Giovanni Giudici saggista: un poeta dentro la civiltà dell’informazione
Il prossimo anno ricorrerà il centenario della nascita di Giovanni Giudici, nato il 26 giugno del 1924 a Le Grazie, frazione di Portovenere. L’opera poetica di Giudici, autore ormai stabilmente nel canone, è già da tempo integralmente disponibile per Mondadori: prima in un Meridiano (I versi della vita, 2000), più di recente in edizione economica negli Oscar (Tutte le poesie, la cui ultima ristampa è del 2021). Ma Giudici condivideva con molti altri scrittori della sua generazione la natura di «poeti e intellettuali», «scrittori di versi e di “saggi”» (Massimiliano Cappello, introduzione a La letteratura verso Hiroshima); a differenza però di Pasolini o di Fortini, la cui produzione saggistica è disponibile in volumi singoli o in raccolte complessive, quella di Giudici è stata a lungo trascurata, immeritatamente.
Arriva a colmare questa lacuna la pubblicazione di tre volumi: la raccolta della rubrica che il poeta tenne su «l’Unità» negli anni Novanta (Trentarighe. La collaborazione con «l’Unità» tra il 1993 e il 1997, a cura di Francesco Valese, Manni, 2021, pp. 336); un’agile antologia, da cui potrà partire il lettore non specialistico di Giudici (La vita in prosa. Scritti biografici, letterari e politici, a cura di Stefano Guerriero, Edizioni dell’Asino, 2021, pp. 240); la riedizione della fondamentale raccolta La letteratura verso Hiroshima, uscita nel 1976 per gli Editori Riuniti (La letteratura verso Hiroshima e altri scritti 1959-1975, a cura di Massimiliano Cappello, Ledizioni, 2022, pp. 440).
1. Una collaborazione divagante ma non troppo: i Trentarighe de «l’Unità»
I Trentarighe sono «avvisi di lettura, micro recensioni, riflessioni, spunti autobiografici, pensieri sui libri, sulla poesia ed altro ancora» (Simona Morando, introduzione a Trentarighe, p. 5). Giudici aveva già collaborato a lungo con «l’Unità», dal 1977 al 1989; nel 1993 torna a scrivere sul quotidiano di quello che ormai è il Pds e che in quel momento è diretto da Walter Veltroni, per l’intermediazione della carissima amica Grazia Cherchi. Su «l’Unità» sia Cherchi sia altri due storici redattori dei «Quaderni piacentini», Bellocchio e Fofi, hanno rubriche personali.
Il primo Trentarighe esce il 24 maggio 1993. Giudici ha 69 anni. Naturalmente, nel breve spazio d’anni tra la fine della prima collaborazione e l’inizio della seconda, il clima politico e culturale è stato stravolto. Dice di sé il poeta in un’intervista ad Antonella Fiori del 1993 sulla stessa «Unità», riportata in appendice al volume:
più di Giovanni Giudici è cambiato il mondo. Mi trovo completamente sbilanciato, smarrito, come se intorno a me si parlasse una lingua straniera. […] Ho una chiara scontentezza del presente, perché il presente mi toglie una dimensione fondamentale che è quella della speranza. Del passato non ho nessun rimpianto, nessuna nostalgia. […] Penso soprattutto a una speranza politica e proprio per questo anche individuale. A vent’anni non avevo il minimo dubbio che il mondo sarebbe cambiato in senso positivo. Invece è cambiato, sì, ma in peggio. […] La società moderna occidentale gira come un motore in folle. Ogni tanto qualcuno preme sull’acceleratore, consumando solo molto carburante (pp. 234-235).
