia della medaglia rispetto a quanto ha detto Luisa Mirone: lo spirito è lo stesso, ma la prospettiva di osservazione è completamente diversa. L’avvio di questa relazione deriva infatti da una mail ricevuta stamattina, perché tutti noi docenti ormai siamo anche clienti: io sono entrato nella mailing list di una società di formazione, a seguito di un viaggio d’istruzione e periodicamente ricevo mail pubblicitarie. Oggi ne ho ricevuta una che mi chiedeva se volevo essere “un pioniere dell’educazione”, naturalmente “creare degli studenti vincenti” e mi proponeva una sfida significativa, cioè un viaggio a Dubai.
Ѐ interessante questo punto di vista: ragionare sul mercato della formazione e sui documenti ufficiali che se ne occupano, anche indirettamente, come le Linee Guida di Educazione Civica, cui farò riferimento insieme alla conferenza stampa in cui al Ministero dell’Istruzione è stata presentata la Fondazione per la Scuola. Tutti questi testi infatti – quelli del mercato formativo, delle agenzie pubblicitarie, di alcuni documenti istituzionali – ci aiutano a focalizzare l’attenzione sulle due altre questioni che abbiamo deciso di mettere al centro di questa relazione: l’assoluta importanza attribuita alle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in prospettiva organizzativa e burocratica, da una parte; e dall’altra una nuova concezione di cittadinanza e orientamento al territorio e al lavoro. Nel contempo, tracciano un profilo ideale di insegnante.
L’insegnante prima di tutto è tecnologico. Cito ad esempio un corso di formazione, ovviamente dal titolo in inglese, “Future Education”. Ecco il lancio:
Studentesse e studenti percepiscono le discipline umanistiche come poco coinvolgenti, inutili e lontane dalla loro realtà quotidiana? Lavori nell’apprendimento e vuoi valorizzare gli approcci metodologici delle humanities in chiave digitale? (…) Partecipa al nostro webinair gratuito.
Poi, naturalmente, c’è tutta la strumentazione. Alcune cose non ho capito bene cosa significhino: per esempio, «utilizzare gli strumenti digitali per potenziare la grammatica visiva». Poi la lettura profonda dei testi «utilizzando i principi del design e del gioco digitale», digital journalism, storytelling digitale, eccetera eccetera eccetera… Sostanzialmente, la solita insalata tecnologica, anzi tecnocratica, che mostra chiaramente in che direzione vada la scuola. Sia ben chiaro: io mi sono sentito rimproverare, vent’anni fa, di studiare troppo il cinema e le serie televisive e troppo poco la letteratura. Quindi non vi sta parlando uno che ha paura della tecnologia e dei suoi prodotti. Però questa non è “media education”; è un’altra cosa, e tra poco cercherò di dirvi, con le parole di Henry Jenkins, che cos’è.
Poi, l’insegnante è fluido. Questa è una nuova trovata che in realtà circola da una decina d’anni, il “Progetto DADA”, ed è stata rilanciata alla grande dal PNRR: l’azione definita “Next Generation Classroom” ha al centro l’idea che non ci deve più essere l’aula assegnata alla classe, bensì alla disciplina o al docente, con i bellissimi corridoi “Michelangelo”, “Dostoevskij” e altri, in cui si creerebbero situazioni straordinarie:
ambienti di apprendimento attivi, in cui gli studenti diventano sempre di più soggetti positivi della propria formazione, (L’attuazione di DADA, ndr) intende favorire nella didattica quotidiana la diffusione di approcci operativi che tengano conto della “piramide di apprendimento”, in cui il “fare” garantisce una migliore sedimentazione delle conoscenze, oltre che l’acquisizione di abilità e competenze.
E ancora:
Il ripensamento della modalità di fruizione degli spazi educativi implica una necessaria fluttuazione da parte degli studenti tra le “isole didattiche”. Tale approccio “dinamico e fluido”, considera gli spostamenti degli studenti buona occasione per l’ottimizzazione dei tempi morti, nei cambi d’ora, e stimolo “energizzante” la capacità di concentrazione come testimoniato da accreditati studi neuroscientifici.
