Il romanzo neomodernista italiano. Questioni e prospettive – Tiziano Toracca dialoga con Federico Masci e Niccolò Amelii
Con questa intervista a Tiziano Toracca diamo inizio a un ciclo di interviste a cura di Federico Masci e Niccolò Amelii. Il ciclo intende coinvolgere in una conversazione aperta opere di critici che negli ultimi anni hanno riflettuto attorno alla storia della letteratura italiana novecentesca, rivalutandone tendenze, periodi e movimenti o mediante categorie influenzate dagli aggiornamenti più recenti in merito ai motivi peculiari del modernismo italiano e alle discussioni sulle questioni legate al canone dominante e ai suoi necessari aggiornamenti, o attraverso metodologie caratteristiche della sociologia letteraria o ispirate alla teoria bourdesiana del campo letterario.
Prossima intervista: A. Baldini, M. Sisto (a cura di), Studi sul campo letterario italiano.
1) Esiste, negli autori che prendi in esame – da Calvino a Pasolini, passando per Bianciardi, Testori, Parise, Mastronardi, Consolo, D’Arrigo, Roversi – la consapevolezza di innestarsi nel solco di una continuità “discontinua” con il modernismo seppur con l’intenzione poi di produrre uno scarto? Quanto è insomma possibile rintracciare, nelle loro dichiarazioni di poetica, nei loro interventi critici, nelle loro premesse teoriche, la coscienza di riallacciarsi a determinati modelli – Gadda, Svevo, Musil, Joyce, Proust – che allora non erano ancora definiti, almeno in Italia, modernisti?
La questione dei modelli è sempre molto problematica e complessa e andrebbe naturalmente verificata caso per caso, sia perché la formazione, l’esperienza e gli interessi dei singoli autori variano, sia perché i modelli non sono quasi mai esclusivi (per cui spesso gli scrittori si rifanno a cose molto diverse e lontane nel tempo), sia perché la ricezione di una tradizione – e il suo prestigio – sono condizionati da tanti fattori. Spesso, inoltre, le genealogie dichiarate non corrispondono necessariamente a quelle poi effettive, anzi.
In linea molto generale, direi che tutti gli scrittori che ho esaminato, eccetto Calvino, prendono a modello, almeno in parte, l’opera di quegli autori o di quelle autrici che saranno poi interpretati attraverso la categoria di modernismo. In alcuni di loro è esplicito, lo dichiarano apertamente, in altri meno, ma resta comunque abbastanza evidente, in particolare rispetto a Joyce, Svevo e Gadda, che diventano in certi casi delle vere e proprie pietre miliari con cui fare i conti. Del resto, quella modernista e prima ancora quella realista è la grande letteratura moderna occidentale a cui guardano un po’ tutti gli scrittori e un po’ tutte le scrittrici del Novecento e di oggi. Non direi però – ma ci tornerò dopo – che intendano innestarsi consapevolmente nel solco di una tradizione né, tanto meno, che abbiano coscienza di compiere uno scarto rispetto al modernismo.
Comincerei col fare una breve premessa di metodo, per poi chiarire due aspetti storico-critici che mi paiono rilevanti. La premessa è la seguente: quando si parla di categorie create a posteriori come lo sono quelle di modernismo o neomodernismo (o di postmodernismo) credo che abbia più senso prendere in esame i singoli testi che non l’opera degli autori o delle autrici, se non eccezionalmente, e credo quindi che abbia più senso andare in cerca dei modelli, per esempio, del Dio di Roserio (1954), della Vita agra (1962), della Giornata di uno scrutatore (1963), di Corporale (1974) o del Sorriso dell’ignoto marinaio (1976) e non di Testori, Bianciardi, Calvino, Volponi o Consolo. Questa prospettiva – che ho mutuato in qualche modo da una riflessione di Franco Moretti sulla fine del romanzo di formazione e sul «modernismo-a-venire» di Rilke, Kafka e Joyce (ne parla in «Un’inutile nostalgia di me stesso. La crisi del romanzo di formazione europeo, 1898–1914, un saggio del 1990) – mette al centro del discorso il singolo testo e non l’opera di uno scrittore, ammette che in uno stesso autore convivano una pluralità di tendenze, di modelli e di risultati, e punta in sostanza ad accreditare un canone di opere e non di autori e di autrici. Mi sembra una prospettiva metodologica migliore per una serie di ragioni. In primo luogo, perché è più rispondente al vero, come testimoniano certe traiettorie a più fasi, a partire da quella davvero esemplare di Calvino (e di Pirandello prima e di Tabucchi poi), o certe macroscopiche differenze tra i romanzi di uno stesso autore, ad esempio tra i romanzi romani di Pasolini, Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959), e Petrolio (1992). In secondo luogo, perché permette di accogliere alcune inevitabili sovrapposizioni come quella tra neorealismo e neomodernismo, caratteristica ad esempio di alcuni romanzi di Arpino e di Calvino, del Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa e del romanzo d’esordio di Consolo, La ferita dell’aprile (1963), o come quella tra neoavanguardia e neomodernismo, rinvenibile ad esempio in Conoscenza per errore (1961) di Leonetti e in Vogliamo tutto (1971) di Balestrini, o come quella tra neomodernismo e certi riusi di tecniche espressive moderniste che si riscontrano in molti romanzi del secondo novecento, di Pizzuto, Berto, Piovene, Moravia, Cassola, Bassani, Ortese, spesso in forme molto rigorose e consapevoli. In terzo luogo, perché permette di contraddire efficacemente l’idea che le correnti o le poetiche si avvicendino e si superino l’un l’altra (un’idea teleologica della storiografia letteraria che si era affermata proprio con le avanguardie e con il modernismo) quando invece tendono evidentemente a coesistere, a confliggere e a sovrapporsi nel medio e nel lungo periodo.