Lo spirito che impronta i Trentarighe è perciò quello di una intenzionale collateralità rispetto alla battaglia politico-culturale, che non si sottrae allo stimolo di nessuna occasione: incontri, ricordi, letture, minimi aneddoti. Leggiamo così di casi strettamente personali come una denuncia di furto ai carabinieri, dell’incontro con due giovani per i quali il fascismo “ha fatto anche cose buone”, del disturbo di versificatori postulanti, dell’amore per la Lettera 22 della Olivetti che accomunava Fortini, D’Elia, Montale, Mandel’štam, della passione di Giudici per la trasmissione Blob (e per la soap opera Beautiful), di una riforma della scuola ossessionata dall’utilità pratica, del Nobel a Bob Dylan di cui già allora si vociferava, …
Ma Giudici è noto per l’understatement autoironico e desublimante (Ciao, Sublime è il titolo di una poesia di O Beatrice, 1972), per cui questa svagata e divagante occasionalità non va assolutizzata. Molti sono i Trentarighe dedicati alla letteratura presente e passata, né mancano l’impegno civile e la riflessione politica. Bastino, per il primo versante, i nomi di Machado, Zanzotto, Rebora, T. S. Eliot; quanto al secondo, ecco che cosa scrive Giudici il 9 maggio 1994. Tutto sbagliato nella storia del socialismo reale, d’accordo, ma
erano sbagliate (viziate, politicamente e moralmente) la dedizione, l’abnegazione e l’onestà, che nei primi decenni del dopoguerra e al di qua del famigerato «consociativismo», distinsero negli iscritti al Pci, uomini e donne, il senso di «servizio del Partito», che era poi la loro umana speranza di una società meno ingiusta? (p. 98).
2. Vita, letteratura, politica: l’antologia La vita in prosa
L’antologia curata da Guerriero trasceglie testi dal libro di prose creative Frau Doktor (1989) e dalle tre raccolte di saggi pubblicate in vita da Giudici (La letteratura verso Hiroshima, 1976; La dama non cercata, 1985; Per forza e per amore, 1996), con l’aggiunta di alcuni interventi inediti in volume. Come recita il sottotitolo (Scritti biografici, letterari e politici), i testi sono distribuiti in tre sezioni, a illustrare le tre dimensioni fondamentali dell’opera saggistica: la centralità dell’autobiografia, la riflessione letteraria, l’intervento politico-ideologico.
Tutti i poeti che raggiungono la maturità artistica nei primi due decenni dell’Italia repubblicana devono ripensare il proprio linguaggio poetico in un mondo in tumultuosa trasformazione, che pretende giustificazioni rinnovate per un gesto, quello di scrivere poesie, cui non si riconosce più alcuna distinzione o primato: Sereni e Luzi, nelle raccolte del dopoguerra, sciolgono la propria voce entro una polifonia di altre voci in dialogo tra loro; il grande vecchio Montale fornisce il verso della propria pagina con Satura; la neoavanguardia opta per la contaminazione con il linguaggio della nuova società industrializzata e tecnocratica e la sua contestazione.
Giudici sceglie la strada dell’autoumiliazione del poeta (meglio, della sua maschera), rovesciando la distinzione non nel semplice eguagliamento democratico, bensì addirittura nell’inferiorità conclamata. Questa postura dall’apparenza masochistica consente in realtà di portare il discorso di poetica fuori dal mero campo del letterario, verso una comune dimensione esistenziale, su cui si innestano il discorso culturale sulla comunicazione di massa e quello politico-ideologico della difesa della funzione intellettuale e della rinuncia ai privilegi del ruolo di un ormai antistorico mandarinato letterario (tema, questo, fortiniano e gramsciano).i
Si legga il saggio del 1983, La Musa inquietante (da La dama non cercata; qui a p. 158, nella sezione «Poetica»). L’io del poeta è ridotto ai minimi termini del povero cristo: è «meschino e povero e debole e allo stremo delle forze e non più speranzoso di alcun mutamento nella vita sua e in quella di chissà quanti altri» (p. 166). Figlio di un debitore, cresciuto nel senso di colpa cattolico, uomo impiegatizio nell’Italia del boom economico, come potrebbe mai considerare l’esser poeta una distinzione, materiale o spirituale? Altro che Muse: l’ispirazione poetica deriva da un logorio di nervi inflitto da ben diversamente connotate figure femminili, le Furie. Se queste potrebbero in fin dei conti essere ancora figura dello stigma che distingue chi è “chiamato” alla poesia da tutti gli altri – il funestus veternus oraziano, la noia leopardiana, lo spleen baudelairiano –, Giudici propende per il considerarle piuttosto come l’emblema di una forma generale dell’esistenza contemporanea, l’alienazione. Il poeta è soltanto colui che riesce a esprimere una verità universale che «ognuno di noi, certamente, custodisce, nel dentro di se stesso»; una verità, «talmente vera, cioè in sé conclusa e perfetta, che il soggetto alienato nel mondo nemmeno riesce a scorgerla e dunque a descriverla, a riconoscerla» (p. 167).
