Il cinema sommesso (e sommerso) di Mario Brenta
Il cinema di Mario Brenta è profondamente radicato in un grande rispetto
per il reale, per tutto ciò che vive, anche nei suoi aspetti più umili, meno
appariscenti. Un rispetto che proviene da un senso istintivo di felicità nell’essere
partecipe delle cose.
Ermanno Olmi
A cinquant’anni esatti dal suo primo lungometraggio Mario Brenta, come quasi tutti i suoi compari cineasti nati nei “ruggenti” anni Quaranta (Bellocchio, Agosti, Faenza, Amelio, Aprà, Benvenuti, Brocani, Nichetti, Del Monte, Caligari…), all’appellativo onorifico di “Grande Vecchio” – con una certa qual dose di vezzosa nostalgia e in barba all’anagrafe – preferisce quello passato di “Giovane Autore” ma con una piccola inversione e cioè quello di “Autore Giovane”. Nato a Venezia, studi da ingegnere e prime esperienze in pubblicità, prima come grafico poi come sceneggiatore di caroselli, su segnalazione di Ermanno Olmi a vent’anni è assistente stagista per Eriprando Visconti nel film Una storia milanese (1962). Le esperienze su un set cinematografico proseguono come aiuto regista, casting e sceneggiatore ombra (e anche no) per circa una quindicina di film (con Zampa, Vicario, Bianchini, Questi, Cobelli, Faenza, Salce, Tuzii) ma è nel pieno degli anni Settanta che avviene il passaggio alla regìa.
La prima vita. I lungometraggi di finzione: da “Vermisat” a “Barnabo delle montagne”
L’opera d’esordio arriva infatti nel 1974 e viene subito selezionata al Festival di Venezia. Vermisat è la storia di un emarginato senza fissa dimora che per sopravvivere raccoglie i vermi nei fossati paludosi del milanese, per poi rivenderli ai negozi di caccia e pesca. Trova conforto in una prostituta, Maria, ma ammalatosi di tubercolosi, finisce nelle mani di un ciarlatano che in cambio di medicine fasulle gli ruba sia il sangue, destinato a ospedali privati, che la donna, lasciandolo nella anonima solitudine dei nosocomi. Interpretato da Carlo Cabrini, (non) attore olmiano de I fidanzati (1963), immerso nel plumbeo clima dell’Italia industriale, il film è ben accolto e ottiene vari riconoscimenti, come il Premio St. Vincent Grolla d’Oro per l’Opera Prima, il Premio speciale a Valladolid nel Festival dei Valori Umani e il Premio Rizzoli Miglior Film dell’Anno con Professione: Reporter di Antonioni e Allonsanfàn dei fratelli Taviani. Come spesso accade, il successo è maggiore in Francia, dove viene distribuito assieme al capolavoro La jetée di Chris Marker e viene accostato al rigore stilistico di Antonioni e Bresson, incontrando perfino l’attenzione di Gilles Deleuze. In Italia, mentre Morando Morandini vede nel film “una parabola sommessamente tragica sulla violenza delle istituzioni, realizzata con una ruvida capacità di osservazione e con lucidità impietosa, ma anche con rispetto e pudore profondi”, Alberto Moravia parla di un’opera eccezionale perché in controtendenza rispetto a una rappresentazione retorica e conformista del proletariato. Il tempo ha restituito a questa coraggiosa prova d’esordio la giusta visibilità: nel 2000 Vermisat viene restaurato tra i “100 film da salvare” ed entro l’anno corrente uscirà in edizione DVD-Forum distribuito da Penny Video, con tanto di intervista allo stesso Brenta. Rivisto oggi, trasmette ancora una carica di malessere nella sua essenzialità senza concessioni, mantiene intatta la sua forza anticipando problemi attualissimi come l’inquinamento e la marginalità sociale.