Ora, detto questo, il primo aspetto che vorrei chiarire riguarda il modo in cui è stato possibile rintracciare una somiglianza tra alcuni romanzi secondonovecenteschi e il romanzo modernista (che naturalmente non è un’entità forte e stabile, ma che ha dei tratti riconoscibili). Più che venir dichiarata e più che venir rivendicata consapevolmente dagli autori, direi infatti che l’eredità modernista è stata riconosciuta dalla critica e che questa cosa è avvenuta, il più delle volte, senza chiamare in causa esplicitamente il modernismo (anche perché, come dite, questa categoria è arrivata tardi). Si possono rintracciare svariati riferimenti alla tradizione modernista in questo o quel paratesto o direttamente nei testi che ho preso in esame – per fare degli esempi: Roversi pone una citazione dai Sonnambuli di Broch in epigrafe a Registrazione di eventi (1964); Bianciardi definisce a più riprese Gadda il suo “maestro” accanto a Verga e a Henry Miller; Mastronardi, dopo aver pubblicato la trilogia di Vigevano, scrive a Calvino di aver scoperto Mimesis di Auerbach e di esserne rimasto folgorato; Volponi dichiara in più occasioni di aver letto Svevo, Musil e Gadda e afferma di aver tenuto conto, per Corporale, di Genet e di Kafka; Parise, rispetto al Padrone (1965), sostiene che sia stata decisiva, dopo quella di Freud e grazie a Gadda, la lettura dell’Origine della specie di Darwin; D’Arrigo spiega che il principio di “uguaglianza tra forma e contenuto” che ha fatto suo è stato perseguito da Joyce nell’Ulisse; Consolo elegge a più riprese T.S. Eliot a proprio nume tutelare; Pasolini chiama spesso in causa i modernisti nei suoi saggi e anche in Petrolio, si pensi ai testi che stanno in un “angolo d’onore” nella valigia ritrovata a Porta Portese, Don Chisciotte, Tristram Shandy, Le anime morte, Ulysses e Finnegans Wake – e tuttavia, ecco, mi sembra difficile ricavare da queste affermazioni, che restano evidentemente un po’ vaghe e molto generiche, la volontà o la coscienza di far propria una precisa tradizione. L’unica eccezione è forse La Capria, alla luce, se non altro, del modo in cui adopera le categorie di Debenedetti per parlare di Ferito a morte (1961), in particolare quelle di “epica dell’esistenza” e “epica della realtà” (e a questo proposito ci tengo a dire che sono recentemente tornato su Ferito a morte, cogliendo al volo un suggerimento di Simonetti, e penso che si tratti di un romanzo neomodernista, e non solo di un romanzo che recupera consapevolmente alcuni tratti del modernismo).
Le dichiarazioni o altri paratesti, dicevo, mostrano che il modernismo è una sicura eredità, ma non sono sufficienti a immaginare una somiglianza forte. A ipotizzare e tracciare un nesso col modernismo è stata in effetti la critica. È Calvino, non Testori, a parlare (male) di Faulkner quando fatica a leggere il primo capitolo del Dio di Roserio (che infatti, nella seconda edizione, verrà eliminato), e sarà la critica, con molte divergenze, a imbastire un confronto tra Testori e Gadda. È la lettura che della Giornata di uno scrutatore ha dato Claudio Milanini, implicitamente, e più di recente Emanuele Zinato, esplicitamente, a chiamare in causa il modernismo, cosa che Calvino, si rilegga La sfida al labirinto, non si sarebbe mai sognato di fare. È John Mastrogianakos, sulla scorta di alcune riflessioni di Gregory Lucente, a discutere La vita agra di Bianciardi in rapporto al modernismo, interpretazione che era in realtà già stata avanzata, senza mai riferirsi al modernismo, in alcuni interventi critici anche molto precedenti. Ma un discorso analogo si potrebbe fare per tutti o quasi tutti i romanzi che ho preso in esame: per Il padrone, dal momento che a pensare a Kafka come a un modello è stato anzitutto Debenedetti e poi, in particolare, in forme più ragionate e raffinate, Stefano Lazzarin; per i romanzi di Volponi, dal momento che sono stati Zinato, Mengaldo, Massimiliano Tortora e più di recente Gloria Scarfone, a evidenziare (fra l’altro) i legami tra Corporale e la narrativa di Joyce e Cèline (e Faulkner e Thomas Wolfe); per Consolo, per il quale Gianni Turchetta per primo ha utilizzato la categoria di modernismo. Insomma, i modernisti sono sì dei modelli, ma il modo in cui vengono ereditati resta una scommessa critica da verificare sui testi, non un principio di poetica da verificare sui paratesti.