Per tutta la vita cerchiamo la quiete del perfetto coincidere con noi stessi, dove sé e progetto di sé si fondono l’uno nell’altro, perennemente pungolati dall’angoscia di non essere mai lì dove siamo. Per il poeta questo sfasamento esistenziale significa anche, sempre, la mancata coincidenza tra parola e cosa, tra vita e versi («metti in versi che morire / è possibile a tutti più che nascere / e in ogni caso l’essere è più del dire»: La vita in versi, nell’omonima raccolta del 1965). Tuttavia
se le Furie diventassero, e in modo definitivo, Eumenidi, non ci sarebbe più bisogno di sapere. […] Dunque nostra pace non sarà che il saperci, l’avere in noi consumato (per usare una terminologia tecnocratica) la nostra propria carica d’informazione, l’esserci, insomma, entropizzati, l’esserci resi orizzontali perfettamente, così come è perfetta e definitiva l’orizzontalità del morto. Perfetta, del resto, e definitiva come l’orizzontalità della voce che più non parla, del silenzio (p. 168).
La morte è qui ambiguamente definita con caratteri, da un lato, di compimento e pienezza, dall’altro, di nichilistico annientamento. È la stessa ambiguità del verso para-biblico su cui si chiude la prima raccolta di Giudici: «presto tutte le acque saranno uguali e lisce». Ma prima di quel compimento-cancellazione, la vita si esprime in una tensione tra inutilità dello sforzo e sua necessità: «l’essere è più del dire – siamo d’accordo. / Ma non dire è talvolta anche non essere» (Finis fabulae, ne La vita in versi, 1965).
3. La “verifica dei poteri” di Giudici: La letteratura verso Hiroshima
Nell’estratto appena citato, colpisce il linguaggio tratto dalla cibernetica, all’apparenza incongruo in un discorso di poetica: la «terminologia tecnocratica», la «carica d’informazione», il concetto di entropia. Sono le spie linguistiche del côté politico-ideologico dei saggi di Giudici, che mettono al centro la «civiltà dell’informazione» (informazione nel senso comune e in quello, tecnico, della cibernetica) e il posto che in essa hanno la letteratura e l’intervento intellettuale.
«La letteratura è informazione» e, a dirlo, «nessuno può permettersi di sorridere o di gridare allo scandalo» (Un discorso sindacale, in La letteratura verso Hiroshima, p. 104). Nei saggi di Verso Hiroshima Giudici assume la prospettiva del sociologo letterario, attento alle condizioni materiali (sociali, economiche, tecnologiche) che sottendono il fare e fruire letteratura, impegnandosi, ad esempio, in una riflessione sul rapporto tra immagini e parola scritta (Morte della parola scritta?) o in un’altra sui libri tascabili (La rivoluzione non è tascabile). Particolarmente acuta è la sensibilità verso l’apparato tecnologico-tecnocratico-industriale dentro il quale ormai non solo la letteratura, ma ogni forma di comunicazione, si trova ad esprimersi.
L’anelito democratico, che guarda al sistema dell’informazione nel suo complesso e non solo all’ambito specifico del letterario, è messo in primo piano – e naturalmente non è un caso – quando si parla di Brecht e di una poesia intesa «non come estenuato divertimento di minoranze colte, ma come servizio sociale» (Le poesie di Brecht, p. 366). Il poeta che viene letto solo da altri poeti, o aspiranti tali, finisce per produrre semplice ventriloquismo dal punto di vista dell’autore – prestare la propria voce ad altri – e immedesimazione dal punto di vista del lettore – riconoscersi in colui cui aspiriamo ad assomigliare. «Cosa fare delle poesie se non poesie per chi non le fa?», si domanderà invece Giudici in un Trentarighe del 21 giugno 1993.
