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diretto da Romano Luperini

L’orientamento nella scuola delle competenze

Il contesto: la guerra ai voti e la scuola delle competenze

Da circa tre anni a questa parte, da quando cioè è stata approvata una discutibile e improvvisata sperimentazione su modalità di valutazione per livelli di competenze nella scuola primaria[1], si pone nel dibattito sulla scuola un’attenzione smisurata alla questione dei voti anche negli altri gradi di istruzione, come se ciò che passa tra studente e docente, che interconnette due soggettività, e la relazione stessa con la sua reciprocità, non abbiano più senso nella crescita individuale, al di là di burocrazia e formalismi; come se al centro ci fosse lo strumento di registrazione dei progressi dell’istruzione e non la relazione educativa e il modo in cui lo strumento viene usato nell’ambito di questa relazione. Questa smisurata attenzione al mezzo, anziché al modo in cui viene usato, deve avere un senso.

Checché ne dicano i suoi propugnatori, la battaglia martellante per l’abolizione dei voti in tutti gli ordini di scuola e la loro sostituzione con una certificazione di competenze standardizzata sembra perfettamente funzionale al superamento della scuola della conoscenza che istruisce ed educa attraverso degli importanti contenuti culturali, e alla burocratizzazione della stessa relazione educativa attraverso tabelle di valutazione standardizzate. Se si vuole che l’istruzione diventi costruzione di portfoli di competenze para-aziendalistiche, come vedremo, i voti diventano a loro volta non solo inutili ma addirittura controproducenti.

L’avventurosa affermazione che i voti «bloccano» o danneggiano l’apprendimento — pronunciata con tanta insistenza nel dibattito pubblico — non tiene conto delle specificità della situazione educativa, dell’età degli studenti e della qualità della relazione, delle finalità e del contesto in cui i voti vengono assegnati, dando per scontato che questo strumento venga usato sempre male, per volontà di accendere la competizione, e addirittura per sadismo o desiderio di potere da parte degli insegnanti. Di là da queste che sono macroscopiche distorsioni, infatti, la causa delle manifestazioni di ansia e delle frustrazioni che i docenti spesso osservano in classe — come apparente conseguenza di valutazioni di segno negativo — non è da ricercare nello strumento impiegato, e cioè nel voto. Le cause vanno eventualmente indagate su altri piani, come pure occorre chiedersi se la feticizzazione del voto che si osserva non sia la conseguenza di proiezioni esterne alla vita di una classe. Le situazioni di fragilità degli studenti persistono a prescindere dal sistema impiegato e vanno segnalate con chiarezza, riaffermando la fiducia nel ruolo del docente e nelle sue capacità di gestire la valutazione in una prospettiva davvero formativa, prospettiva che non è affatto garantita da sistemi alternativi al voto. Nel testo già richiamato Daniela Di Pasquale evidenzia proprio come la competizione possa accendersi, e di fatto si accenda, anche in presenza di una valutazione per livelli di competenze. Allo stesso modo nulla garantisce che ansie e frustrazioni non si manifestino anche in presenza di altri sistemi di valutazione poiché, come detto, ciò che è dirimente non è il mezzo ma come questo è impiegato all’interno della relazione educativa. Rovesciando dunque il ragionamento dei detrattori della valutazione numerica, potremmo dire che, se utilizzato bene, nell’interesse degli studenti, il voto presenta diversi vantaggi, anche dal punto di vista della psicologia dell’età evolutiva, e il suo carattere sintetico, a certe condizioni (prima fra tutte l’indispensabile integrazione con una spiegazione personalizzata), può rappresentare un pregio anziché un difetto. Se posto nel campo della crescita dello studente, il voto può rappresentare un’importante occasione di incontro tra due soggettività, che si confrontano su un lavoro svolto o sulla qualità delle conoscenze acquisite. In tal senso:

  •  esso alimenta la relazione consentendo, attraverso il commento dell’insegnante che lo accompagna, l’incontro di due personalità, di due soggetti unici e diviene dunque importante terreno di crescita individuale e strumento relazionale che affina le capacità di percepire se stessi e l’altro. Cosa difficile da ottenere con giudizi preconfezionati e standardizzati, che se utilizzati al posto del voto sostituiscono la spiegazione e occupano anche lo spazio della relazione;
  • una comunicazione del voto ben fatta è sempre fortemente personalizzata, e quindi momento di crescita sia in termini didattici che psicologico-evolutivi;
  • il voto è un segno che ha la capacità di contenere un giudizio comunicato in termini relazionali: non confonde, non disperde le emozioni che suscita e racchiude le parole dell’insegnante;
  • l’assegnazione di un voto può rappresentare un momento di conoscenza, di verità, di disillusione o di soddisfazione narcisistica che passa necessariamente attraverso l’incontro di sguardi e parole tra due persone: in questo attimo relazionale è possibile rafforzare la soddisfazione narcisisticamente sana per un risultato positivo, oppure rendere più digeribile la disillusione facendone strumento per il miglioramento e per l’accrescimento dell’autostima. Questo processo, se ben gestito, può aiutare a gettare le basi per la formazione di una personalità in grado di relazionarsi con l’altro sia nei successi che nelle frustrazioni;
  • il voto ben spiegato permette allo studente di capire con maggiore chiarezza dove egli si trovi in un determinato momento, e questo restituisce definizione e integrazione rispetto alle confusioni di una personalità in crescita e in evoluzione.

Se un voto può essere un’indicazione chiara che sintetizza un discorso su ciò che si è raggiunto e ciò che non si è ancora raggiunto a livello di conoscenze, la sua sostituzione con una descrizione di livelli di competenze si inserisce invece benissimo in un profondo mutamento della natura e gli scopi stessi della scuola: intanto, scinde un presunto saper fare dal corpo delle conoscenze e dei contenuti disciplinari di cui questo saper fare dovrebbe essere una conseguenza, con una paradossale inversione tra cause ed effetti. Non a caso, il discorso sull’innovazione didattica non insiste più soltanto sul concetto di interdisciplinarità (che richiederebbe comunque una base disciplinare di conoscenze) ma, sempre più ossessivamente, sullo sviluppo di competenze trasversali, preferibilmente non cognitive (tra le quali, secondo Maurizio Lupi, che ha promosso la legge che ne introduce la sperimentazione nelle scuole, l’affidabilità e l’adattabilità; e si veda il recente documento prodotto dalla Fondazione Agnelli sulle «abilità non cognitive»[2]). Coerentemente con questa idea, proprio in questi giorni, è circolata un’ipotesi di modalità di concorso per i futuri insegnanti che non preveda la verifica della conoscenza della propria disciplina[3].

È su questa base ideologica che si impianta, come vedremo, l’idea di un orientamento para-professionalizzante che parte già dagli undici anni (in alcuni contesti si inizia a parlare anche di orientamento a partire dall’infanzia). Il punto di arrivo ideale, per qualcuno, sembra essere una scuola che anziché istruire e verificare il possesso di alcune conoscenze fondamentali, costituitesi in discipline attraverso una stratificazione temporale di scoperte che lo studente può ripercorrere e portare avanti, rilasci certificazioni su adattabilità, affidabilità, capacità di iniziativa, imprenditorialità (quando già nel 1981 il maestro Manzi, con il suo rifiuto di compilare giudizi di valutazione sulla personalità degli studenti, metteva saggiamente in guardia sui pericoli legati a operazioni di questo tipo: https://www.centroalbertomanzi.it/wp-content/uploads/2019/01/CentroAlbertoManzi-maestro-sospeso-corrieredellasera.pdf) . E pazienza se gli studenti non sapranno più fare un calcolo matematico o comprendere un testo, se non sapranno dov’è collocata l’Italia, cos’è una cellula o cosa è stata la Shoah. Basta che siano ben addestrati, o che si finga che lo siano, a competenze predeterminate e standardizzate.

Cos’è una competenza?

Come fa notare Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito [4], il concetto di competenza è utilizzato in modo così indeterminato da poter essere strumentalizzato per qualunque scopo, sottraendosi alla possibilità di critica proprio grazie alla sua indeterminatezza[5]. Come per altri termini chiamati a veicolare una precisa ideologia senza darlo a vedere, anche competenza è una parola dal significato originario indubitabilmente positivo: chi potrebbe mai negare che essere competenti è meglio che essere incompetenti? Chi vorrebbe che il proprio medico, o avvocato, o elettricista, fossero delle persone incompetenti? Tuttavia, proprio in virtù della genericità e vaghezza con cui viene impiegato, il termine competenza si è caricato anche di valori emancipativi che ne hanno saturato il significato, fino a far assurgere la didattica per competenze a emblema di una evoluzione in senso progressista delle istituzioni educative. Ma occorre chiedersi intanto se l’istanza storica originaria cui il costrutto della competenza pretendeva di rispondere, e cioè primariamente quello di poter confrontare in modo affidabile i saperi in una società globale, sia stata effettivamente esaudita o se non si tratti ormai semplicemente di un’illusione che continua a produrre falsa coscienza.