Il secondo aspetto che vorrei chiarire riguarda la ricezione del modernismo nel momento della sua riemersione secondonovecentesca (che è appunto l’ipotesi di fondo del volume e che mi pare estensibile ad altre letterature). È vero infatti, lo abbiamo detto, che la categoria di modernismo entra in gioco tardi (in Italia, dopo alcuni studi notevoli pubblicati negli anni Ottanta e Novanta, ad esempio da Cianci, Luperini, Moretti e Guglielmi, viene recepita negli anni Zero grazie in particolare al lavoro di Dombroski, Pellini, Somigli e Donnarumma e grazie allo speciale di Allegoria del 2011 e a Sul modernismo italiano del 2012, entrambi curati da Luperini e Tortora), ma è altrettanto vero che tra gli anni Sessanta e Settanta, complice soprattutto la neoavanguardia, i modernisti tendono a essere considerati scrittori d’avanguardia. I romanzieri che la neoavanguardia prende a modello – oltre naturalmente agli autori e alle autrici del Nouveau roman e oltre a Pynchon, Grass e Robert Walser – sono infatti, come si legge in alcuni interventi, “i soliti” Proust, Joyce e Kafka (ai quali naturalmente si aggiungono Musil, Céline, Broch, Svevo, Pirandello e Gadda). Sono cioè più o meno gli stessi scrittori che Lukács, in quello stesso giro di anni, critica duramente nel Significato attuale del realismo critico (1957). Chi vuole davvero e consapevolmente rifarsi al modernismo (dando addirittura per scontata questa genealogia) è insomma la neoavanguardia. E questo è vero a prescindere dai risultati poi raggiunti, che anche qui andrebbero verificati caso per caso. Ora, questa cosa, il fatto cioè che la ricezione del modernismo sia promossa e capitanata dalla neoavanguardia, si spiega abbastanza facilmente dal momento che la neoavanguardia in quegli anni sta conducendo a suon di convegni una vera e propria battaglia per un “nuovo romanzo”: una battaglia che sconta una forte analogia non solo con quella condotta dall’avanguardia storica contro la tradizione e l’istituzione, ma anche con quella condotta dai modernisti contro il loro principale idolo polemico, che appunto si costruiscono, cioè contro il romanzo realista ottocentesco (che è in realtà è tutt’altro che un’entità uniforme). La lezione di chi ha scavalcato le “barriere del naturalismo” a inizio Novecento diventa insomma utile, direi anzi un modello esemplare, per coloro che vogliono scavalcare le “barriere del neonaturalismo” a metà Novecento. È questo in fin dei conti il significato della proporzione teorizzata da Renato Barilli, per cui Tozzi starebbe al naturalismo e al regionalismo ottocenteschi come Volponi starebbe al romanzo neonaturalista e populista di Arpino, Bassani, Cassola e Pasolini. Ed è soprattutto per questo che la neoavanguardia, nel momento in cui appunto ridisegna il campo primonovecentesco, finisce col fare di tutta l’erba un fascio, enfatizzando e assolutizzando una volontà di rottura rispetto al passato che in autori come Svevo e Pirandello, e in generale nel modernismo, convive al contrario, come ha chiarito Raffaele Donnarumma, con una volontà costruttiva, instaurativa (ecco perché per Donnarumma l’avanguardia rappresenta un momento unilaterale della logica modernista). La principale differenza tra le analisi di Debenedetti (contenute nelle lezioni poi raccolte nel Romanzo del Novecento) e quelle del Gruppo 63 si capisce proprio così: se è vero infatti che le formule impiegate per spiegare lo scarto tra naturalismo e modernismo sono per molti aspetti analoghe o consonanti – l’idea che si faccia spazio una concezione antinaturalistica e antideterministica del comportamento umano, ad esempio, è ripetuta variamente nei saggi dell’uno e degli altri – è però altrettanto vero che la “rivolta contro il naturalismo” descritta da Debenedetti non è così radicale e negativa come quella descritta e promossa dalla neoavanguardia. Non tutto, insomma, è antiromanzo e le continuità con il passato non possono essere taciute. Non a caso è solo negli anni Sessanta, con la neoavanguardia, che si assiste, secondo Debenedetti, al dilagare di antiromanzi e di personaggi-particella, quest’ultimi per l’appunto considerati “eredi irriconoscibili” del personaggio uomo.
Ora, quello che invece è forse meno evidente è la conseguenza di una simile ricezione, che è appunto parziale e strategica. Essa ha finito infatti col provocare, come ha osservato a più riprese Gian Carlo Ferretti, una polarizzazione molto forte, schematica, fuorviante e in qualche modo ricattatoria, fra tradizione e sperimentalismo, fra tradizione e avanguardia, fra romanzo ben fatto e antiromanzo, per cui, in poche parole, o si stava col romanzo nuovo e sperimentale, nei nuovi anni Sessanta, o si stava col romanzo vecchio e tradizionale, nei polverosi anni Cinquanta. Una polarizzazione resa tanto più drammatica dalla effettiva e condivisa esigenza di ricalibrare e ripensare le forme di conoscenza e di rappresentazione della realtà all’indomani del tramonto del neorealismo e dalla percezione di vivere in un mondo in piena trasformazione, investito da una rapida e impetuosa accelerazione socioeconomica. Resa tanto più drammatica, in sostanza, dall’avvio della postmodernità (che comincia, come ha mostrato Ceserani, a metà degli anni Cinquanta) e della cultura postmoderna (che si afferma qualche anno dopo e che tende a dettare le parole d’ordine per circa un quarantennio, fino alle fine del millennio).
2) Per definire lo sperimentalismo neomodernista utilizzi l’espressione «progetto realistico di secondo grado analogo a quello perseguito dai narratori modernisti». Credi che sia dunque una sorta di perseguita fedeltà al “realismo” a rappresentare il vero discrimine tra i romanzi neomodernisti e quelli ascrivibili alla neoavanguardia? Vi è anche, al fondo, un netta antitesi nella considerazione del romanzo come strumento conoscitivo ?
