Alcune riflessioni sulle elezioni europee dell’8 e 9 giugno 2024
Il nodo storico delle elezioni
Le prossime elezioni europee sono state ridotte a una scadenza tutta italiana di confronto tra la destra e il centro-sinistra, tra Meloni e Schlein, in cui tutti o quasi tutti i leader di partito del nostro paese hanno preso la scena candidandosi al parlamento europeo, pur sapendo che non andranno mai a occupare un seggio a Strasburgo. Eppure al centro di questa competizione elettorale sta un nodo storico decisivo, che mette a rischio la stessa convivenza europea e il destino dell’Unione. Non abbiamo bisogno dell’Europa delle nazioni, sostenuta dalla Meloni, cioè del basso compromesso delle cancellerie, ma dell’Europa democratica di Ventotene, l’Europa dei popoli centrata sul potere decisionale del Parlamento Europeo. Vi è uno stretto intreccio tra la questione della guerra, quella climatica e quella sociale. Appare chiaro dalle trattative più o meno occulte che hanno portato a stornare miliardi di euro dal Next Generation EU (o Recovery Fund) per destinarli alla corsa agli armamenti in conseguenza del sostegno all’Ucraina in guerra con la Russia. Una logica del tutto subalterna alla politica americana da superpotenza declinante. Questo da una parte ha determinato il rallentamento della conversione ecologica (Green Deal) con il ritorno alle fonti energetiche fossili, dall’altra alla riduzione degli stanziamenti per i problemi sociali.
I frutti perversi della gestione neo-giolittiana
Il presidente del Consiglio italiano e capo dei conservatoti europei si è accreditato a livello dell’Unione come un interlocutore decisivo, capace di far uscire dall’attuale impasse la Commissione europea (intesa come governo dell’Unione), dovuta al tendenziale declino elettorale dell’alleanza tra popolari e socialisti. Il possibile garante di questa fase delicata è Mario Draghi in continuità con la politica di “ordinato passaggio” delle consegne da lui alla Meloni dopo il regalo della vittoria elettorale del 25 settembre 2022, che le fu fatto dal centro-sinistra diviso, vittima improvvida della propria stessa legge elettorale, e segnatamente dal PD dell’imbelle Letta. Ho descritto più volte questa operazione come una “gestione neo-giolittiana” dell’ascesa delle destre a livello europeo, cioè una loro associazione subordinata al governo dell’Unione. La grande borghesia finanziaria, rappresentata dai tecnocrati di Bruxelles, ci sta provando a livello continentale come è successo in Italia. Tale esperimento non mi pare stia portando i risultati voluti. Al di là delle parole oblique con cui la Meloni e i conservatori europei stanno cercando di accreditarsi, le destre più estreme stanno crescendo in termini di consensi politici in Germania (AFD), in Spagna (VOX) e in Portogallo (CHEGA) con riferimenti apertamente filo-nazisti e filo-fascisti. Mi limito a osservare di passata che le tre componenti della destra italiana si presentano divise su scala europea: la Meloni coi conservatori, Salvini con la Le Pen nel raggruppamento “Identità e libertà” e Tajani con il partito popolare. Non c’è da farsi illusioni: essi, superata la concorrenza dovuta al sistema proporzionale dell’attuale tornata elettorale, sono pronti a “colpire uniti”, né mi sembra che le politiche del centro-sinistra siano in grado di sfruttare queste contraddizioni. Anzi è in corso una deriva opportunista dell’attuale presidente della Commissione, Ursula Von der Leyen, la quale a fronte dell’usura della formula, che prese il suo nome e la portò al governo, sta dando chiari segni di appoggiarsi alla Meloni. Si vedano tutti i viaggi ufficiali fatti insieme in primo luogo a sostegno delle politiche belliciste rispetto alla questione ucraina, e poi rispetto alla gestione dei flussi migratori. I tentativi di “costituzionalizzare” le destre estreme neo-fasciste, inaugurati da Berlusconi a suo tempo in Italia, stanno portando frutti perversi. La scelta della Meloni, che si prodiga a dirsi filo-americana, filo-atlantista e filo-europeista, è di agire per “linee interne” – come sta facendo in vari ambiti da noi, come lo svuotamento della legge sull’aborto –, lasciando intravvedere soprattutto in campagna elettorale la propria vocazione autoritaria a favore dei propri elettori più estremi. Alla fine rimane saldo l’asse con Orban e la sua “democrazia illiberale”. Non dobbiamo dimenticare che l’amico ungherese siede a Strasburgo nelle file dei popolari, in cui rappresenta un sorta di quarta colonna.
