Skip to main content
Logo - La letteratura e noi

laletteraturaenoi.it

diretto da Romano Luperini

Oltre il nero di uno schermo. Su “La zona d’interesse” di Jonathan Glazer

Deadline, un sito di notizie sul cinema hollywoodiano, pubblica in una sua rubrica le sceneggiature originali dei film che reputa più interessanti. Questo ci permette di leggere, fra le altre, quella di The zone of interest, film del 2023 diretto dal regista inglese Jonathan Glazer e basato sull’omonimo romanzo del 2014 di Martin Amis. Riporto qui di seguito le prime righe di questa sceneggiatura:

BLACK 1
THERMAL NIGHT VISION:
A musical overture begins. Inviting, descending.
TITLE: The Zone of Interest. White letters.
Gradually, the white letters fade as they cool, leaving us in blackness again as the music plays in descending patterns, for several minutes.
The sound of birdsong emerges through the music, at first
faintly. Cicadas too.

La prima scena, dunque, (e non sarà l’ultima) è ripresa con una telecamera termica, di quelle usate ad esempio per cogliere la presenza di forme di vita umane o animali di notte: ciò che è freddo resta nero, ciò che è vivo ed emette calore diventa più chiaro e quindi visibile. In questo caso ad emettere calore sono i caratteri che compongono il titolo del film, che poi pian piano si raffreddano così che tutto ritorna nero. In questo modo lo spettatore è lasciato per several minutes, diversi minuti, nell’oscurità. Intanto parte la colonna sonora (dell’artista britannica Mica Levi, in arte Micachu), tutta suoni discordanti e disturbanti, in cui sembra di sentire rumori di metalli, forse urla lontane, o spari. L’effetto sullo spettatore ha a che fare, in qualche modo, con quello che succede a Dante quando entra nell’Inferno: l’orrore, prima di diventare visibile, si concretizza in suoni dolorosi che muovono al pianto (Inferno, III, 22 e seguenti). In effetti anche chi guarda La zona d’interesse, come Dante, si sta avvicinando a un inferno, ma l’esito è diverso. Dante l’inferno lo vede, lo vive, lo attraversa e infine ne esce. Noi, invece, guardando il film di Glazer, restiamo con l’angoscia di percepire continuamente la presenza dell’inferno in terra di Auschwitz senza mai entrarvi davvero e senza mai davvero uscirne. Nessuna catarsi: siamo condannati ad un limbo di ignavia sulla quale potremo solo interrogarci. Tutto questo per dire che, anche se può sembrare assurdo, forse la scena più importante del film di Glazer è questa prima, fatta di several minutes of blackness, una scena in cui letteralmente non si vede nulla, in cui la totale assenza di colore riflette la totale assenza di calore e di vita, il freddo di un campo di morte e quello delle nostre anime – interrogandoci.

Il buio oltre il muro

“Zona d’interesse” (Interessengebiet in tedesco) è l’espressione burocratica con cui l’amministrazione nazista ha chiamato la porzione di territorio polacco occupato riservata al campo di sterminio di Auschwitz e ai suoi dintorni, territorio posto direttamente sotto il controllo delle SS e dove la popolazione polacca non poteva muoversi liberamente. Nella “zona d’interesse”, subito fuori dal muro di cinta del campo di sterminio vero e proprio, con le sue torrette di guardia e il suo filo spinato, si trovavano anche gli alloggiamenti del personale tedesco che sovrintendeva alla vita del campo, compresa la casa signorile in cui abitava Rudolf Höß, che a lungo fu il solerte comandante di Auschwitz, insieme alla moglie, ai cinque figli, e alla servitù, in parte composta da personale tedesco o polacco, in parte da prigionieri del campo medesimo.