Sì, credo che sia precisamente la fedeltà al realismo moderno a segnare il discrimine tra il neomodernismo (e prima ancora il modernismo) e la neoavanguardia (e prima ancora l’avanguardia) e anche, aggiungerei, quanto meno in Italia, tra il neomodernismo e il postmodernismo, che sono almeno in parte concomitanti visto che il primo prende avvio a metà degli anni Cinquanta e il secondo nei primi anni Sessanta. Anche qui, come nel caso dei modelli, la questione è molto complessa, sono tutte categorie che vanno maneggiate con cautela e sulle quali pesa un ampio e acceso dibattito, tuttavia penso che lo scarto essenziale tra modernismo e neomoderniso da un lato, avanguardia, neoavanguardia e postmodernismo dall’altro lato, si ricavi riflettendo sui rispettivi rapporti col realismo moderno, cioè con quella forma di mimesi che nasce nell’Ottocento e che Auerbach, pensando al romanzo francese ottocentesco, chiama “moderno realismo tragico su base storica”. La triangolazione che propongo non è quindi con il realismo tout court, ma con una sua specifica articolazione (di lunga durata, ma emersa nel XIX secolo) per cui realista in senso moderno è il racconto dell’esistenza della vita quotidiana di individui collocati in un preciso contesto storico e geografico (e qui sono molto d’accordo con Pierluigi Pellini quando osserva che questa doppia apertura di Auerbach, al quotidiano e al contesto storico, porta con sé un terzo elemento, e cioè la moltiplicazione dei punti di vista e delle prospettive ideologiche interne al testo). Mentre il neomodernismo sta dentro questa tradizione (è realismo, anche se di secondo grado, ci tornerò subito), la neoavanguardia e il postmodernismo fuoriescono da quella tradizione, la rifiutano. Ma lo fanno, la abbandonano, anche questo è un punto molto importante, in modi opposti. L’antirealismo della neoavanguardia, infatti, è tutt’uno con la sua ambizione, per certi versi grandiosa, di trasformare il gesto artistico in un gesto immediatamente pratico, politico; essa è antirealista perché è antiestetica, perché esaspera, anziché privilegiare come fa il realismo, il momento dell’eteronomia; perché rifiuta la mediazione della forma (cosa su cui hanno insistito soprattutto Fortini, sulla scorta di Lukács, e poi Peter Bürger, Guido Guglielmi, Ezio Raimondi). Il suo è insomma un antirealismo paradossale, dovuto appunto all’aspirazione a ottenere un contatto immediato, eversivo e traumatico col mondo. L’antirealismo postmodernista, al contrario, è tutt’uno con l’autoreferenzialità del testo, con la fissazione sulla letteratura, sui procedimenti di scrittura, sui codici, sulle fonti da citare e interpolare, sulla biblioteca; è tutt’uno con l’assoluta prevalenza del momento dell’autonomia dell’arte, col primato dei discorsi sulla realtà. Mi pare insomma molto sensata, quanto meno pensando al contesto narrativo italiano, l’idea di distinguere queste tre forme di sperimentalismo (d’avanguardia, modernista e postmodernista), alla luce del rapporto che hanno con il realismo moderno, che è del resto il fenomeno di più lunga durata della narrativa moderna. Ecco perché non è vero, a mio avviso, che la neoavanguardia ha prefigurato il postmodernismo (è l’idea di Barilli), per quanto buona parte dei postmodernisti provenga da lì e per quanto il suo formalismo, il suo “laboratorio”, l’idea del testo come di un congegno (questi i capi d’accusa che le sono stati ripetutamente mossi, ad esempio da Fortini, Pasolini, Volponi e Roversi, tutti non a caso “officineschi”) per quanto queste cose, dicevo, prefigurino in effetti il postmodernismo. Sarebbe assurdo, scorretto e ingeneroso non riconoscere che la doppia e inquieta “coscienza” che Sanguineti rivendicava alla neoavanguardia – quella del rapporto tra l’intellettuale e la società borghese e quella del rapporto tra ideologia e linguaggio – puntava dritto a un tipo di letteratura che rifiuta e condanna l’autoriflessività e l’arroccamento postmoderni.
Tornando allo sperimentalismo modernista e neomodernista, che cosa vuol dire di secondo grado? Vuol dire problematico e straniante. Vuol dire dotato di un dippiù di autocoscienza. Se il romanzo neomodernista assomiglia al romanzo modernista è sì perché privilegia ancora una volta l’io (cioè la prospettiva soggettiva del racconto, la mimesi della vita psichica) e la forma (cioè la densità stilistica, l’opacità dei codici, l’ispessimento del “come”), ma è soprattutto perché questo doppio investimento – che tende appunto a condizionare le strutture portanti del racconto così com’era accaduto nella narrativa modernista per cui ci troviamo nuovamente di fronte a personaggi assurdi, scissi e irregolari, a voci narranti troppo deboli o troppo forti, a intrecci disarticolati ed ellittici – esprime ancora una volta una forma di autocoscienza, esprime cioè la convivenza tra la spinta a rappresentare il mondo e il problema della sua rappresentazione. Problema che si pone precisamente in vista di una rappresentazione fedele del mondo, più fedele di quella realista. È questa l’essenza del modernismo, la sua dialettica chiave. L’ambizione di mostrare la realtà per come essa è davvero – ambizione che nutre ogni realismo – incamera insomma quella che Tozzi parlando di Pirandello aveva definito “coscienza del realismo”.
La formula che ho impiegato (progetto realistico di secondo grado) si rifà in particolare sia a quella utilizzata da Valentino Baldi per spiegare come i modernisti non rifiutino la realtà, ma perseguano un diverso tipo di realismo maggiormente consapevole del fatto che le convenzioni letterarie esistano e vadano esibite (realismo di secondo grado), sia a quella utilizzata da Riccardo Castellana per interpretare in chiave realista il modernismo italiano e, in parte, europeo (realismo modernista): formule, tutte quante, più o meno debitrici dell’idea (espressa chiaramente da Guido Mazzoni) per cui il modernismo, anche nel momento in cui diventa egemone (1900-1940), nutra una forte continuità con il progetto di Zola e di James e prima ancora di Balzac e Stendhal, cioè con il realismo moderno.