Negli anni Ottanta l’attività del regista veneziano riparte da un nuovo incontro con Ermanno Olmi, conosciuto a Milano nel 1962. Nel 1982, ancor prima che venga a maturazione il progetto di IpotesiCinema, la scuola-laboratorio di Bassano del Grappa fondata da Olmi e Paolo Valmarana, durante l’allestimento del film Camminacammina (1983) Brenta gira il suo documentario Effetto Olmi, fondamentale per capire il metodo del magister e prima autentica incursione in una forma espressiva che il regista veneziano svilupperà compiutamente negli anni successivi. Proprio nell’ambito di IpotesiCinema, con il supporto dalla RAI, nel 1988 porta a termine la regìa di Maicol, il racconto di un bambino di cinque anni che la madre operaia e single, distratta dal suo rapporto difficile con un fidanzato infedele, smarrisce nella metropolitana di Milano. Il nucleo del film è appunto l’erranza notturna del piccolo Maicol, che involontariamente scopre un mondo sconosciuto di adulti perlopiù indifferenti o superficiali, fino a quando la polizia non lo riconsegna alla madre. Accostato dal critico Raphaël Bassan a certi episodi del Decalogo di Kieslowski e premiato di nuovo in Francia – a Cannes con il Premio Film et Jeunesse e a Parigi con il Georges Sadoul quale miglior film straniero dell’anno 1989, nonché a Ginevra con il Grand Prix International “Stars de Demain” a Sabina Regazzi per la Migliore Attrice Esordiente – Maicol è ancora un’opera sulla solitudine nella società industriale, sulla liquidità dei rapporti umani tra i palazzoni della metropoli. La concentrazione temporale e narrativa rende il racconto fluido e teso, con un impegno notevole sul sonoro e sul paesaggio. Memore della lezione olmiana, Brenta evita di sovraccaricare il piano diegetico con musiche esterne ed altri virtuosismi, lasciando che la realtà “accada” sotto gli occhi nostri e di Maicol, in una sorta di reportage di valore antroposociologico che ancora oggi lascia il segno. Senza retorica e moralismi.
Negli anni Novanta, dopo che Olmi trae da Dino Buzzati Il segreto del bosco vecchio (1993), l’anno successivo l’amico e collega veneziano è al Festival di Cannes con il suo Barnabo delle montagne, ultima opera di finzione prima di una lunga pausa. Il film rielabora liberamente il racconto buzzatiano del giovane guardiaboschi che, spenti i bagliori della prima guerra mondiale, è di servizio a una polveriera sotto la minaccia dei contrabbandieri. Quando viene ucciso il suo paterno comandante, Barnabo fallisce la prova della maturità: la paura del nemico gli fa perdere il posto e la dignità. Il tempo trascorre inesorabile e dopo un’esperienza da contadino, Barnabo torna tra i monti quando la polveriera è dismessa. Vede un’ultima volta i contrabbandieri, invecchiati e in malarnese, e può saldare il conto ma non lo fa. Non spara, accettando le sue e altrui umane debolezze. Questo splendido racconto di formazione, rielaborato da Brenta nel silenzio sospeso delle Dolomiti di Lavaredo e in parte alle foci del Po, richiede una lunga lavorazione in un arco biennale e uno sforzo produttivo non indifferente. Girato ancora una volta con attori non professionisti e fotografato magnificamente, il film è considerato dai più quello maggiormente vicino allo spirito di Buzzati e tra le migliori riduzioni cinematografiche dei suoi romanzi: se Enzo Natta parla di “un film ieratico, suggestivo, lirico, dove il silenzio ha il valore di una meditazione e la natura acquista il significato di una contemplazione mistica”, Vittorio Spiga sostiene che il film “possiede il fascino asciutto e folgorante, struggente ed enigmatico del cinema “provocatorio” di Bresson: un’appassionata meditazione sulla conquista della tolleranza”. Ma è forse Fabio Ferzetti a cogliere essenza e destino dell’opera di Brenta, parlando di “una riuscita assoluta, la prova che nel nostro cinema – sempre più isolato (fuori) e trascurato (in patria) – sopravvivono zone franche di ricerca, impermeabili alle mode culturali come agli imperativi del mercato”. Anche in questo caso Barnabo delle montagne raccoglierà via via altri premi prestigiosi, tra cui il Gran Premio al Festival internazionale Film della montagna di Trento, il Grand Prix “Antigone d’Or” per il miglior film al Festival di Montpellier e in Brasile ben due riconoscimenti al Festival do Cinema Latino de Gramado: Migliore Regìa e Premio della Critica Internazionale.