Il film è il racconto della vita di questa famiglia, e del suo assurdo e abietto tentativo di costruire una normalità borghese in un luogo che di normale non ha proprio nulla. Nella scena iniziale già descritta, mentre lo schermo è ancora nero, alla musica dissonante di Mica Levi si mescolano, prendendo piano piano il sopravvento, cinguettii di uccelli, rumore di acqua che scorre, cicale. E dal nero emerge un paesaggio paradisiaco (cielo azzurro, vegetazione rigogliosa, un fiume), e una famiglia che si gode un pic-nic estivo per poi tornare a casa. E la casa è lì, a ridosso del muro del campo: di là dal muro c’è l’orrore, di cui ci arrivano solo suoni indistinti (latrati di cani, urla di dolore, fucili che sparano), di qua un giardino lussureggiante curato in prima persona, e con maniacale attenzione, da Hedwig, la moglie del comandante. Questo giardino, con i suoi fiori, i suoi piccoli e deliziosi alberelli, la sua piscina per le feste con gli amici, è il cuore del film, a livello visivo e a livello ideologico. Hedwig è una donna di origini modeste (la madre era a servizio di una ricca ebrea) divorata dall’ambizione borghese di costruire il suo paradiso fatto di una bella casa e di solidi affetti domestici. Il fatto che la casa sia ad un passo da una fabbrica di morte, e che il marito sia il capo solerte e efficientissimo di quella fabbrica, è un dettaglio del tutto irrilevante, o meglio costantemente rimosso (se ne rintraccia la presenza, al fondo della psiche dei personaggi, solo da certi sguardi o smorfie, che compaiono sul viso degli adulti quando uno rumore più forte degli altri arriva da di là; oppure dalle inquietudini nei giochi e nei sogni dei bambini).

Hedwig nel corso del film si convince davvero di aver costruito il suo paradiso lì, nella zona d’interesse, tanto che quando suo marito viene trasferito, lei non vuole andarsene. Rudolf, da parte sua, alterna il suo voler apparire un buon padre borghese ad una sempre più paranoica adesione alla burocrazia della morte: discutere come se si trattasse di un affare qualsiasi con i rappresentati dei produttori di forni sull’efficientamento della catena di montaggio della distruzione di corpi umani, e poi leggere a letto una favola alla figlia piccola; controllare a fine giornata che tutte le luci della casa siano spente e sovrintendere con sguardo vitreo alle operazioni di selezione nel campo. Senza soluzione di continuità. Il nucleo del film è tutto qui, nella dissociazione fra il lavoro di sterminio di un popolo e la protezione di una vita privata borghese. La conseguenza è la riduzione di quel lavoro ad una attività come un’altra: così la soluzione finale può diventare semplicemente un processo economico-industriale (e in effetti la riunione per implementare il paranoico piano hitleriano di eliminare tutti gli ebrei ungheresi è messa in scena come un normale consiglio di amministrazione di un’azienda); così alla domestica/häftling che non fa bene il suo lavoro la padrona di casa può dire “Guarda che dico a mio marito di spargere le tue ceneri nei campi” con la stessa noncuranza con cui potrebbe dirle “Attenta che se continui così ti licenzio”; e così, in effetti, la cenere dei forni crematori può essere usata per concimare e rendere florido il bel giardino di Hedwig.

Un’opera d’arte su Auschwitz e su di noi

Il film di Glazer, come dicevamo, prende spunto dall’omonimo romanzo di Martin Amis. Non si tratta però di un adattamento cinematografico vero e proprio: del romanzo il film mantiene solo l’ambientazione e l’idea di fondo (quella di raccontare la vita del comandante di Auschwitz e della sua famiglia nella “zona d’interesse”), trattando però la materia in modo molto libero e autonomo. E’ una scelta felice, questa di discostarsi dal racconto di Amis, e per vari motivi.