Quando nella neolingua della learnification (così come viene definita da Gert J.J.Biesta) si usa la parola competenze — sempre al plurale, tra l’altro, in un significativo scivolamento semantico — ci si dimentica sempre di precisare una cosa: si diventa davvero competenti, in qualunque campo, capaci cioè di utilizzare le conoscenze in modo autonomo e critico, attraverso dei percorsi lunghi e articolati in cui convergono l’acquisizione e la rielaborazione di conoscenze, gli studi compiuti, le esperienze, la storia personale di ciascuno, le dinamiche emotive e affettive, gli incontri e le relazioni interpersonali.

La competenza intesa in questo senso, insomma, è il risultato di un processo complesso che si realizza nel corso del tempo e che prevede la messa in campo di strumenti cognitivi a diversi livelli, della relazione nelle sue diverse forme e dei contenuti che passano attraverso questa relazione[6]. Se isolata da questi processi a monte, cognitivi e relazionali, e assolutizzata, l’ideologia delle competenze veicola un’idea dell’essere umano superficiale ed estremamente impoverita, che rischia di ridurre il discorso sulla scuola e sull’educazione a una neolingua incentrata su una cavillosissima, impersonale e burocratica scomposizione del processo unitario della conoscenza in una classificazione di competenze sempre più minuziosa e scollegata dalla realtà.

Man mano che l’accezione si sposta poi sul versante non cognitivo e della trasversalità, sembra che le competenze diventino sempre più pezzi di saper fare standardizzati, sconnessi dai processi umani e mentali che li sottendono, indipendenti da qualunque contenuto concreto, che vengono trasmessi direttamente dall’ambiente di apprendimento, senza passare attraverso una forma di pensiero, di critica, di interiorizzazione, di soggettivizzazione, con gli insegnanti a fare semplicemente da facilitatori: si trasmetterebbero come oggetti impersonali e universali, scollegati dalla storia dell’individuo e dal suo orizzonte conoscitivo, dal suo percorso umano e culturale, precocemente finalizzati a un loro presunto utilizzo nel mercato del lavoro; portano con sé l’idea, fuorviante e diseducativa, che il valore e l’essenza di un individuo risiedano solo nel suo saper fare e non anche, ad esempio, nella capacità di pensare, di immaginare, di sentire (va detto che ultimamente, per far rientrare nell’ideologia qualunque campo dell’esistenza umana, vengono create formule competenziali di siderale insensatezza come «imparare a diventare”). In questa visione, sembra non ci sia spazio per l’idea che si possa essere competenti in campi molto diversi tra loro — in matematica, in letteratura, nella scienza, nella tecnica, nell’arte, nella psicologia… — senza passare necessariamente per un “fare” e mantenendo una propria soggettività e una propria capacità di interiorizzazione dei contenuti in modo personale, ingrediente fondamentale per quello che rende così interessante il genere umano, cioè le differenze individuali.

Si assiste qui a uno spostamento radicale, anche se non dichiarato, nel modo di concepire la scuola e la sua finalità: non quella di far crescere persone equilibrate, consapevoli, interiormente e culturalmente ricche, capaci di riflettere, di dare un senso alla propria vita, di vivere appieno la socialità umana, di imparare e di fare un uso personalizzato di quello che hanno imparato (l’esatto opposto del lifelong learning, altra espressione apparentemente positiva che significa in realtà la continua rincorsa e il continuo adeguamento a presunte esigenze del mercato del lavoro) ma quello di fabbricare esecutori tutti uguali tra loro che sappiano della realtà e di se stessi solo ciò che è indispensabile ad adattarsi meccanicamente a richieste che arrivano dall’esterno. Certamente se si utilizzasse la parola “addestramento” le connotazioni non sarebbero altrettanto positive.