Mario Brenta con Karine de Villers
La seconda vita. Il sodalizio con Karine de Villers e la riflessione sull’arte
…Vivere di morte,
morire di vita
(da Eraclito, Calle de la Pietà)
Dal 1994 al 2010 le cronache non segnalano più l’uscita di un film di Mario Brenta. È una pausa apparente e in un certo senso obbligata. I progetti ci sono ma non vengono realizzati per mancanza di volontà altrui o assenza di produttori e sono pure ambiziosi, come quelli tratti da opere letterarie di spessore quali L’armata dei fiumi perduti di Sgorlon e La variante di Lüneburg di Maurensig, e come anche da un fatto di cronaca o da un soggetto originale.
Intanto il regista dal 2001 ha iniziato l’insegnamento universitario, proseguendo la sua attività a Ipotesi Cinema. Proprio nel 2005, a Marsiglia per motivi di lavoro “ipotesini”, avviene l’incontro con la cineasta belga Karine de Villers. Antropologa di formazione, sceglie in modo del tutto naturale il cinema come strumento di ricerca. Una vera e propria antropologia visuale insolita e originale che invece d’interessarsi alle culture primitive dell’Africa o del Sud America sceglie come campo d’indagine per il suo primo passo gli abitanti della propria strada. Ne esce così il film Je suis votre voisin (1990), che ottiene il Prix du Meilleur Court-Métrage al festival di Cannes ma soprattutto conquista l’attenzione del padre del documentario belga Henry Storck, che l’accoglie nella stretta cerchia dei suoi amici (Jean Rouch, Chantal Akerman, Luc de Heusch, Pierre Alechinsky) con cui intrattiene negli anni una relazione proficua e duratura. Con Karine nasce un sodalizio umano e artistico che apre alla seconda fase del cinema di Brenta.
Calle de la Pietà (2010) nasce come soggetto (bellissimo) per un film di finzione sull’ultimo giorno di vita del pittore Tiziano Vecellio, che muore di peste il 27 agosto 1576 insieme ad altri 40.000 veneziani, lasciando incompiuto il dipinto La Pietà che avrebbe dovuto adornare la cappella della Crocifissione dei Frari, dove intendeva essere sepolto; accanto a lui una donna misteriosa, una modella o forse una semplice servetta. Ma quella storia è morta e ogni sua rappresentazione sarebbe falsa. Allora, insieme a Karine, Brenta costruisce qualcosa di nuovo, una riflessione sulla vita e sull’arte di grande originalità. A tratti docufiction, a tratti poema visivo sul tempo e sulla morte, rimane un’opera inclassificabile e affascinante, in cui la parola si fa estetica e l’immagine riassume l’immutabilità della vita nella transizione degli esseri viventi (il Lazzaretto, i gamberi e i molluschi mangiati dai gabbiani) e degli elementi: il vento passa con le sue folate su Venezia, così come la pioggia che irrompe e si attenua fino a cessare, mentre lo sciabordìo delle onde segna l’eterno ritorno della Natura. E l’arte, come il cinema, è il patetico tentativo di vincere la morte attraverso le immagini. Ricoperta da un tappeto sonoro che alterna la quinta di Mahler (e non solo) ai suoni diegetici, con questa fantomatica donna che attraversa la città e gli interni (la stessa Karine), Calle de la Pietà è una straordinaria opera di passaggio tra fiction e fenomenologia, l’unica del terzo millennio ad essere pubblicata in DVD e trasmessa più volte da “Fuoriorario” di Enrico Ghezzi.