In presenza di queste e simili teorie sull’insegnamento/ apprendimento è sempre interessante risalire ai presupposti filosofici che ne sono alla base. In questo caso, si tratta di un originale filosofo e mistico, forse più che psicologo, Herbert Maslow, che mette al centro della sua riflessione il concetto di “autoformazione” e “autoapprendimento”: è un’idea strettamente legata a quello che diceva prima Luisa Mirone quando parlava di “centralità dello studente”, come intesa in una diffusa propaganda pedagogica, che tende a svilire il ruolo dell’insegnante. Mi riferisco per esempio a immagini metaforiche come quella che ha avuto una discreta popolarità nei mesi scorsi, l’insegnante “coreografo dell’apprendimento”: secondo questa retorica gli studenti sono ballerini abilissimi, tutti Nurejev, e il nostro scopo è organizzare per loro coreografie sufficientemente efficaci da metterne in luce le straordinarie abilità… Naturalmente esagero con l’enfasi, ma nemmeno troppo: questi infatti sono profili di docenti che influenzano profondamente la percezione della nostra figura, della nostra professionalità e della complessità del nostro lavoro.
Un terzo aspetto di questa figura di insegnante è quella di “esecutore”, che è stata portata alla ribalta in modo chiarissimo dal PNRR. Perché nessuna scuola e nessun insegnante ha mai chiesto un solo euro dei finanziamenti del PNRR (che peraltro non sono regali ma prestiti che pagheranno le prossime generazioni). Noi siamo stati semplicemente chiamati a decidere come utilizzare questi prestiti, non cosa farne, né perché o se utilizzarli. Alle scuole è stato affidato il compito di eseguire, non di decidere, di dare forma a qualcosa deciso da altri in altre sedi. A me questo processo ricorda da vicino quello che dice della media education Henry Jenkins, uno straordinario ottimista, un utopista che crede fermamente nelle tecnologie per l’apprendimento. Tuttavia in un suo libro meraviglioso, “Culture partecipative e competenze digitali” (edito da Guerini), scrive:
Concentrare l’attenzione sull’accesso alle nuove tecnologie non ci porterà lontano se non pensiamo anche a promuovere le competenze e le conoscenze culturali necessarie per utilizzare questi strumenti. (…). Il nostro obiettivo dovrebbe essere incoraggiare i giovani a sviluppare (…) gli schemi etici e l’autostima necessari per partecipare a pieno titolo alla cultura contemporanea.
Jenkins parla di “conoscenze e competenze culturali” e di “schemi etici”: ma né le une né gli altri si acquisiscono, come invece una propaganda diffusissima, cui purtroppo molti di noi credono, induce a pensare, introducendo nella scuola nuova tecnologia. Per esempio, nella mia scuola c’è tecnologia ovunque. In sala insegnanti c’è un catafalco, uno schermo gigante, che non è mai stato acceso; contemporaneamente, i bagni sono quelli di una vecchia stazione dell’Ottocento, e immagino che potranno essere ristrutturati soltanto nel momento in cui si faranno i bagni col wifi. Se io, uscendo dalla sala docenti, potrò alzare l’asse del bagno tramite app, molto probabilmente ci saranno anche i soldi per finanziarne la ristrutturazione.
Ancora due rapidi sguardi ad altri aspetti del profilo di un docente moderno. Il primo attraverso le nuove Linee Guida per l’Educazione Civica, un testo impressionante. Il testo è una tassonomia infinita, un elenco di decine e decine di obiettivi specifici, che per essere raggiunti richiederebbero una trentina d’anni circa. Le prime pagine, invece, contengono i principi cui la norma si ispira. Per esempio, vi si leggono queste parole:
Spirito di iniziativa e di imprenditorialità sono, inoltre, competenze sempre più richieste per affrontare le sfide e le trasformazioni sociali attuali oltre che espressione di un sentimento di autodeterminazione. Parallelamente alla valorizzazione della iniziativa economica privata si evidenzia l’importanza della proprietà privata, (…) elemento essenziale della libertà individuale e che va dunque rispettata e incoraggiata.
Ora questo lessico è identico a quello cui faceva riferimento Daniele Lo Vetere nella prima relazione di oggi: il linguaggio dei tecnocrati. Ѐ una constatazione interessante e impressionante. Come è impressionante il fatto che, quando nel documento si parla di “educazione alla legalità” e si fanno esempi di comportamenti illegali, ci si riferisca sempre alla dimensione individuale e al tema della sicurezza e della privatezza; non si parla, per intenderci, di evasione fiscale o di corruzione, bensì di reati che hanno a che fare con l’individuo e con l’individualismo.