L’ideologia delle competenze e un orientamento sempre più precoce sono in realtà strettamente legati: invece di aiutare un bambino o un adolescente a sviluppare interesse per orizzonti culturali inediti, di cui la scuola dovrebbe garantire la massima apertura attraverso la pluralità e la ricchezza dei contenuti disciplinari, lo si vuole indirizzare verso quello che provvisoriamente già è o verso ciò che secondo qualcuno sarà destinato a essere per tutta la vita. Per questo, con l’accusa pretestuosa di nozionismo, si squalificano conoscenze organiche che possono prendere nella mente di una persona direzioni imprevedibili, così come è largamente imprevedibile l’uso che se ne potrà fare, in nome di competenze predeterminate, che programmano in anticipo la realtà del futuro essere umano, scomponendolo in una serie sempre più puntigliosa e astratta di saper fare o saper essere, standardizzati e scollegati dalla sua storia personale.

«Lo spirito umano è riducibile a una somma di competenze cognitive, affettive, psicomotorie? […] Gli esseri umani sono reali se organici, se formano una totalità organica, una totalità le cui parti si tengono insieme. Aggregare parti separate non vuol dire formare una totalità. […] Non si crea intelligenza sommando competenze. Sommando competenze, nel migliore dei casi non si crea nulla, nel peggiore si fabbricano dei folli».[7]

L’orientamento

Cosa significa orientare? Dire ad una persona cosa è meglio per lei? Incanalare in una strada che noi riteniamo adatta per l’altro? In un approccio autenticamente psicologico, pedagogico e didattico, la risposta non può assolutamente essere questa. Va detto subito che la funzione degli insegnanti non può essere quella di intervenire direttamente sulle scelte degli studenti, esercitando un’influenza intrusiva e intenzionale: l’insegnante propone agli studenti una modalità relazionale con il mondo adulto diversa da quella familiare — ogni insegnante non può che proporla a suo modo, a seconda della propria personalità — e apre attraverso i contenuti culturali che porta in classe orizzonti conoscitivi nuovi, ai quali gli studenti saranno liberi di appassionarsi, scegliendo ciò che li interessa profondamente. Il futuro professionale degli studenti sarà orientato in buona parte e in maniera imprevedibile dalle passioni intellettuali e culturali che svilupperanno lungo il percorso scolastico (e va da sé che buoni insegnamenti approfondiscono e aumentano le possibilità di sviluppare interessi anche professionali futuri); così come la loro socialità sarà nutrita dalla possibilità di relazionarsi con il gruppo dei coetanei e con gli adulti molto diversi tra loro che compongono il corpo docente. È già moltissimo.

Al contrario, l’idea di un orientamento precocemente professionalizzante diretto a persone che si trovano ancora in una fase delicata dello sviluppo psicologico e umano, fase che prevede repentini cambiamenti di prospettive e di obiettivi, appare molto lontana da un autentico interesse per il sano sviluppo della personalità in crescita. L’orientamento che secondo le recenti disposizioni di legge andrà praticato già dalle scuole medie, e che nelle superiori sarà incarnato da figure di “orientatori” che non hanno nessun titolo per entrare nell’ambito psicologico della motivazione, delle aspirazioni, delle incertezze e delle scelte, si inserisce in un quadro ideologico che a nostro modo di vedere può produrre una pericolosa omologazione dell’individuo, oltre che una precoce predeterminazione del suo destino individuale, chiudendo il cerchio di una trasformazione della scuola della Costituzione in qualcosa di lontano dall’obiettivo essenziale, che è sempre quello della crescita dell’essere umano nella sua totalità.

Certo, non è in questi termini che viene presentato e proposto l’intervento e anche in questo caso, come per le competenze, ci si muove su un terreno scivoloso ed equivoco. La pratica dell’orientamento narrativo, ad esempio, si fonda sull’impiego delle storie per aiutare le persone in crescita a trovare la propria strada all’interno della comunità di appartenenza; ma che le storie, attraverso il loro potere evocativo e di rispecchiamento, consentano di confrontarsi con il proprio vissuto e con aspetti della propria personalità, in primo luogo all’interno della comunità educante, è un’acquisizione consolidata nella didattica della letteratura. La questione cruciale è perché si sia sentita la necessità di normativizzare ciò che spontaneamente accade in questo come in altri casi, per cui occorre chiedersi se l’intervento normativo non esponga al rischio di interpretazioni semplificatorie, e quindi pericolose, di certe pratiche. Ad esempio un conto è che gli insegnanti si impegnino a proporre un ventaglio il più ampio e diversificato possibile di storie, scelte in base alle loro qualità letterarie e al loro spessore esistenziale, perché ogni studente possa trovarvi liberamente ciò che risponde alle sue esigenze interiori; tutt’altro conto è che le storie vengano scelte con l’obiettivo dichiarato di orientare a tutti i costi e quindi, in certa misura, di costruire personalità che presentino determinate caratteristiche. 