Questo film è la prima parte di un dittico sulla morte di cui il corto Agnus Dei (2012) costituisce la seconda. La sceneggiatura di Karine de Villers riguarda suo padre, che prima di essere ricoverato e presagendo la fine, ha confessato alla figlia un segreto custodito oltre cinquant’anni: un abuso subito in collegio in età adolescenziale da parte di un religioso, e ha chiesto di farne un film. Come accade in Calle de la Pietà, quel film anche Karine non lo può fare, ma lo trasforma insieme a Brenta in qualcosa di più poetico e toccante, ai limiti dell’infilmabile. Riprende infatti in campo medio il padre inerte sul letto della clinica, e intorno realizza un montaggio di vuoti che prova a occupare con la sua erranza inquieta: possono essere campi in cui si bruciano le stoppie, strade che si perdono nella foschia, oppure un collegio abbandonato di storie dimenticate e stracci avvoltolati, o voli di stormi perché “si sta alzando il vento / cerchiamo di vivere”, come recita la citazione di Paul Valéry che chiude il film. Materiali abilmente assemblati e le musiche di Bach, così come le note di una messa, ci accompagnano in questa elegìa dedicata al padre, pienamente sintonica con la Venezia tizianesca del primo segmento.
Tra il 2011 e il 2014 Brenta si dedica anche alla vita degli artisti di palcoscenico, filmando l’allestimento, le prove di lettura e in definitiva il divenire di uno spettacolo di teatro. Il risultato più significativo, ancora diretto con Karine de Villers, si intitola Corpo a corpo e nasce da un incontro con l’attore e regista Pippo Delbono, in procinto di mettere in scena Orchidee secondo le sue linee guida: nulla è prestabilito, vige l’improvvisazione per cui l’attore diventa autore e viceversa. Quanto di meglio per il metodo Brenta – de Villers perché, come racconta il regista, “ci avrebbe permesso di dare fondo a tutte le possibilità che ha il cinema di cogliere una realtà nell’istante del suo ‘vero’ divenire, con tutto il suo potenziale e il documentario, che nemmeno lui ha bisogno di testi scritti o di sceneggiature preventive, ci avrebbe dato molte più possibilità che non un film di finzione”. Dunque la riflessione sull’arte, iniziata come progetto di fiction con un ipotetico Tiziano che ormai cieco usa le mani per spalmare i colori sulla tela, sfocia nella necessità di filmare i veri corpi degli attori, catturando l’istante in cui la rappresentazione si fa verità di carne, “diviene” con le sue possibili varianti. In linea con questa ricerca è anche il film successivo, Black Light (2015). Episodio di un lungometraggio collettivo di produzione spagnola intitolato Darkness, è un corto di sei minuti basato sulle prove dello spettacolo Méduses di Vincent Glowinski, un artista – danzatore e pittore – che utilizza la luce e il corpo per riprodurre sullo schermo i movimenti della propria silhouette in un fascinoso tracciato del “divenire dell’esistente”. Così nascita, evoluzione, morte e rinascita prendono vita sul palco e sullo schermo attraverso il danzatore e la sua proiezione di luci e ombre che si fa essenza della sua stessa precarietà.
Corpo a corpo (2014)
Uno sguardo sul tramonto della civiltà occidentale
Molte sono le cose inquietanti in questo mondo
ma nessuna mai quanto l’uomo.
Sofocle
La scelta di un cinema che si pone come osservazione e ascolto di una realtà marginale, fatta di oggetti e fenomeni colti in un tempo sospeso o consumato, abbandonati dallo sviluppo – come accadeva nel notevole corto Robinson in laguna (1985) molto amato da Olmi ed espressione di un purissimo “grado zero” del cinema, Leone d’oro dell’Assessorato Cultura e “bandiera” del comitato difesa dell’isola di Poveglia e delle isole della Laguna – diventa chiara a partire dal 2016 con un film che osserva il problema migratorio da una prospettiva inusuale. Girato quasi per caso in tre settimane in Polesine, dove i rami del Po fanno pace col mare, Delta Park è anche il nome dell’albergo trasformato in centro accoglienza per giovani africani salvati dal naufragio. Grati all’Italia per aver dato loro cibo e alloggio, in realtà vivono in una sorta di parcheggio a cielo aperto, con scarse o nulle possibilità di integrazione e in attesa di un permesso di soggiorno che probabilmente non arriverà mai come Godot, costringendoli in pratica alla clandestinità. Brenta filma con l’usuale perizia fotografica la vita improduttiva di questi giovani, i cui giorni si ripetono identici tra giri in bicicletta, partite a carte o a calciobalilla e qualche lezioncina di lingua italiana. Il loro aggirarsi nei vuoti di un’area deindustrializzata è ritratto in splendidi e desolati campi lunghi che trasmettono tutti i brividi del tramonto dell’Occidente, mentre il montaggio di Karine de Villers costruisce senso attraverso la reiterazione di immagini-chiave, come il girare in bici intorno allo stesso monumento o il ticchettio di un orologio a pendolo che sembra funzionare a intermittenza. La fissità silente e luminosa dei volti si alterna con il ristagno delle zone paludose, mentre la partita di calcio sul campo incolto ci ricorda le partite di Pasolini tra i ragazzi di borgata (e la rara musica extradiegetica di Bach aiuta), ma qui lo sviluppo del boom economico è diventato inesorabile declino. Se si pensa che Delta Park potrebbe iniziare laddove termina l’avventura dell’eroe dell’acclamato Io,capitano, proveniente da un’Africa magicamente colorata e di maniera, si può comprendere facilmente la distanza di Brenta-de Villers da un cinema di finzione amato dal pubblico ma lontano dalla ricerca di una realtà antropologica e sociale che detta il racconto senza le sovrastrutture del mercato di intrattenimento.