Il poeta ha però ben presenti le due forme imbastardite in cui questo discorso può involgarirsi: lo scrivere per gli altri può diventare lo scrivere “per il popolo” dello zdanovismo o lo scrivere “per il mercato” della nascente industria culturale.
Quello del letterato zdanovista è un «falso impegno», che pone «la principale discriminante, tra scrittore impegnato e scrittore non impegnato, al livello del prodotto, della scrittura, o tutt’al più di una formale professione ideologica» (Provocazioni sull’impegno, p. 114). Ancora una volta è Brecht il modello positivo: «la sua poesia era al servizio della battaglia politica e non (come nel falso impegno) viceversa» (Ancora su Brecht, p. 378).
Il letterato che “serve il popolo” è solo il rovescio del letterato che crede di essere portatore di un privilegio spirituale. Si tratta dello stesso vizio virtuistico: impegnarsi dalla «parte giusta», ma con un «atto di volizione esterna», dalla posizione non compromessa di chi è incapace di riconoscere che la sua stessa «craftmanship» letteraria è lavoro-merce soggetto al mercato, come il lavoro-merce di tutti gli altri. «Invece la parte giusta è quella in cui uno è oggettivamente collocato dalla sua condizione reale e dunque dalla chiara presa di coscienza della sua condizione reale» (Accanto al trono di Caterina II, p. 101). Ecco perché, osserva Giudici con un esempio fulminante, è
più facile trovare cinquanta scrittori e traduttori disposti a fare i turni di picchettaggio davanti a uno stabilimento metalmeccanico, che non cinque di essi disponibili per discutere tre ore su un progetto di statuto di un loro sindacato o gli stessi cinquanta pronti ad aderire a un’azione di boicottaggio contro un qualsiasi centro di potere dell’industria culturale (p. 103).
Contro la confusione della falsa eteronomia, che nasconde l’eterna presunzione di autonomia, Giudici sfrutta ancora una volta il proprio understatement, grazie al quale preserva sia la serietà delle lotte materiali, sia la serietà del fare poesia: «Partecipo al dibattito culturale: ma non ci credo gran che. È colpevole crederci più del lecito, accettare su questo terreno divisioni di parti»; «se c’è un dibattito esso non è letterario: è politico» e rimanda a uno «scontro elementare», quello tra dominanti e dominati. Quanto alla poesia, essa «non è tutto. Ma è tutto al livello dell’agire letterario: a questo livello non si può credere che nella poesia. È la poesia, a questo livello, il nostro rapporto con la verità» (La teologia è piccola e brutta, pp. 233-235).
Per restare in rapporto con questa verità che è in ogni uomo, la letteratura non deve rinunciare alla propria tensione umanistica verso una totalità e una universalità (una “visione del mondo”) che la società tecnocratica della specializzazione irride, per «la [sua] tendenza a separare e a istituzionalizzare i diversi fenomeni di cultura, a isolarli nella loro specificità nell’ambito di sfere praticistiche facilmente controllabili, a mistificare dissimulandole le loro radici essenzialmente politiche» (La funzione e il ruolo, p. 59).
Anche il sapere dell’intellettuale è rifunzionalizzato e messo apparentemente al servizio dell’efficienza produttiva – di beni materiali o di informazione poco importa –, quando, in realtà, esso viene alienato soltanto per servire alla riproduzione del sistema stesso. Giudici coglie benissimo il carattere circolarmente autistico e politicamente quietistico di questo stato di cose, tanto da tornare sull’argomento anche negli anni Novanta:
La letteratura produce letteratura così come, per allargare il discorso, i computer tendono a loro volta a produrre o a rendere indispensabili altre apparecchiature similari […]. [La letteratura] tenderà sempre di più a riprodurre soltanto se stessa, secondo un modello asfittico che è tipica funzione di una società stagnante e del disegno politico (inerziale più che deliberato) che la sottende e dei sempre meno controllati e controllabili strumenti intellettuali e tecnologici a cui restano affidate, in mancanza di meglio, le incerte sorti di ogni separatezza (Andare in Cina a piedi, Ledizioni, 2017, pp. 86 e 89, ed. or. e/o 1992)
Ed è proprio per nominare il carattere in verità distruttivo di quello che all’apparenza sembrerebbe una conservazione e ottimizzazione incrementale del sistema che Giudici aveva coniato l’immagine di un «Hiroshima della cultura», nella quale la carica d’informazione del corpo vivente della società si annulla nella finale entropia:
non riesco a togliermi dalla mente l’idea che “cultura” atomica e “cultura” elettronica (sinistramente collegate dalle possibili conseguenze di un qualche non impossibile errore computerizzato) siano in definitiva le due facce della stesa funesta filosofia accelerativa (in La bomba e i ciliegi. Lettera a Christa Wolf, in Per forza e per amore, riprodotto in La vita in prosa a p. 142).