Lo sperimentalismo neomodernista, in poche parole, è analogo allo sperimentalismo modernista perché è un progetto fondamentalmente realistico in cui però la rappresentazione del mondo convive accanto alla sua costante problematizzazione. Accanto a questa, che la continuità, c’è però anche una forte discontinuità, dovuta al fatto che i romanzi neomodernisti nutrono un’attenzione maggiore, inedita, alla sfera pubblica dell’esistenza, vale a dire a quell’insieme di temi e problemi che riguardano tutti gli individui perché chiamano in causa avvenimenti d’interesse generale: eventi storici, trasformazioni sociali, dibattiti politici, diagnosi del tempo, questioni etico-morali e così via. La sfera pubblica dell’esistenza diventa l’epicentro della narrazione condizionando le trame e gli intrecci oppure colonizzando la vita psichica degli eroi oppure influenzando la voce dei narratori. Si tratta di uno scarto in parte analogo a quello che caratterizza il romanzo tardo modernista anglosassone, cioè il Late Modernism (ho in mente gli studi di Tyrus Miller e il saggio di Alessandra Nucifora apparso sul numero più volte citato di Allegoria), ma per quanto riguarda il caso italiano credo che giochi un’influenza molto forte (ancora in larga parte inesplorata rispetto al secondo Novecento) la lunga, contradditoria e tutt’altro che uniforme stagione neorealista. Buona parte delle opere che prendo in esame, in effetti, sono di autori che esordiscono come neorealisti o che comunque devono fare i conti con l’esaurimento di quella corrente e, a monte, col tradimento della Resistenza. Un punto però mi sembra essenziale: la sfera pubblica che segna il modernismo (e che è propria del secondo Novecento) è molto diversa da quella che segna il neorealismo (e che è propria del primo Novecento): la prima è dinamica e a trazione industriale (la mobilità sociale, un principio chiave della democrazia e dell’idea stessa di progresso, emerge solo negli anni Cinquanta); la seconda, anche a causa del regime fascista, sconta una staticità e un’immobilità premoderne e a tratti, in certe aree geografiche, antimoderne (lo dimostra benissimo la funzione Verga indagata da Tortora in autori come Silone, Alvaro, Masini, Bernari, Brancati).
3) Credi che sia possibile rintracciare un’eredità modernista, latente o manifesta, anche in alcuni romanzi pubblicati negli ultimi vent’anni? La categoria di ipermodernismo teorizzata da Donnarumma è potenzialmente espandibile anche ad altri autori, oltre al trio composto da Moresco, Siti e Frasca? Potremmo forse parlare di “secondo” neomodernismo?
Che persista un’eredità modernista nella letteratura contemporanea non soltanto italiana mi pare fuori di dubbio, così come del resto persiste un’eredità postmodernista.
L’idea di Donnarumma è precisamente questa: a partire all’incirca dalla metà degli anni Novanta, quando la cultura postmoderna entra in crisi, si assiste a una forte riemersone del realismo e del modernismo e a una persistenza del postmodernismo. La grande narrativa internazionale – di Bolaño, Carrère, Coetzee, Cunningham, DeLillo, Ernaux, Franzen, Houellebecq, Littell, Munro, Pynchon, Roth, Sebald, Smith, Yehoshua o Wallace – testimonierebbe appunto questa doppia rinascita e insieme, talvolta nello stesso autore, questa persistenza. Il ritorno del realismo e del modernismo, tuttavia, avviene in molti casi dopo l’attraversamento della cultura postmoderna e questa cosa non è, come dire, indolore. In particolar modo nel contesto italiano, che è poi quello che Donnarumma mette maggiormente a fuoco, un simile ritorno sconta una sorta di angoscia da derealizzazione (ereditata dal postmoderno) e si caratterizza perciò per una doppia esibizione in chiave appunto difensiva: vengono infatti esibite, da un lato, le prove a sostegno della credibilità del racconto (cioè in sostanza le fonti) e, dall’altro lato, ciò che esiste e che si può verificare, non quindi eventi inventati o finti (che sono appunto inverificabili perché né veri né falsi). Il proliferare di testimonianze, documenti, non fiction, scritture dell’io etc. andrebbe appunto in questa direzione. Quello del modernismo è insomma un ritorno forte, ma anche molto specifico, perché i suoi caratteri distintivi si comprendono alla luce dell’avvio di una nuova fase culturale della modernità che Donnarumma chiama ipermoderno e che descrive come una reazione esasperata e disforica al postmoderno (è questo il senso del prefisso ‘iper’).
Ora, nulla vieta, anzi, mi pare plausibile, che all’interno della letteratura ipermoderna, oltre ai romanzi ipermodernisti di Siti, Moresco e Frasca e oltre a opere che appunto reclamano credibilità e ostentano il vero, si possano rintracciare romanzi neomodernisti, cioè testi che riservano centralità alla sfera pubblica dell’esistenza in forme che sono ancora moderniste, ma senza esibizioni o eccessi ipermoderni. È possibile, insomma, che una seconda ondata di neomodernismo si affianchi alla terza ondata di postmodernismo e al realismo e al modernismo ipermoderni degli ultimi trent’anni. In questa prospettiva, ma in maniera impressionistica, tutta da verificare, indicherei La scuola cattolica (2016) di Edoardo Albinati, Cristi polverizzati (2009) di Luigi Di Ruscio, La gemella H (2014) e Ipotesi di una sconfitta (2017) di Giorgio Falco, Riportando tutto a casa (2009) di Nicola Lagioia, Stati di grazia (2014) e Storia aperta (2021) di Davide Orecchio, La vita in tempo di pace (2013) e Lo stradone (2019) di Francesco Pecoraro, Stradario aggiornato di tutti i miei baci (2021) di Daniela Ranieri, Piove all’insù (2006) di Luca Rastello, Works (2016) di Vitaliano Trevisan, La prima verità (2016) di Simona Vinci. Ma si potrebbe pensare anche ai romanzi di Franco Cordelli, ad esempio al Duca di Mantova (2004), anche se di Cordelli – come ha recentemente sostenuto Giovanni Barracco – andrebbero rivalutati in chiave neomodernista anche altri romanzi, molto precedenti, come ad esempio Pinkerton (1986). E neomodernisti appaino anche i romanzi tardi di due scrittori già molto affermati, cioè Sandokan di Balestrini e Tristano muore di Tabucchi, entrambi del 2004.