Due anni dopo lo sguardo di Brenta e de Villers si allarga in un viaggio attraverso l’Europa, soprattutto Belgio, Francia e Italia ma non solo, alla ricerca di un senso che, come l’Alice di Lewis Carroll, l’uomo possa dare al suo cammino verso un futuro certo. Ma Il sorriso del gatto (2018) non può offrire risposte, perché l’uomo occidentale vive un eterno presente senza progetto, un reale in cui si consumano anche le illusioni che la tecnologia ci offre. Non a caso il film, dopo un prologo “pastorale” con una strada che sembra portare verso il niente, ci guida nelle “magnifiche sorti e progressive” di una metropoli, con i quartieri ipermoderni in cui le scale mobili si intrecciano come in una litografia di Escher e la realtà virtuale sembra prendere il sopravvento. Ma il “pianto della scavatrice” di pasoliniana memoria irrompe a ricordarci che lo sviluppo lascia i suoi detriti, e il docu-saggio ci mostra barboni e senzatetto, scarti del capitalismo industriale in Belgio come a Parigi o a Roma o altrove, dove i somali chiedono aiuto all’Unione Europea, ambulanti sbarcano il lunario e homeless si accampano sulle sponde del Tevere. Le bellissime opere di street art sembrano commentare un libro ingiallito di edifici popolari, prima che un treno invernale porti lo sguardo a Calais, dove i migranti attendono un domani nebuloso come nel murale su cui si staglia una moderna “zattera della Medusa”. Chi non prova a fuggire e resta, viene omologato come l’ambulante africano che al Trocadéro, seduto di spalle alla vera Tour Eiffel, ne vende tante piccole riproduzioni luminose, brillanti e inutili come tutti gli oggetti che finiranno per diventare ancora scarti. Le parole, pochissime e dense, appaiono in didascalie o vengono lette da Marco Paolini. In sessanta minuti, durata pressoché costante di queste opere, Brenta e de Villers offrono una sintesi suggestiva e desolante delle contraddizioni della nostra epoca, concludendo con Sofocle che “molte sono le cose inquietanti in questo mondo ma nessuna mai quanto l’uomo”.
Nel 2020 è la volta di Vanitas, forse il film più chiaro e diretto dei registi, anche perché narrativamente sorretto dalle didascalie tratte dal libro dell’Ecclesiaste e commentato da musiche e suoni extradiegetici diffusi. L’opera si apre in una specie di alba edenica, con erbe fluttuanti e foreste vergini ma, come sappiamo, l’uomo ha rinunciato all’eternità col peccato originale. L’aereo che sfreccia sopra la foresta è il segno che l’essere umano ha cercato di dominare il tempo e la natura, creando e distruggendo. Per Brenta e de Villers questo folle percorso è simboleggiato dalla Caserma Avieri, avamposto italiano dell’isola di Leros in Grecia, prima luogo di ordine e guerra, poi ospedale psichiatrico, luogo di detenzione dei dissidenti politici durante il regime dei Colonnelli e infine rifugio-prigione di migranti. Su questi luoghi di detriti umani e materiali, i gatti continuano ad aggirarsi come un coro di esseri danzanti sulla vanità umana, polvere che tornerà alla polvere. Nella sequenza finale che precede due bambine che giocano, ritroviamo un ex ospedale psichiatrico nel cui parco dei runners salutisti si illudono di curare il corpo e fermare il tempo, magari con i cani al guinzaglio come i vecchi internati del manicomio. Tutto ritorna, in quest’opera poeticamente lapidaria anche nei titoli di coda: Vanitas, “l’eterno ritorno – cronaca del dopo diluvio, in attesa di quello che verrà” e a seguire la citazione del Mahatma Gandhi: “Vivere non è attendere la fine della bufera / ma imparare a danzare sotto la pioggia”. Proprio come fanno i gatti sulle rovine della nostra civiltà.