Qui infatti occorre portare l’attenzione su un punto fondamentale: se, anziché istruire e aiutare a crescere attraverso i contenuti culturali, qualcuno nelle scuole — senza avere la preparazione e la professionalità necessarie e senza la consapevolezza profonda delle dinamiche psicologiche e affettive che va a toccare — entrasse direttamente nelle questioni di personalità di individui in crescita, si configurerebbe una situazione di intrusività molto grave, i cui danni potrebbero essere ingenti.

È evidente come venti ore di formazione, come quelle riservate ai futuri tutor/ orientatori, siano assolutamente inadeguate a preparare una persona a tenere in considerazione tutti gli aspetti psicologici che vengono attivati in una relazione di orientamento: possibili proiezioni di aspettative narcisistiche inconsapevoli dell’orientatore sull’orientato, incapacità di cogliere le false attitudini del ragazzo che possono essere strutturate più su un adattamento forzato alle aspirazioni delle famiglie che da una scelta personale, incapacità di cogliere ciò che non si vede a primo sguardo. Questi sono solo alcuni dei tanti rischi cui si può andare incontro in un terreno molto scivoloso per chi non abbia una preparazione specifica. Conseguenza di questi rischi non percepiti o non visti è la grave possibile deviazione della crescita nel soggetto in età evolutiva.

Non si mette qui ovviamente in discussione il fatto che gli insegnanti possano dare dei consigli ai propri studenti, cosa che è sempre avvenuta e che ha un senso e un’utilità; o che le scuole superiori non possano occuparsi di creare, per gli studenti degli ultimi anni scolastici, contatti con il mondo del lavoro (che è tutt’altra cosa rispetto all’alternanza obbligatoria e ai cosiddetti PCTO): ciò che è inaccettabile è che gli insegnanti si presentino — o vengano costretti a presentarsi — come persone ufficialmente titolate a dare consigli e indicazioni, professionisti dell’orientamento senza esserlo, con tutta la confusione di ruoli che la sovrapposizione di ruoli professionali insegnante/ counselor-orientatore produrrebbe.

Questa confusione di ruoli interferisce prima di tutto con la relazione di insegnamento e sottrae attenzione preziosa alle conoscenze su cui si lavora; poi, cosa ancora più preoccupante, rischia di incanalare gli studenti in scelte sbagliate, magari frutto più del bisogno inconscio dei giovanissimi di assecondare gli adulti che di un desiderio autentico. L’insegnante che viene indotto a esercitare una funzione che non è la sua purtroppo è sempre soggetto al rischio di immettere elementi propri (aspirazioni, desideri, riconoscimento narcisistico personale) nel processo, ovviamente in modo involontario e senza accorgersene, pensando senz’altro di fare il bene dello studente. Di là dall’opportunità di praticare un simile orientamento, tutto il processo risulterebbe comunque invalidato: in quest’ambito ben preciso infatti solo degli psicologi preparati sono in grado di far emergere la scelta a livello professionale, senza interferire.

In sintesi, una persona che non abbia una vera formazione psicologica alle spalle non ha la preparazione adeguata per distinguere le inclinazioni degli studenti — che comunque non possono essere mai date precocemente per definitive e tanto meno fissate come etichette sulle persone in crescita — dalle proprie possibili proiezioni e fantasie sugli studenti, che poi rischiano di configurarsi come delle «profezie autoavverantesi»[8]; e, quel che è peggio, potrebbe non capire quando lo studente si adegua alle proiezioni e alle aspettative dell’adulto per compiacerlo e quando invece compie scelte autonome e davvero corrispondenti a quello che sente.

Insegnare a orientare in venti ore

Eppure, a leggere le slide di INDIRE[9] che spiegano quale dovrà essere la formazione dei docenti tutor/ orientatori, sembra che qualcuno pensi di poter abilitare gli insegnanti a svolgere questo ruolo e questa professione che non è la loro attraverso un corso di venti ore. Riportiamo qui di seguito la descrizione delle competenze che in venti ore verrebbero fornite, già pronte, agli insegnanti orientatori: «Promuovere negli insegnanti lo sviluppo di competenze trasversali, come la capacità di comunicazione, di ascolto attivo che sono essenziali per svolgere efficacemente il ruolo di orientatori e la capacità di valutare l’efficacia del sistema di orientamento scolastico, al fine di apportare eventuali miglioramenti e di garantire un supporto adeguato agli studenti nel loro percorso di formazione.