Si tratta, lo ripeto, di ipotesi che vanno verificate cercando di distinguere tra una nuova corrente storiografica e interpretativa del modernismo, cioè l’ipermodenismo, una seconda ondata di neomodernismo e un recupero del modernismo come repertorio di soluzioni formali o temi. C’è comunque qualcosa, bisogna riconoscerlo, che gioca contro questo tipo di distinzioni e più in generale contro le categorie. E non mi riferisco tanto alle obiezioni di chi non ama i panorami e le sintesi, o certi incasellamenti sentiti come forzosi, ma al peso crescente che dagli anni Ottanta in avanti hanno assunto il mercato e la risonanza mediatica, cioè, in fin dei conti, la progressiva disintermediazione, prima della critica, poi, da circa un quindicennio, dell’editoria, per cui la qualità, il successo o comunque l’attenzione per un’opera letteraria (e prima ancora per chi scrive) prescinde quasi sempre da queste distinzioni e segue invece traiettorie che esulano sempre di più da questioni formali, genealogie, periodizzazioni, lessico critico, teorie della letteratura. È anche per questo, oltre che per la pluralità delle scritture, che l’estremo contemporaneo è molto difficile da storicizzare con categorie critiche moderne come lo sono realismo e modernismo. A quanto mi risulta, del resto, la critica fa sempre meno uso, per il presente, di queste categorie.
4) Come si nota nei capitoli del volume che precedono la trattazione sugli autori, il dibattito italiano sulla ricezione del modernismo nel quadro della manualistica scolastica è evidente in una serie di testi didattici apparsi tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Sia che si vogliano trattare autori come Svevo e Pirandello per distinguerli «tanto dal decadentismo quanto dall’avanguardia», sia che si cerchi di pensare Tozzi e Gadda «accanto a Proust, Woolf, Mann, Joyce, Musil, Beckett all’insegna del superamento del naturalismo», è possibile ormai riscontrare la validità storiografica del modernismo. Al posto di quali prospettive di ricostruzione storiografica della letteratura italiana può essere utilizzata invece la categoria del neomodernismo?
Uno dei primi manuali a considerare autori modernisti Svevo, Pirandello, Tozzi e Gadda è I testi le immagini le culture. La letteratura e l’intreccio dei saperi, curato da Biagioni, Donnarumma, Sclarandis, Spingola e Zinato, uscito per Palumbo nel 2007, ma l’idea che l’opera di questi autori meritasse un discorso diverso, di tipo comparatistico, era comunque implicita in vari manuali degli anni Novanta, ad esempio in quello curato da Ferroni per Mondadori nel 1991, Storia della letteratura italiana, e in quello curato da Segre e Martignoni sempre per Mondadori nel 1992, Testi nella storia. Ma andrebbero senz’altro ricordati anche Il materiale e l’immaginario, curato da Ceserani e De Federicis per Loescher tra il 1978 e il 1980 e La scrittura e l’interpretazione, curato da Luperini, Cataldi, Marchiani e Marchese e uscito per Palumbo a partire dal 1996. I manuali scolastici (realizzati come si vede da alcuni protagonisti del dibattito sul modernismo e sull’adozione della categoria di modernismo in Italia) hanno senz’altro contribuito all’affermazione della categoria di modernismo, la quale, come dite, ha ormai acquisito una sua indubbia validità storiografica (e in questo senso, se pensiamo alle esigenze che hanno prevalso nella sua progressiva adozione dovremmo elencarne almeno tre: l’esigenza di comparare la letteratura italiana con le altre letterature, quella di arginare la categoria tropo estensiva di decadentismo e di distinguere dalla avanguardia ciò che avanguardia non era e quella di ripensare, in chiave militante, la fisionomia del XX secolo ridimensionando la svolta postmoderna di metà Novecento e attaccando frontalmente il postmodernismo).
Per quanto riguarda la categoria di neomodernismo direi questo: è precisamente l’idea che ci sia una diffusa riemersione del modernismo a permettere di rintracciare un’aria di famiglia tra alcuni romanzi sperimentali del secondo Novecento che venivano solitamente tenuti distinti o isolati, spesso, ancora oggi, in nome di una retorica dell’eccezionalità fasulla e pretestuosa. Ed è precisamente questa idea a permetterci non solo di scommettere su un’ipotetica e nuova corrente sperimentale del romanzo italiano, ma anche di contrapporla alla neoavanguardia e al postmodernismo, che non sono solo più o meno concomitanti, ma che rispondono anche diversamente alla mutazione postmoderna. In altre parole, la categoria di neomodernismo soppianta quella generalissima, ambigua e del tutto inadeguata di sperimentalismo: una categoria, lo dicevo prima, su cui ha gravato a lungo l’egemonia della neoavanguardia e comunque segnata, a monte, da un’astrattezza e da una neutralità fuorvianti, che impediscono di vedere le somiglianze e, soprattutto, le contraddizioni. Non si tratta, come qualcuno vorrebbe credere, di un semplice e innocente qui pro quo per cui prima c’era lo sperimentalismo ora c’è il neomodernismo, ma di una precisa e specifica riemersione del modernismo all’interno di un contesto dominato dalla cultura postmoderna. Una riemersione, quindi, lo dicono le parole stesse, reattiva e contrastiva verso quella cultura: verso la spinta centrifuga della neoavanguardia (il romanzo neomodernista si contrappone anzitutto all’antiromanzo della neoavanguardia) e verso l’idea di una letteratura chiusa in sé, autoreferenziale, primum e valore puro, menzogna, molto meno interessata a rappresentare il mondo e le sue contraddizioni (il romanzo neomodernista si contrappone al laboratorio e allo specialismo della neoavanguardia e al romanzo postmodernista). Oltre a restituire un’immagine più vera del contesto narrativo italiano tra la metà dei Cinquanta e la fine dei Settanta, che è appunto plurale e conflittuale (e si dovrebbe pensare anche all’esperienza dei “franchi narratori” e alle persistenze del novel classico com’è La Storia di Morante), la categoria di neomodernismo fa interagire questo contesto con la grande letteratura occidentale del XX secolo e apre a un ampio dibattito critico e teorico internazionale (un po’ come è accaduto per autori come Svevo, Pirandello, Tozzi e Gadda nel momento in cui è stata introdotta la categoria di modernismo). E questo mi pare un enorme vantaggio (altro che una gita a Chiasso) anche perché spesso, non dico Calvino o Pasolini, ma i vari Testori, Bianciardi, Mastronardi, Volponi etc. rischiano di restare confinati a questioni d’interesse locale.