L’astensionismo
Ancora una volta la questione decisiva anche a livello europeo è l’astensionismo, che in questa occasione potrebbe presentare una doppia faccia, cioè non solo con i delusi della sinistra, ma anche con i delusi della destra. Almeno secondo i sondaggi italiani gli elettori di Fratelli d’Italia sono per il 50% chiaramente “nostalgici” del fascismo, quindi potrebbero esseri delusi dal procedere del capo dei conservatori europei per “linee interne”. La Meloni potrebbe avere difficoltà a portarli alle urne europee. Ho già avuto modo di sottolineare “le crepe del blocco elettorale meloniano” a proposito del movimento dei trattori, che non dimentichiamo è di livello europeo proprio contro le politiche agrarie, energetiche ed ecologiche dell’Unione. In buona sostanza alcune politiche europee, che la Meloni è costretta almeno formalmente ad appoggiare, possono essere considerate pericolose dai ceti piccolo-borghesi, che speravano di averne la tutela. Questa dell’astensionismo di destra può essere la vera incognita delle elezioni europee.
La destra non raggiunge il 50%
Del resto negli ultimi sondaggi almeno italiani, prima della fase di silenzio, Fratelli d’Italia è data in calo al 27%, il PD in crescita al 22%, insieme ai 5 Stelle al 16%. Gli altri due partner della destra concorrenti tra loro si equivalgono (Lega 8,7%, grazie al pericoloso boomerang dell’ “effetto Vannacci” e Forza Italia 8,5%). Tra le liste minori i Verdi-SI stanno al 4,3% oltre la soglia di sbarramento (4%), la lista di Renzi sta al 4,4%, Azione di Calenda sfiora il 4% (3,9%), la lista più conseguente contro la guerra di Della Valle e Santoro, pur in crescita, arriva al 2,5% e quella di Cateno de Luca si ferma al 2%. Questo vuol dire che la destra “tripartita” arriva al 44,2% e il “campo largo” (qualsiasi cosa voglia dire in concreto questa espressione) di PD, 5 Stelle, Verdi-SI si attesta sul 42,3% (e potrebbe equivalere la destra assommando i voti dei pacifisti fino a 44,8). Ciò vuol dire che la destra rimane sotto il 50% anche considerando come “alleato” Renzi (48,6% in tutto). Ovviamente si tratta di puri calcoli matematici, che però possono indurre alcune considerazioni. Il nostro paese è spaccato a metà e la politica meloniana contrappone una metà contro l’altra come si è potuto vedere nel discorso di chiusura della campagna elettorale a Piazza del Popolo. È la prova plastica dello slogan avventurista del capo del governo neo-fascista “o la va o la spacca”. Ciò potrebbe voler dire che non è scontata una maggioranza favorevole alle riforme costituzionali autoritarie, da far valere in sede di referendum confermativo. Il punto come al solito è trovare un modo per raggiungere l’unità di azione del centro-sinistra. Ma il referendum è, almeno nell’ultima serie storica, il luogo in cui va a votare “la riserva della Repubblica”, cioè i delusi della sinistra che hanno a cuore la Costituzione democratica e antifascista.
Andare a votare
Non è questa la sede delle indicazioni di voto, per altro comunque difficili. Una cosa è certa: occorre andare a votare per massimizzare gli effetti dell’eventuale astensionismo della destra, cercando di dare un segnale di resistenza alla destra neo-fascista e neo-nazista e tentando di favorire le liste e i candidati con posizioni più coerentemente avverse alla guerra.
Articoli correlati
Nessun articolo correlato.
Comments (2)
Lascia un commento Annulla risposta
-
L’interpretazione e noi
-
Su Il popolo è immortale di Vasilij Grossman
-
Breve storia dell’amnesia
-
Sul Narratore postumo di Sergio Zatti
-
Tra neorealismo e persistenze moderniste: il romanzo italiano degli anni Cinquanta
-
-
La scrittura e noi
-
A proposito di L’Avversario di Emmanuel Carrère
-
“L’unico modo che abbiamo per non precipitare nel terrore”. Intervista a Edoardo Vitale
-
Antifascismo working class. Intorno all’ultimo libro di Alberto Prunetti
-
Auster in aula
-
-
La scuola e noi
-
Matteotti cento anni dopo, fra storia e didattica
-
Politica e cultura: i dilemmi che abbiamo creduto oltrepassare. Verso una nuova stagione di lotte nella scuola?