i Si veda il saggio di apertura de La letteratura verso Hiroshima, La funzione e il ruolo, già pubblicato su questo blog.
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Caporedattore
Roberto Contu
Editore
G.B. Palumbo Editore
Giovanni Giudici è consapevole della impossibilità di esorbitare dal circolo vizioso per cui, nella misura in cui si fa politico, lo scrittore tradisce la letteratura, mentre, nella misura in cui si rifiuta di farsi politico, la vanifica. Dal punto di vista sociologico, la sorte del poeta è stata infatti segnata una volta per tutte nell’”Odissea”. Quando Ulisse, tornato a Itaca, si vendica dei Proci massacrandoli, poi, spaventatissimo, salta fuori il cantore (mi sembra che si chiamasse Medonte) che gli chiede di risparmiarlo perché confessa di aver cantato per i pretendenti al suo trono, ma sotto costrizione, mentre ora potrà farlo liberamente per lui. Ulisse non lo uccide, ma da quel momento, se ben si considera il significato profondo di questo atto di clemenza, il destino dello scrittore in Occidente è segnato e oscillerà contraddittoriamente, sia nelle diverse correnti letterarie sia talvolta nella stessa personalità del singolo poeta, fra integrazione e soggezione, fra evasione e impegno, fra “dissimulazione onesta” e “servitù volontaria”. Certo, in questo episodio di quel meraviglioso incunabolo della nostra civiltà vi è una ricca materia di riflessione, giacché, per fare un esempio, il rapporto tra lo scrittore e il committente è, in entrambi i casi, chiaramente asimmetrico e la sopravvivenza, che qui coincide con la libertà di espressione, è altrettanto chiaramente ‘octroyée’. Ecco perché, essendo ovviamente impossibile, nella civiltà della merce e dell’informazione, sfuggire alla sorte del cantore graziato ed esorbitare dal circolo vizioso poc’anzi evocato, il vero problema è quello, così come avviene con il circolo ermeneutico in filosofia, di starci nella maniera giusta. Lo zdanovismo, che parve una soluzione possibile ed auspicabile del problema del ruolo dello scrittore nel quadro della costruzione del socialismo, è stato, allorché fu trasposto schematicamente in realtà come quelle dell’Occidente capitalistico che erano asimmetriche rispetto alle realtà originarie, la ricerca fallace dell’ortodromia, ossia la ricerca della linea più breve che unisce due punti su una superficie sferica. Ma il calcolo giusto che, rifacendosi al modello brechtiano, intuisce esattamente Giudici, è, per servirci di questa metafora della navigazione, quello che determina la lossodromica, ossia il “percorso obliquo” che, svolgendosi a guisa di spirale, taglia i meridiani della superficie terrestre con lo stesso angolo. Da questa fondamentale acquisizione metodologica e cognitiva occorre allora ripartire per impostare nel modo giusto, sviluppandone tutte le implicazioni e i corollari, il rapporto tra ruolo/funzione dello scrittore e “Hiroshima della cultura”, che è quanto dire tra il “mostrare” e il “dichiarare” gli orrori del capitalismo imperialista oggi più che mai evidenti, unendo ciò che lo scrittore e/o le sue “dramatis personae” vedono e sentono soggettivamente in prima o in terza persona, e ciò che alla coscienza dello scrittore si impone come il predicato oggettivamente necessario e inevitabile della “struttura del mondo” che caratterizza l’attuale fase storica.