5) L’ipotesi storiografica su cui poggia il volume verifica, come dichiari, «l’opportunità di una periodizzazione restrittiva e non estensiva del neomodernismo» da rubricare «soprattutto nel venticinquennio che va dalla seconda metà degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta». Oltre al periodo analizzato, dove è utile tenere in considerazione lavori che si definiscono in rapporto alla «crisi (…) del neorealismo» e in contrapposizione «alla neoavanguardia e alla nascita del postmodernismo», ci sono opere degli autori affrontati nel volume che mostrano ancora una fisionomia neomodernista?
La periodizzazione del neomodernismo italiano è ristretta a un venticinquennio (e al romanzo) e si basa su un’idea generalmente condivisa dalla critica, per cui dopo la crisi e il tramonto del neorealismo, a metà degli anni Cinquanta, si apre una nuova stagione letteraria maggiormente votata alla sperimentazione, la quale tocca i suoi vertici nel corso degli anni Sessanta (quando nascono la neoavanguardia e il postmodernismo), inizia a declinare a metà degli anni Settanta e tende a esaurirsi alla fine di quel decennio, quando il postmodernismo di seconda generazione – di Palandri, Tondelli, De Carlo e Del Giudice – conquista la scena letteraria. Questa periodizzazione, che appunto non è molto originale visto che sulle due cesure (fine del neorealismo, egemonia del postmodernismo), anno più anno meno, c’è un generale accordo, è dettata anche da un’altra ragione e cioè dal fatto che a partire dagli anni Ottanta l’interesse per la sfera pubblica dell’esistenza, che è appunto una delle caratteristiche salienti della riemersione del modernismo sotto forma di neomodernismo, tende a scemare. Non è un caso che due fra i maggiori romanzi neomodernisti degli anni Ottanta, Aracoeli (1982) di Morante e Le mosche del capitale di Volponi (1989), come del resto Petrolio, che è del 1992, sembrano uscire fuori tempo massimo (sono del resto ideati e scritti interamente o in buona parte negli anni Settanta). E una cosa simile si può dire per il primo romanzo di Luigi Di Ruscio, Palmiro, che esce nel 1986, o per il capolavoro di Goliarda Sapienza, L’arte della gioia, che esce postumo nel 1998, ma viene scritto tra il 1967 e il 1976. O anche per Arsenico (1986) di Parise, l’ultima opera pubblicata in vita dallo scrittore, un abbozzo di romanzo risalente ai primi anni Sessanta. Tutti romanzi neomodernisti che per un motivo o per l’altro escono dopo gli anni Settanta, ma che hanno i piedi in quel venticinquennio di cui parlavo.
Tra quelli che ho preso in considerazione, mi pare che siano soprattutto due gli autori che mantengono una fisionomia neomodernista al di là degli anni Settanta. Il primo è Volponi, come testimoniano bene le Mosche (lo evidenziava già con molta chiarezza Luperini nel suo La fine del postmoderno, del 2008, affermando che in quel romanzo Volponi rappresenta la realtà postmoderna da una prospettiva modernista). Il secondo è Consolo, sia per Nottetempo, casa per casa (1992) sia, soprattutto, per Lo spasimo di Palermo (1998). A questi due autori si potrebbero aggiungere Testori, che nei primi anni Novanta pubblica Gli angeli dello sterminio (1992) rifacendosi per alcuni aspetti (l’apocalisse del mondo) a quel piccolo capolavoro incredibilmente passato sotto silenzio che è La cattedrale (1974), e Tabucchi, che molti anni dopo gli esordi neomodernisti di fine anni Settanta, Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978), pubblica, lo citavo prima, Tristano muore (2004), un romanzo frutto di una lunga gestazione.
6) Un caso particolare, che la tua trattazione attraversa indirettamente, è quello di Alberto Moravia. Come affermi in base a un suggerimento di Debenedetti, l’esperienza romanzesca degli Indifferenti può essere intesa non solo come una rottura «rispetto alla narrativa modernista di Pirandello o Tozzi», ma come il segnale di una fase matura «di questo stesso filone narrativo cominciato vent’anni prima». Quanto è significativo il caso di Moravia per comprendere il sistema di continuità e discontinuità che attraversa la narrativa degli anni Trenta?