In piena pandemia di Covid, che ha reso le persone lontane e isolate nel loro spicchio di terra e nella loro individualità, l’idea di Karine de Villers di raccogliere materiali eterogenei da parenti, amici, conoscenti e perfino sconosciuti si concretizza in un’opera “patchwork” articolata e apparentemente complessa, con i contributi di settanta persone da varie parti del mondo che i due registi ricompongono in una sorta di desiderio iconico che riavvicina le vite di tutti, perché “ogni immagine porta sempre in sé il ritratto intimo di chi l’ha creata”. Isole (2021) diventa così una raccolta variegata e a suo modo armoniosa di pagine a volte malinconiche e struggenti, anche di lotta ma soprattutto di calore umano, in cui si respira una vitalità indomabile nonostante qua e là affiori la consapevolezza che siamo tutti di passaggio, come indica un cartello fuori dell’atelier del regista sperimentale e “resistente” Boris Lehman, o come ci ricorda l’ultima sequenza – “uno dei più bei finali degli ultimi anni” secondo lo storico del cinema Daniele Amione – in cui la voce di Mario Brenta ci comunica che una diagnosi medica lo ha costretto ad assumere due compresse ogni dodici ore per il resto della sua vita. Eppure rimane un film di canzoni e danzatori improvvisati, di dediche alla generosità della natura, di ringraziamenti alla vita che, come canta Violeta Parra, “ci ha dato tanto”. Il cinema di Brenta e de Villers si conferma anche qui un’isola che resiste al tempo, all’industria del denaro e allo sfruttamento di uomini e natura.
Superata la crisi pandemica, il 14 luglio 2022 i due registi vanno a visitare la vecchia casa abitata da Karine bambina, in Rue des Déportés a Bruxelles, pensandola ormai disabitata. Invece si apre la porta e appare un’anziana signora “artista, ma anche un po’ strega”, che consente l’accesso, le prime fotografie e poi le riprese. È la genesi di Dietro la porta (2023), ad oggi l’ultima opera di Brenta e de Villers, sorta di “controcampo” di Isole, il ritratto domestico di diciotto persone che vivono i loro spazi definendoli con la loro unica e irripetibile interiorità. Anche questo è sempre un film di persone e di luoghi, di nature morte e di oggetti pieni della creatività umana. Con macchina quasi sempre fissa e un sapiente montaggio di Karine, ci porta dentro l’idea di casa, nel rapporto tra la vita umana e lo spazio creato, in mezzo agli oggetti che abbiamo lasciato e che ci rappresentano, icone cristallizzate e spesso struggenti che reclamano ancora il loro diritto ad esistere come l’acqua piovana che, proprio all’inizio del film, cade al Lunghin Pass tra Italia e Svizzera e defluisce in tre fiumi diversi bagnando mezza Europa, continuando a raccontare l’eterno ritorno della Natura. Nella seconda parte si è colti da una nostalgia che Brenta sa ricreare in punta di piedi, con la discrezione che gli è propria. Quando la macchina da presa accarezza le stanze dove Franco Piavoli custodisce il suo passato/presente finendo per leggere un passo del De rerum natura, oppure quando scorre il nastro delle parole di Ermanno Olmi sulle immagini del documentario dello stesso Brenta intorno al film Camminacammina, non possiamo non provare un senso di vuoto per un cinema che si faceva dettare le emozioni dal nudo racconto della vita, senza gli orpelli del film “industriale”. A quel racconto semplicemente umano il regista veneziano regala il finale di Dietro la porta, con la sua voce narrante che ripercorre infanzia e vocazione, quella ricerca della luce che ha segnato il suo destino portandolo verso un’etica dell’immagine che fosse, innanzitutto, interrogazione sul senso del vivere su questa terra, qui ora e sempre.