Favorire la collaborazione tra insegnanti, famiglie e comunità, per promuovere un sistema di orientamento scolastico inclusivo e orientato al successo degli studenti».

Chiunque legga con attenzione si rende conto del fatto che qui si sta chiedendo agli insegnanti di entrare in dinamiche relazionali e di personalità che non sono tenuti a conoscere e padroneggiare, e che in effetti non possono conoscere senza un percorso di studi adeguato.

Considerazioni finali

Secondo le slide preparate dal MIM, l’orientamento sarà incentrato sulla «personalizzazione dei percorsi, mettendo [sic] l’accento sullo sviluppo delle competenze di base e trasversali (responsabilità, spirito di iniziativa, motivazione e creatività, fondamentali anche per promuovere l’imprenditorialità giovanile), superando, in altri termini, il modello della sola dimensione trasmissiva delle conoscenze»[10].

L’effetto che rischia di prodursi, qualunque ne sia lo scopo finale, è quello dell’adattabilità inconsapevole a una realtà data a priori, la fine dell’abitudine al pensiero e alla conoscenza di ciò che non è immediatamente presente e della stessa capacità di astrazione.

«Superamento della dimensione trasmissiva» significa allora fine degli insegnamenti da parte dell’altro, l’unico secondo Gert Biesta (ne parla nel libro Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022)[11] che può rompere l’isolamento claustrofobico del soggetto in se stesso, e fine della possibilità di apertura di orizzonti conoscitivi nuovi e imprevedibili: tautologicamente, non posso sospettare l’esistenza di qualcosa che non conosco prima che un altro me la mostri.

Il punto d’arrivo, sempre per usare un’immagine di Biesta, è il «robot aspirapolvere» che «impara dall’ambiente» in cui è immerso -— magari sviluppando anche «spirito imprenditoriale» — ma non può mai mettere discussione l’ambiente stesso dall’esterno, perché non conosce e non immagina altro. Orientamento, didattica per competenze (così come l’abbiamo descritta), abolizione dei voti — smettere cioè di verificare se le conoscenze vengono acquisite o meno — sembrano formare un sistema funzionale a questo scenario.


[1] Sull’argomento cfr. Daniela Di Pasquale, Livelli di scuola, Roma, Aracne, 2022

[2] https://lavoce.info/archives/101431/quanto-contano-le-abilita-non-cognitive/

[3] https://www.orizzontescuola.it/no-al-reclutamento-dei-docenti-senza-verificare-che-conoscano-la-loro-disciplina-lappello-degli-intellettuali/

[4] Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito, Bari-Roma, Laterza, 2019

[5] È lo stesso meccanismo descritto dal linguista Lucio Lombardi Vallauri ne La lingua disonesta (Bologna, Il Mulino, 2019): in politica l’espressione “cambiare tutto”, così come “innovare”, permette di trasmettere un’immagine positiva di sé e della propria azione, senza che ci si prenda l’onere di specificare che cosa si vuole cambiare, perché e in che modo.

[6] Cfr. Renzo Canestrari, Introduzione alla psicologia generale, Milano, Bruno Mondadori, 2006

[7] Jack Goody, citato da Mauro Boarelli in Contro l’ideologia del merito, op.cit., p.28).

[8] Cfr. Nancy McWilliams, Il caso clinico. Dal colloquio alla diagnosi, Milano, Cortina, 2002

[9] https://www.indire.it/2023/04/21/docenti-tutor-e-orientatori-online-la-sezione-dedicata/

[10]Cfr. https://docentitutor.istruzione.it/

[11] «Nella sua formulazione più essenziale il problema sta nel fatto che lo scopo dell’insegnamento, e dell’educazione in generale, non è mai che gli studenti imparino “semplicemente”, ma che imparino qualcosa, che lo imparino per ragioni particolari e che lo imparino da qualcuno. Il linguaggio dell’apprendimento si riferisce a processi che restano aperti o vuoti, per quanto riguarda il loro contenuto e il loro scopo. Dire semplicemente che i bambini dovrebbero apprendere o che gli insegnanti dovrebbero facilitare l’apprendimento o che tutti dovremmo essere ‘lifelong learners’ significa poco o nulla» (Gert J.J. Biesta, Riscoprire l’insegnamento, Milano, Cortina, 2022, p.41)

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