Dunque, nel dibattito sul modernismo italiano sono emerse soprattutto due prospettive: quella di chi, come Tortora, sostiene che Gli indifferenti (1929) sia per molte ragioni il romanzo d’avvio di una nuova stagione letteraria che non rinnega, ma metabolizza, il modernismo – favorita anche da un evidente ricambio generazionale – e che si prolunga fino a i primi anni Sessanta, in particolare al 1963, l’anno in cui nasce la neoavanguardia (è appunto il neorealismo); e quella di chi, come Donnarumma, inserisce il romanzo di Moravia all’interno di una seconda fase del modernismo (1925-1939), segnata sia dall’esordio di Gadda e per l’appunto di Moravia (oltre che di Montale), sia dall’esperienza di Solaria (1926-1936), una fase diversa, ma ancora legata al modernismo storico, che si interrompe con l’avvento del neorealismo, cioè, simbolicamente, con l’uscita di Conversazione in Sicilia (1938-1941) e Paesi tuoi (1941). A ben vedere, tuttavia, non si tratta di prospettive così diverse: entrambe, infatti, sostengono l’idea di un trapasso dal modernismo al neorealismo (alla fine degli anni Venti o alla fine degli anni Trenta) ed entrambe preservano l’idea di una coesistenza tra tendenze distinte, Donnarumma sostenendo che il tracciato del modernismo è carsico e che sconta riemersioni continue lungo tutto il Novecento (quindi anche dopo il 1939) e, lo abbiamo visto, anche ipermoderne, Tortora sostenendo che il neorealismo non è una corrente esclusiva, per cui si assiste, è vero, a un cambiamento forte, all’avvio di una nuova stagione letteraria, ma ciò non comporta la fine del modernismo, che sopravviverebbe ad esempio nell’opera di Gadda, Bilenchi, Bernari, Quarantotti Gambini, pur non essendo più, come nei primi trent’anni del Novecento, “il colore dominante” (del resto una sopravvivenza analoga negli anni Trenta e Quaranta, in Gadda, Bernari, De Céspedes, Vittorini e Masino, era stata rintracciata da Luca Somigli in un saggio apparso nel celebre Companion to European Modernism curato da Pericles Lewis nel 2011).
A questa duplice prospettiva, si è poi aggiunta quella di chi come Carmen Van den Bergh, come Riccardo Castellana, come in parte Daria Biagi e come Michela Rossi Sebastiano, ha proposto di leggere alcuni romanzi degli anni Trenta all’insegna di una sovrapposizione tra realismo e modernismo o, per dirla con Rossi Sebastiano, di un “realismo obliquo”. Quest’ultima, in particolare, prendendo a modello proprio Gli indifferenti di Moravia, ha mostrato in maniera convincente come in svariati romanzi degli anni Trenta – di Barbaro, Bernari e Dèttore, Vittorini, Brancati, De Céspedes, Masino, Ginzburg – il ripristino di una struttura narrativa tradizionale venga problematizzato dall’opacità ideologica e morale, più o meno coatta, che grava su questi autori e su queste autrici durante la dittatura fascista.
Direi quindi, alla luce di questo dibattito, che l’esordio di Moravia è estremamente significativo se si enfatizza l’avvio di una nuova stagione letteraria o se si riflette sull’obliquità del romanzo degli anni Trenta a partire da certe modificazioni di struttura che Gli indifferenti realizzano in forme esemplari, e che perde invece di importanza – non in sé, ma appunto come testo simbolico di un turning point – se si sposta in avanti il momento di affermazione del neorealismo e di rarefazione del modernismo. Per quanto mi riguarda sono molto d’accordo nel considerare Gli indifferenti un romanzo esemplare per cogliere il sistema di continuità e discontinuità che attraversa la narrativa degli anni Trenta (e da questo punto di vista l’intervento di Moravia sulla crisi del romanzo, l’unico a firma Pincherle, è veramente significativo), ma sono più propenso a spostare in avanti, in particolare al 1943, l’affermazione piena di una nuova fase, che è poi quello che sosteneva Luperini quando scriveva che come atmosfera culturale il modernismo storico tramonta con l’avvento del neorealismo postbellico.
Quella di Debenedetti mi pare invece un’altra storia. Debenedetti sostiene infatti una continuità forte tra i romanzi di Tozzi, Svevo e Pirandello (e Joyce, Kafka e Proust) e quelli di Moravia, Vittorini e Pavese e persino, con differenze notevoli, di Robbe-Grillet e di Sanguineti, del Dottor Živago (1957) e della Noia (1960), di Beckett e di Ionesco. E questo perché il romanzo del Novecento è per lui una categoria unitaria che si comprende per reazione, in contrapposizione alla cultura positivistica che sta alla base del romanzo naturalista. Il romanzo moderno di cui parla Debenedetti utilizzando quelle categorie che saranno poi adoperate dalla critica per descrivere la narrativa modernista italiana non si interrompe né alla fine degli anni Venti né alla fine degli anni Trenta né nel secondo dopoguerra, ma si prolunga fino agli anni Sessanta. Comincia all’inizio del Novecento con Tozzi e Pirandello, prosegue negli anni Venti con Borgese, Svevo e Moravia, autori che secondo Debenedetti prendono coscienza della rivoluzione avvenuta vent’anni senza però rinnegarla, e persiste ancora in Pavese e Vittorini, per i quali Debenedetti fa tutto un discorso che qui tralascio, ma che è perfettamente in linea con la sua idea. In questa prospettiva, Gli indifferenti di Moravia non stabiliscono una rottura rispetto alla narrativa modernista, ma sono semmai il segnale (qui la loro indubbia importanza) di una fase matura di quello stesso filone narrativo cominciato vent’anni prima. Quando esamina il romanzo d’esordio di Moravia, insomma, Debenedetti ha sempre in mente quella “rivolta contro il naturalismo” in cui Pirandello e Tozzi, Svevo e Moravia stanno dalla stessa parte.
L’adozione della categoria di modernismo (ma non solo questo) ci obbliga a rivedere il tracciato a più velocità di Debenedetti, e il modernismo certo non coincide con il suo romanzo del Novecento (neppure in alto, perché non è vero che tutto ha inizio nel primo Novecento, in antitesi al naturalismo, lo hanno mostrato Pierluigi Pellini e Margherita Ganeri). Credo però che quel racconto sia una prova – e tra le più stringenti – del fatto che nel romanzo d’esordio di Moravia coesistano istanze di segno diverso e che proprio per questo rappresenti un testo esemplare del romanzo italiano degli anni Trenta.
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