Il romanzo è costruito fondamentalmente su tre scelte strutturali e stilistiche. La prima è quella di affidare il racconto a tre personaggi che parlano in prima persona: il comandante del campo, qui chiamato Paul Doll, che si autodefinisce “uomo normale con sentimenti normali”; Golo Thomsen, giovane nazista perplesso che si innamora della moglie di Doll; e Szmul, prigioniero a cui è affidata la guida di un Sonderkommando e l’esecuzione dei compiti più riprovevoli. La scelta di queste tre voci costringe l’autore alla discesa, vertiginosa e rischiosissima, nell’interiorità di tre personaggi estremi. La seconda scelta decisiva (e dissonante rispetto alla prima) è quella di raccontare l’orrore estremo con i toni del grottesco e dell’umorismo nero, peraltro tipici di Amis. La terza e ultima è di bilanciare la scrittura frammentaria ed ellittica con una trama romanzesca piuttosto tradizionale, fondata su un classico triangolo amoroso.

Glazer rinuncia a tutto questo. All’interiorità e al discorso in prima persona si sostituisce uno sguardo esterno, apparentemente neutro, quasi da “grande fratello”: le riprese nella casa degli Höß sono state effettuate con telecamere nascoste nei muri e controllate da remoto, così che gli attori potessero muoversi liberamente senza sentire la presenza di una troupe intorno a loro; il risultato è la percezione di una agghiacciante normalità. Allo stesso modo, scompaiono (o piuttosto sono, per così dire, solo impliciti) l’umorismo nero e il grottesco. Così come non c’è, nel film, un intreccio vero e proprio: a Glazer non interessa lo sviluppo dei personaggi fra un punto di partenza e un punto di arrivo, ma solo la costruzione di un’opera stilisticamente coerente intorno a una domanda essenziale: “come è stato possibile?”.

L’aspetto più coraggioso dell’operazione artistica di Glazer è proprio questa scelta di fare un film di stile su un tema che sembrava condannato a essere schiacciato sulla testimonianza o sulla rappresentazione (a volte persino feticistica) dell’orrore. Il film di Glazer, regista dal linguaggio personalissimo che nasce come autore di videoclip musicali e spot pubblicitari, è infatti estremamente curato e coerente nello stile, cosa che emerge in modo particolare proprio nelle scene più spiazzanti e meno convenzionali; scene in cui l’elemento visivo assume un valore pedagogico senza per questo perdere la sua forza artistica. Meritano di essere citate almeno tre di queste sequenze.

La prima è quella in cui viene ripreso l’artificio tecnico della macchina termica. Questa volta la macchina coglie il calore di una figura umana, che all’inizio sembra incongrua e misteriosa, ma che poi riconosciamo come quella di una ragazza che di notte nasconde della frutta in luoghi in cui potrebbe essere trovata dai prigionieri: è una ragazza polacca (realmente esistita e conosciuta dal regista) che prova a portare un minimo conforto ai disperati. La macchina termica registra l’unica forma di calore umano presente nel film.

La seconda è una scena quasi astratta; più vicina alla videoarte che al cinema. Una sequenza di primi piani di fiori del giardino di Hedwig, con sullo sfondo le solite urla che arrivano da oltre il muro. I fiori diventano sempre più vicini, e le urla sempre più forti, fino ad un primissimo piano di una dalia rossa, col rosso del fiore che si espande fino a coprire tutto lo schermo, mentre le urla si fanno più atroci. In una scena di pochi secondi, il compendio di tutto il film.