Delta Park (2016)
Due vite apparenti, una sola direzione: il destino dell’uomo nel tempo
La luce del futuro non cessa un solo istante di ferirci.
Pier Paolo Pasolini
I film di Mario Brenta, specie quelli girati con Karine de Villers, in Italia vanno cercati nelle piattaforme e nei fiumi del web come i cercatori d’oro del Klondike molti anni fa. Questo perché parliamo di un cinema “fuori norma” – premiato ovunque ma disfunzionale al mercato – che apre gli occhi sul mondo convinto, come sosteneva Giovanni Verga, che “il semplice fatto umano farà pensare sempre”. E la cronologica questione delle due vite di questo cinema è in realtà apparente. Forte della sua coerenza che gli ha permesso di fare quello che voleva nel modo in cui voleva, Brenta ha seguito sempre una sola direzione: quella di indagare il destino dell’uomo e della società nel trascorrere del tempo. Senza tradire mai la natura stilistica del suo cinema, in fondo il regista veneziano ha compiuto un lungo viaggio cinquantennale rimanendo fedele ai suoi temi: la marginalità, l’erranza, la scomparsa della cultura contadina e artigianale a vantaggio dell’inurbamento e dello sviluppo alienante li troviamo già in Maicol, Vermisat e Robinson in laguna, mentre la riflessione sull’interiorità dell’uomo nel rapporto col tempo attraversa il citato Robinson fino a Barnabo delle montagne. È una poetica per immagini che ritroviamo pienamente nelle opere del terzo millennio, anche laddove la finzione lascia interamente spazio alla ricognizione del reale, all’incontro con oggetti, persone e paesaggi che “chiedono di essere filmati”.
Ma il fascino delle opere di Brenta e de Villers va cercato anche in un cinema fatto di poesia e suggestioni pittoriche, oltre che di indagine antropica, che come la poesia procede per accostamenti analogici, associazioni sonore, metonimie, simboli. E come un corpus poetico è fatto di occorrenze, come l’orologio con il suo ticchettio che vediamo già nel Robinson e che torna costantemente come meme della precarietà umana; il gatto, onnipresenza danzante tra i ruderi postindustriali e nelle case della marginalità; le nature morte, il sonno degli uomini, i detriti e i palazzi in rovina, la pioggia e l’acqua stagnante, le erbe fluttuanti, le crepe dei muri e tutti gli elementi della Natura sovrana, dalle onde marine al vento, dal fuoco che brucia le stoppie alla terra abbandonata dagli uomini. Quanto alle suggestioni di un poema visivo a tratti così ieratico da non lasciare indenne lo spettatore, la critica ha ritrovato echi di Tarkovskij, Sokurov, Malick e perché no, aggiungiamo, del primo Herzog. A noi però piace pensare, con occhi ancora persi tra i monti di Barnabo, al percorso iconico di Mario Brenta come a quello del viandante di Caspar David Friedrich, che tra le nebbie cerca di dominare il tempo con l’ansia di infinito, attraversa il rovinismo postindustriale e arriva all’ultima stazione del suo viaggio scrutando l’orizzonte dalla riva del mare dove tutto è nato e ritorna, con una sommessa nostalgia della vita.
(Si ringrazia Mario Brenta per aver reso possibile, con francescana pazienza, la stesura di questa riflessione sul suo cinema)
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
non saprei definirlo, credo possa accadere con altre arti più spesso: quando vedi un film di Brenta, puoi pure riguardarlo senza avere il senso del già visto. Ogni volta nuove associazioni, nuovi dettagli prima sfuggiti, nuove riflessioni (per lo spettatore). La difficoltà più grande è quella iniziale: sganciarsi proprio da quel rassicurante “già visto”, caro al mercato, e accettare l’ignoto.