L’ultima espressione di quest’idea di scuola si ha con l’avvento di Leonardo, Unicredit e altre notissime aziende perivate: la Fondazione per la Scuola è proprio la sponsorizzazione di un’idea di scuola che gode dell’apporto decisivo del privato. Basta leggere alcuni passaggi della cronaca della conferenza stampa di presentazione dell’iniziativa, che cito dal sito del Ministero dell’Istruzione e del Merito:
UniCredit conferma così il proprio ruolo attivo nel promuovere un sistema scolastico innovativo e inclusivo puntando a incrementare gli investimenti privati nell’istruzione, essenziali per la crescita e il progresso del Paese (…) modello di cooperazione pubblico-privato che (…) permette di offrire un contributo ancora più esteso e strutturato nel valorizzare l’eccellenza e ampliare le opportunità a favore di giovani e aziende. (…) Leonardo ha aderito con entusiasmo alla nascita della Fondazione per la scuola italiana, un progetto pienamente coerente con le attività di outreach del gruppo Leonardo a sostegno della valorizzazione delle discipline Stem.
Quest’ultimo passo esplicita il sottinteso di tutti questi documenti: esiste una chiara gerarchia fra le discipline scolastiche, che vede ovviamente quelle serie, toste, dure e sperimentali lassù, e quelle altre quaggiù, nonostante tutti gli sforzi che noi possiamo fare per rimetterle in auge.
Che cosa si trae da questo rapido excursus fra le competenze richieste all’insegnante da un simile modello di scuola? Io ne ho tratto questo schema di antinomie ricorrenti:
Privato Individualità Depauperamento delle discipline Scelte organizzative Sottrazione | Pubblico Collegialità Valore delle discipline Scelte culturali Addizione |
Nella storia della scuola degli ultimi vent’anni – non certo, come già diceva Luisa Mirone, soltanto a partire dal ministero attualmente in carica – si possono distinguere due modelli. Uno è quello che ha conosciuto la mia generazione. Io per esempio, quando sono entrato per la prima volta in classe nel 1984, non ancora laureato, mi sono calato in una realtà caratterizzata dai principi e dalle idee che leggete nella colonna a destra: prestare un servizio pubblico, che metteva al centro pratiche di collegialità, assegnava un valore fondamentale alle discipline, affidava ai docenti le scelte culturali. Un sistema che funzionava – fra poco cercherò di spiegarvi perché uso quest’espressione – per addizione. Oggi ci troviamo di fronte a una polarità opposta: un’istituzione che tende a essere privatizzata, mette al centro l’individualità, sottrae valore ad alcune discipline, ma in generale alle discipline come punto di riferimento per l’azione del docente, esalta le scelte organizzative e la burocrazia: questo sistema funzione per sottrazione.
Non si tratta ovviamente di essere nostalgici. Tutti noi che abbiamo parlato oggi, pur essendo convinti che sono in atto trasformazioni negative, lavoriamo nella scuola con straordinario entusiasmo ogni volta che mettiamo piede in classe. Si tratta però di essere ben consapevoli del cambiamento. Soprattutto, la possibile esistenza di un modello differente di scuola e insegnante rispetto a quello attualmente in voga non è nota a chi entra ora nella scuola: chi arriva nella scuola avendo avuto un certo tipo di formazione e continuando a riceverla mentre è in servizio non conoscerà mai una possibile alternativa. Faccio due esempi per rendere concretamente l’idea, e per concludere il nostro intervento; penso possano essere significativi per tutte le persone che ascoltano.
Il primo esempio è quello dei Collegi docenti. I Collegi si sono trasformati radicalmente: da luogo di discussione e delibera collegiale a luogo di ratifica individuale – rigorosamente individuale, spesso tramite app telefonica – di decisioni e processi che sono stati assunti altrove. Questa realtà, che era già abbastanza triste di per sé, ha visto una cesura pazzesca nella pandemia: attraverso la costrizione all’utilizzo dello strumento tecnologico, la pandemia ha infatti isolato drammaticamente l’insegnante e l’ha abituato a rapportarsi con una dirigenza che è altrove. Per esempio, la maggior parte delle volte in cui le persone del mio collegio parlano, non si rivolgono al collegio, alle colleghe e ai colleghi; si rivolgono alla dirigente, a volte danno perfino la schiena al gruppo, e nemmeno si preoccupano di avere un microfono e di farsi sentire: il problema infatti non è la collegialità, ma la dinamica e la direzione del rapporto con la dirigenza, che è cosa assolutamente diversa.