La terza, verso la fine, vede Rudolf scendere le scale di un palazzo, dopo una festa (questa sì grottesca) di vecchi gerarchi nazisti. Improvvisamente Rudolf è colto da conati di vomito, poi guarda in camera, e quindi viene inghiottito da uno schermo nero che subito diventa l’interno di Auschwitz oggi: il campo di distruzione trasformato in museo, con le inservienti intente a spolverare i forni, a lucidare le vetrine con dentro le scarpe, le valigie o i dispositivi medici tolti dai nazisti agli ebrei prima di ucciderli. È una sequenza ricca di implicazioni e aperta a molte interpretazioni. Da un lato va letta dal punto di vista di Rudolf, che come per una epifania si proietta su quella che potrà essere la percezione futura delle sue imprese (ha paura del giudizio della storia? O più probabilmente si rammarica perché delle sue grandi gesta resterà solo qualche polverosa reliquia?). Dall’altro parla di noi, di come ci poniamo verso la memoria di quei fatti: quegli operatori che puliscono il Museo sono emblema della cura che abbiamo verso la memoria della Shoah, o solo del fatto che anche ricordare sta diventando un lavoro stanco e routinario? Non credo che Glazer voglia dare una risposta: quel che fa è mettere in relazione, grazie a questa scena e al film in generale, lo sguardo del carnefice con il nostro, costringendoci in fondo a chiederci chi siamo noi, che ruolo abbiamo in questa storia. La domanda che Glazer ci aveva fatto fin da quell’iniziale schermo nero.

Un film difficile e una domanda semplice

Sappiamo quanto la rappresentazione della Shoah al cinema abbia una storia lunga, fatta di molti film, molte discussioni e anche qualche polemica (qui una ricostruzione recente, utile per una prima informazione), così come sappiamo quanto lo strumento cinematografico sia diffuso in quell’ambito del fare scuola che normalmente chiamiamo “didattica della Shoah”. L’impressione è che anche su questo fronte il film di cui stiamo parlando segni un punto. Oltre agli ormai classici Schindler’s list e La vita è bella, sono moltissimi i film che hanno raccontato la Shoah, mostrando in vari modi l’orrore per chiederci di volta in volta una riflessione, una partecipazione emotiva, o una immersione sensoriale (è questo il caso, ad esempio, del notevole Il figlio di Saul di László Nemes), con l’invito, sempre, a non dimenticare, perché la storia non si ripeta, eccetera. Qui succede qualcosa di diverso: di fronte a carnefici così borghesi, così normali, così amanti dei figli e dei fiori esattamente come noi, così dediti al lavoro esattamente come noi, la condanna morale non ci basta per lavarci la coscienza. Il dubbio che (poco o tanto) anche noi siamo protagonisti di questo film è un dubbio che dobbiamo portarci a casa. Noi siamo (almeno un po’) Hedwig tutte le volte che pensiamo che la vita si possa risolvere curando il nostro giardino, proteggendo la nostra tranquillità domestica. Noi siamo (almeno un po’) Rudolf quando, se un lavoro rende bene e ci permette di fare carriera, non ci stiamo troppo a chiedere quali ingiustizie e violenze possa, vicino o lontano, provocare. È una sensazione di involontaria complicità che dà fastidio, così come dà fastidio l’odore che arriva dal campo e che disturba le feste in piscina.

Ma in un mondo come il nostro che è tutto una incongruente e assurda festa in piscina, con la guerra e il dolore rimossi giusto oltre il muro, forse proprio questo è il film sulla Shoah da guardare oggi, e da far vedere nelle scuole nei prossimi anni; un film in cui l’orrore non è presente sullo schermo ma volutamente rimosso, e ti arriva come un urlo soffocato, o come un odore dolciastro e nauseabondo.

***

Un ultimo appunto: ho visto questo film in sala, con mia moglie e con nostra figlia di dodici anni. All’uscita mia figlia ha detto semplicemente: “Ma come facevano a fare la loro vita normalmente, con tutto quello che succedeva di là?”. Non ho altro da aggiungere, vostro onore.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Commenti recenti

Colophon

Direttore

Romano Luperini

Redazione

Antonella Amato, Emanuela Bandini, Alberto Bertino, Linda Cavadini, Roberto Contu, Daniele Lo Vetere, Morena Marsilio, Luisa Mirone, Annalisa Nacinovich, Stefano Rossetti, Katia Trombetta, Emanuele Zinato

Caporedattore

Daniele Lo Vetere

Editore

G.B. Palumbo Editore