-
La scuola ai tempi del Mim /1: cultura di destra e crisi della globalizzazione liberal
-
I paradossi dell’orientamento narrativo
-
-
Il presente e noi
-
Il convegno di LN: i laboratori/3. Leggere la poesia d’amore medievale nella secondaria di primo e di secondo grado
-
Il convegno di LN: i laboratori/2. Tra narrazione e argomentazione
-
Il convegno di LN: i laboratori/1. Oltre le ideologie del digitale
-
Il convegno di LN: le relazioni/3. La formazione docenti (di letteratura) iniziale e in itinere
-
Commenti recenti
- Giuseppe Corlito su Su Il popolo è immortale di Vasilij GrossmanCaro Emanuele, ti ringrazio del commento. E’ vero che nella sinistra (soprattutto quella “rivoluzionaria” degli…
- Emanuele Zinato su Su Il popolo è immortale di Vasilij GrossmanDue cose su Stalin e sulla letteratura, fuori dai luoghi comuni. Nel 2005 Berlusconi, durante…
- Eros Barone su Su Il popolo è immortale di Vasilij GrossmanLo scritto che Beppe Corlito ci ammannisce in questo articolo dovrebbe essere una presentazione del…
- Daniele Lo Vetere su La scuola ai tempi del Mim /1: cultura di destra e crisi della globalizzazione liberalGrazie a te dell’attenzione, Attilio.
- Attilio Scuderi su La scuola ai tempi del Mim /1: cultura di destra e crisi della globalizzazione liberalRingrazio Daniele Lo Vetere per questa prima, lucida tappa di una riflessione che seguirò con…
Colophon
Direttore
Romano Luperini
Redazione
Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Gabriele Cingolani, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato
Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Trovo veramente ridicola e contraddittoria la chiamata alle urne per…”massimizzare gli effetti dell’eventuale [sic!] astensionismo della destra”. Mi sembra una variante del sillogismo evocato nei suoi “Essais” da Montaigne: il salame fa bere, il bere disseta, dunque il salame disseta. Sennonché, mentre la campagna elettorale si avvicina alla sua conclusione e un profluvio di balordaggini, amenità e unzioni ci sommerge, diviene sempre più forte in me – e credo in molti altri – la tendenza ad astenermi dal legittimare con il voto un modello di politica interna (il bipartitismo competitivo), di politica estera (la subalternità all’imperialismo euro-americano), di società (il capitalismo monopolistico guerrafondaio e neoliberista) e di cultura (la “dittatura dell’ignoranza” e il ‘pensiero debole’, in cui rientra anche il pacifismo filo-Nato), rispetto al quale mi trovo in posizione antipodale. Non vedo infatti alcuna reale alternativa né fra i candidati (alla furbesca arroganza della Meloni fa riscontro la sorridente inconsistenza della Schlein) né fra gli schieramenti in competizione, entrambi accomunati, sia pure con diverse gradazioni ed intensità, dallo stesso modello di politica interna (il bipartitismo competitivo, per l’appunto), di politica estera (la subalternità all’imperialismo euro-americano, per l’appunto), di società (il capitalismo monopolistico guerrafondaio e neoliberista, per l’appunto) e di cultura (il “berlusconismo” televisivo e il ‘pensiero debole’, per l’appunto). In realtà, siamo tutti vittime di un frenetico cretinismo schedaiolo, che riduce il nostro ruolo a quello di elettori (“tu per chi voti?”): in altri termini ad una condizione (non solo sociale ma anche) ideologica e simbolica, che è quella piccolo-borghese. Che dire, poi, dei partiti che si denominano comunisti (PCI e PRC), a cui, per la mia estrazione, dovrei sentirmi maggiormente vicino? So bene, giacché li conosco, che vi militano compagni assolutamente stimabili, ma il mio giudizio sui programmi e sulle ideologie che caratterizzano i gruppi dirigenti di tali partiti – programmi e ideologie che si inscrivono tutti nel vecchio “arco costituzionale” – non può che essere, dal punto di vista del marxismo ortodosso (con radicale esclusione, perciò, di ogni tipo di revisionismo, tanto di destra che di sinistra), del tutto negativo. Il livello politico, culturale e linguistico del linguaggio e dei comportamenti che caratterizzano i ‘politici’ attuali è, infatti, talmente degenerato e invilito che, per dirla ancora una volta con il padre Dante, diventa una misura elementare di sana igiene mentale e morale prendere le distanze da una siffatta “compagnia malvagia e scempia”, tanto più che, come precisa Cacciaguida nella sua celebre profezia del canto XVII del Paradiso, “di sua bestialitate il suo processo / farà la prova; sì ch’a te fia bello / averti fatta parte per te stesso”.