Il secondo esempio è quello della contrattazione integrativa d’istituto, di cui sono esperto dal momento che sono rappresentante sindacale sin dalla preistoria. La contrattazione è cambiata radicalmente nel corso degli ultimi anni. Vent’anni fa la contrattazione si conduceva su fondi molto più ingenti. E poi si conduceva per aggiungere: al tavolo si decideva di valorizzare dei progetti che arricchivano il profilo culturale dell’istituto. Negli ultimi anni, costantemente, il fondo è calato e la contrattazione funziona per sottrazione. Prima di tutto, gran parte delle risorse è usata per compensare attività e funzioni ordinarie che non ci vengono pagate con lo stipendio: se un coordinatore di classe deve redigere sette PDP e lavora tantissimo per farlo, in qualche modo si dovrà compensarlo di questo lavoro che altrimenti rientra silenziosamente nella cosiddetta “funzione docente”, accanto a tante altre nuove incombenze cui non si accompagna mai un significativo aumento stipendiale. E allora magari lo si fa attraverso risorse che dovrebbero servire al miglioramento dell’offerta formativa. Non bisognerebbe ma si fa lo stesso, nel tentativo di essere etici. Ovviamente questo significa però che rimangono pochissimi soldi per “aggiungere” veramente. Allora si pongono le persone di fronte al dilemma di cui parla la sociologa Francesca Coin a proposito di infermieri e medici ospedalieri, nel suo bellissimo e tristissimo libro “Le grandi dimissioni”. Se un sistema non funziona, ma tu tieni alle persone che ci lavorano e hai un senso etico del lavoro, quanto sei disposto a sacrificare? Ebbene, la media del personale ospedaliero negli ospedali pubblici italiani va in pensione con trecento giorni di ferie non godute. Non le fanno, non le chiedono e non devono essere concesse per forza. Loro, che non hanno periodi di interruzione delle attività (mica come noi che abbiamo i mitici “tre mesi di ferie”), preferiscono sacrificarsi. Ma questo non è giusto. Non è giusto.
Di fronte a questa situazione, noi non pensiamo che si tratti di indicare uno dei due modelli come positivo e l’altro come negativo. Però bisogna essere chiaramente consapevoli della direzione verso cui sta andando l’istituzione scolastica, e del fatto che spesso questa direzione non è scelta da chi ci lavora. Questo può anche essere un buon modo e una buona ragione per ribellarci contro questo cambiamento.
Grazie per la vostra attenzione.
Articoli correlati
No related posts.
Comments (1)
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta
-
Il romanzo neomodernista italiano. Questioni e prospettive – Tiziano Toracca dialoga con Federico Masci e Niccolò Amelii
-
Professori di desiderio. Seduzione e rovina nel romanzo del Novecento
-
La memoria familiare di Clara Sereni
-
-
La scrittura e noi
-
Oggetti dismessi tra incendio e rinascita – Sul romanzo d’esordio di Michele Ruol
-
Luperini-Corlito, Il Sessantotto e noi
-
Antropologia del potere. Intervista a Daniela Ranieri
-
Abitanti di Neverland, in cerca di futuro: “La straniera” di Claudia Durastanti
-
-
La scuola e noi
-
I paradossi dell’orientamento narrativo
-
Omero e noi
-
Contare le parole
-
Padri/padroni nella letteratura del primo Novecento
-
-
Il presente e noi
-
Il convegno di LN: le relazioni/3. La formazione docenti (di letteratura) iniziale e in itinere
-
Il convegno di LN: le relazioni/2. I docenti e la lettura
-
Il convegno di LN: le relazioni/1. I docenti di lettere e la didattica della letteratura
-
Ancora la pace subito: il multilateralismo conflittuale e la guerra
-
Commenti recenti
- Teresa Celestino on Il convegno di LN: le relazioni/3. La formazione docenti (di letteratura) iniziale e in itinereBellissimo intervento. Del resto, sostenevo molte delle posizioni qui presenti in un contributo scritto qualche…
- Sabina Minuto on I paradossi dell’orientamento narrativoGrazie. Trovo molto stimolanti le sue puntualizzazioni e le sue proposte. Pur avendo seguito un…
- Luca Malgioglio on I paradossi dell’orientamento narrativoMartina Bastianello, ti ringrazio moltissimo. L’operazione culturale di cui parli – mostrare l’intrinseco valore orientante…
- Martina Bastianello on I paradossi dell’orientamento narrativoPer cominciare ringrazio Luca Malgioglio per l’ennesimo contributo illuminate e che condivido parola per parola….
- Giuseppe Corlito on Luperini-Corlito, Il Sessantotto e noiCaro Muraca, sarà interessante la tua recensione, alla luce della tua competenza sull’argomento. Beppe Corlito…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Bellissimo intervento. Del resto, sostenevo molte delle posizioni qui presenti in un contributo scritto qualche anno fa per questa rivista; è chiaro che non si salvano neanche le materie ora sbrigativamente indicate con l’acronimo STEM:
https://laletteraturaenoi.it/2021/11/08/il-tic-delle-tic-sullultimo-concorso-stem/