Pasolini e la pedagogia della ribellione
Pubblichiamo un estratto del recente volume Pasolini maestro ribelle di Irene Gianeselli, Les flâneurs edizioni, ringraziando autrice ed editore.
Nel 1977 Andrea Zanzotto firma un contributo dall’emblematico titolo Pedagogia nel volume a cura di Laura Betti Pasolini: cronaca giudiziaria, persecuzione, morte offrendo una delle più interessanti suggestioni etico-politiche: la sua riflessione investe tanto il pensiero e l’azione pedagogici dell’intellettuale e amico quanto l’Italia intesa come città umana, cioè polis. Non sono interessanti i risvolti critici dettati dallo psicologismo in cui pure Zanzotto scivola (e per questo li terremo in sospeso, ben presenti, ma non discutibili come tutte le sentenze di parte), quanto piuttosto il delinearsi di un vero e proprio spazio geografico che assume l’affascinante assonanza linguistica e in definitiva poetica dei “New heaven, new Earth” ai quali allude Antonio rispondendo alle insistenti domande di Cleopatra riguardo la misura del suo amore per lei nella tragedia omonima di Shakespeare.1
Fin da anni lontani Pasolini aveva dovuto fare i conti con etiche e pedagogie marcite in astratti e infetti sensi di colpa, o in pazze presunzioni, proprio per non essersi riconosciute anch’esse dentro la storia, all’interno delle sue dinamiche; aveva cercato di estirpare questi scolici di ogni paralisi, di ogni negazione del futuro. Ma nello stesso tempo sapeva che un’etica e una pedagogia in nessun modo potevano essere abolite, collegate come sono allo stesso muoversi dell’uomo verso la socialità, alla possibilità stessa di sopravvivenza della città umana. Da ciò la sua ricerca, fino all’ossessione, di quello che si vorrebbe chiamare un “iperspazio” ove costruire un’etica, una pedagogia futuribili e aperte al massimo, apedagogiche. (Aure e disincanti 141-142)
Zanzotto restituisce così Pasolini alle cose del futuro, al Trasumanar e organizzar (1971) che è non soltanto titolo di una sua raccolta di versi, ma che è anche e soprattutto una indicazione di programma per la contemporaneità: raccogliere e spostarsi verso un altrove dai contorni geografici non definiti e per questo aperto al massimo. Del resto, in una intervista uscita postuma nel 1977, ma che risale al 1970, lo stesso Pasolini ribadisce di non riconoscersi nella “tecnica dell’abbassarsi per elevare”, cioè in quella pedagogia ortodossa tollerante, ma profondamente coercitiva e ipocrita: “l’idea dell’elevare il prossimo è una idea moralista sbagliata: nessuno di noi ha il diritto di elevare gli altri. Si potrebbe dire educare ma anche questo vocabolo indica una pedagogia superata oramai anche negli asili” spiega all’intervistatore (Giacomo Carioti) e aggiunge “ormai anche il più misero maestro di scuola sa che ogni educazione è una autoeducazione: si educa a livello pari, e non dall’alto. Il mio fine non è mai quindi quello di educare, ma quello di instaurare un dialogo” (Fui antimoderno 14-17). Cosa significa quindi proiettare la ricerca nell’iperspazio di un’etica e di una pedagogia apedagogiche?
La suggestiva immagine galattica, l’idea di uno spazio tra gli spazi, potrebbe intimidire educatori, insegnanti e studenti di oggi, costantemente minacciati e attaccati dalla pedagogia neoliberista (Orsenigo & Pirone 2023) e dal cannibalismo del neocapitalismo che li confondono quotidianamente. Nell’iperspazio apedagogico della pedagogia, infatti, tutto è posto in discussione. Sono in discussione l’asimmetria che oggi pare essere in generale un puro esercizio reazionario tra insegnante e discente, il triangolo pedagogico (Damiano 2013; Develay 1992; 1993; Houssaye 1988) e il quadrato pedagogico (Rézeau 2004, 201) di cui pure discuteremo qualche pagina più in là, il paradigma del totalitarismo e dei totalitarismi, la possibilità di addomesticare consumatori invece che formare cittadini liberi.
La apedagogia non può che essere una forma di opposizione allo status quo. Si tratta, certo, di una proposta rivoluzionaria poiché mette in relazione concretamente maestri e allievi, li responsabilizza e li costringe a considerare, prima di tutto, il loro ruolo in una comunità e dunque ben oltre i confini spesso repressivi delle istituzioni di apprendimento formale. Pasolini, in altri termini, aveva raggiunto una consapevolezza della Storia e del proprio tempo così coerente e profonda che gli aveva permesso di scoprire la radice, la matrice, insomma l’intima essenza e la causa prima che dà sostanza alla questione politica. L’educazione è tutto ciò: è l’educazione, implicita (perlopiù plagiante) o esplicita, a rendere possibile una certa subalternità poiché il potere è una forma di educazione, la più organizzata e, pertanto, quella più soggetta alla sua stessa anarchia decisionale. Così la questione non poteva e non può che affrontare il principio dualistico che la regola, quell’asimmetria enigmatica tra chi apprende e chi dovrebbe insegnare: ecco perché in Pasolini si fa concreta la scelta della disposizione chiasmica del pensiero, cioè il processo della sineciosi (Fortini, Attraverso Pasolini 23) per mettere in crisi il sistema politico-educativo. Il contrasto ossimorico accende la possibilità di un’alternativa, ribalta lo statuto ontologico coercitivo che soggiace al processo educativo.
L’8 novembre 1975 su «Tuttolibri» compare postuma un’intervista che Pasolini ha rilasciato poche ore prima del suo assassinio: afferma “il potere è un sistema di educazione che ci divide in soggiogati e soggiogatori” poiché è un sistema comune a tutti, dalle cosiddette classi dirigenti fino ai poveri, nel quale “tutti sono deboli, perché tutti sono vittime. E tutti sono colpevoli perché tutti sono pronti al gioco del massacro”. Lo stesso Zanzotto cita queste parole ponendole come incipit del proprio articolo in memoria dell’intellettuale delle Lettere luterane (Aure e disincanti 141). È qui che si manifesta pienamente la ribellione di Pasolini, cioè nel tentativo apedagogico di sottrarre l’individuo che fa parte della comunità, quindi per concatenazione la massa stessa, al gioco al massacro. La ribellione è restituire a ciascuna e ciascuno una identità che sia fuori dalla logica del mercato e dalla brutalizzazione dei corpi consumati dei consumatori per ricostruire quella comunità che, per la Resistenza, avrebbe dovuto essere fondata sui valori della democrazia attiva e non su etichette conformiste. La ribellione coincide quindi ontologicamente, è bene affermarlo nel modo più lineare possibile, con l’adesione pasoliniana ai valori della democrazia attiva e della Resistenza antifascista e antinazista e nel rifiuto dell’intervento normativo: non esiste categoria nella quale un essere umano possa accettare di farsi incastrare, incastrando anche gli altri.
1 Il dialogo si trova nella I scena del I atto della tragedia (1607). Alla richiesta incalzante di Cleopatra “I’ll set a bourn how far to be beloved”, Antonio risponde “Then must thou needs find out new heaven, new Earth”.
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