“Motus in fine velocior”: la frase latina ben si attaglia alla descrizione di questa tappa del processo che scandisce la crisi organica del parlamentarismo borghese. Queste sono infatti le prime elezioni della storia della Repubblica in cui i votanti sono meno del 50%, per l’esattezza il 49,7%, nonostante la partecipazione diretta di molti leader di partito a questo tipo di campagna elettorale. Prendendo in considerazione i soli votanti e guardando non i voti assoluti ma le percentuali (giacché in termini assoluti ha votato meno della metà del corpo elettorale e lo stesso primato di Fdi è stato conseguito perdendo 600.000 voti rispetto alle elezioni politiche del 2022), i tre partiti di governo (Fdi, Forza Italia e Lega) vedono rafforzati i propri numeri, che insieme li portano a sfiorare il 48%. Nell’altra ala del bipolarismo competitivo avanzano il Pd, che rispetto alle politiche cresce sia in termini di voti assoluti che di percentuali (24%), e Alleanza Verdi Sinistra che, sull’onda della “candidatura-civetta” di Ilaria Salis, raggiunge il 6,6%. “Deludente”, come ha ammesso Giuseppe Conte, è il risultato di M5S, che scende sotto la soglia del 10%. Ancor più deludente il risultato conseguito dalla cosiddetta “area riformista”: né Stati Uniti d’Europa (3,76%) né Azione (3,35%) superano la soglia del 4% necessaria per mandare eletti a Strasburgo. Sennonché la discesa in campo di molti leader (Meloni, Tajani, Schlein) e i toni radicali con cui alcuni partiti hanno cercato di vivacizzare una campagna elettorale caratterizzata dal silenzio, in parte indifferente e in gran parte ostile, della maggioranza del corpo elettorale, non sono bastati a convincere la maggioranza dei cittadini a recarsi alle urne. Tanto più sguaiato appare pertanto lo strepitio levato dai leader dei maggiori partiti nel magnificare le vittorie di Pirro conseguite in una campagna elettorale in cui ha votato meno della metà del corpo elettorale. Infatti, il dato del 49,7% di affluenza alle urne è inferiore tanto al 63,9% delle elezioni politiche del settembre 2022, quanto al 56,09% del 2019. E questo nonostante che il voto in 3.700 comuni e in Piemonte abbia fatto lievitare la partecipazione complessiva. Del resto, non ci vuol molto a capire che chi va a votare per le elezioni europee in assenza di altre e contemporanee competizioni elettorali ( le quali ovviamente aumentano l’affluenza alle urne in maniera spuria) tende mediamente ad esprimere un voto conservatore rispetto allo ‘status quo’. La recente tornata elettorale segna quindi, per tutte le aree politiche, un vero e proprio salto di qualità nella crisi organica che attanaglia da tempo lo Stato e la stessa società italiana. Così è, a tutti gli effetti, e i risultati elettorali, per chi abbia seguìto le tappe successive di tale crisi, solo in apparenza sono sorprendenti. La delegittimazione di massa della rappresentanza politica e la ristrutturazione in senso autoritario dello Stato borghese sono infatti due facce della stessa medaglia: due facce della crisi della formazione socio-economica italiana che vanno continuamente osservate, organicamente inserite nel contesto internazionale e congiuntamente analizzate, poiché costituiscono il problema fondamentale che oggi si pone nel nostro paese, così come in altri paesi europei. Ond’è che, se per un verso l’astensione testimonia il distacco o, più realisticamente, la nausea della maggioranza delle masse nei confronti di quelle maleodoranti stalle di Augìa che costituiscono, ai vari livelli, il parlamentarismo borghese, per un altro verso va posta a tema la modificazione che, nella fase attuale dell’imperialismo, è maturata nel sistema della rappresentanza politica.