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diretto da Romano Luperini

Prove di esame. Le contraddizioni della scuola nello specchio dell’esame di Stato

Forse è inutile, come sostengono in molti. Certamente è candidato a scomparire, come i voti numerici e altre caratteristiche della scuola che per abitudine consideriamo “naturali”. Tuttavia, finché esiste, l’esame di Stato che conclude il percorso della Secondaria superiore è una significativa prova di professionalità e competenza per chi insegna.

Costituisce, inoltre, una prospettiva privilegiata dalla quale osservare alcune ambiguità e contraddizioni che caratterizzano la scuola italiana, in un passaggio storico sicuramente decisivo. Le definirò in estrema sintesi, come indice di tante riflessioni elaborate in passato, spesso anche su queste pagine, e di quelle che si prospettano per il futuro.

Produttività/ improduttività

La sensazione di lavorare a vuoto è una delle più frequenti, nella scuola. Deriva in buona parte dall’asservimento alle procedure che caratterizza in misura crescente il nostro mestiere. Il cronotopo della scuola è segnato da scadenze e adempimenti vissuti come rituali, form e formati sempre più numerosi che scandiscono i ritmi di un tempo spesso percepito come vuoto e immobile. L’esame detta invece ritmi diversissimi, in uno spazio-tempo molto limitato, e per necessità fortemente orientato alla produzione di scelte, obiettivi, azioni culturali e didattiche: somministrazione di prove scritte; correzione e valutazione collegiale; confronto sugli esiti; progettazione dei colloqui e loro svolgimento. Si tratta di creare dal nulla un gruppo di insegnanti coerente e capace di discutere e mediare. Anche questo gruppo, come i consigli di classe nei quali siamo abituati a lavorare, è un “collegio perfetto”; ma non si hanno a disposizione mesi o anni per crearlo, bensì soltanto pochi giorni: è un’esperienza unica, e di solito le docenti e i docenti più esperti capiscono sin dalla preliminare a che esperienza andranno incontro. Naturalmente, è possibile svolgere tutte le operazioni d’esame esclusivamente puntando a essere ligi alla norma scritta: l’esame “sulla carta”, infatti, è dettagliato passo dopo passo nella versione di Commissione Web (come nella memoria di chi anche solo per una volta si sia assunto l’oneroso compito di verbalizzare), e risulta molto preciso nelle istruzioni fornite dagli ispettori di turno: chi mette davanti a tutto le carte segue la logica difensiva di tante commissioni, preoccupate di non far parlare di sé e evitare ricorsi. Ma è possibile invece avventurarsi nel viaggio che da queste laboriose carte conduce ad un’intensa e appagante esperienza didattica reale.

Interni/ esterni e altre divisioni

In uno spazio-tempo accelerato e con ristrettissimi margini per correggere i propri errori (quelli commessi all’esame da una commissione sono gravi e a volte determinanti) si deve riuscire a creare e sostenere una collegialità funzionante e effettiva. La dinamica dell’esame, quindi, mette in gioco il ruolo delle soggettività nella costruzione di un qualsiasi gruppo di lavoro e coinvolge nel profondo il profilo individuale di ogni membro della commissione, compresa la spinta all’individualismo così pervasiva nella scuola odierna (contenuta dalla riforma strutturale che ha parificato il numero di esterni e interni, ma dominante nelle dinamiche contemporanee di competizione fra istituti e persone). Di quest’antinomia, sono plastiche rappresentazioni le potenziali divisioni all’interno del gruppo: in particolare, quella fra “interni” e “esterni”, potenzialmente allontanati da logiche divergenti (la tendenza a confermare i giudizi della scuola, i primi, l’esercizio di un ruolo di controllo, i secondi); o quella che separa i commissari convinti di insegnare materie “più importanti” (per differenti motivazioni, tutte incoerenti rispetto alle finalità dell’esame), rispetto a chi insegna materie “meno importanti”. Tuttavia, la commissione è o dovrebbe essere “una”. La sfida, in cui un ruolo determinante è interpretato dalla figura della/ del presidente, è dunque di altissima professionalità; creare le condizioni per ascoltarsi, vedersi riconosciuti, sentire l’appartenenza non a un “dentro” o “fuori” rispetto all’istituto in cui si svolge l’esame o alla pura e semplice idea di “esame giusto” di cui siamo tutti portatori, ma rispetto alla funzione comune di professionisti della scuola e, senza retorica, di servitori dello Stato.

Disciplinare/ multidisciplinare

L’espressione compiuta del buon lavoro di una commissione è il colloquio d’esame: non perché le fasi precedenti non siano delicate, ma semplicemente perché le scelte in discreta misura libere e responsabili nell’impostazione, nello svolgimento, nella valutazione di questa prova sono ben altrimenti rilevanti, rispetto a quelle operate nelle prove scritte. In particolare, il colloquio d’esame pone con forza due questioni che appassionano tante e tanti di noi, attraverso le quali si misura la distanza fra le pratiche e le idee esistenti nelle scuole e la loro pallida proiezione nel dibattito pubblico. Ne abbiamo scritto più volte: mi scuso con chi coglierà nelle mie parole un’eco nemmeno troppo lontana, ma penso sia utile riprendere ancora alcuni concetti.

La prima questione è la consistenza e il valore delle discipline, in un quadro culturale e pedagogico che spinge verso l’integrazione e addirittura il superamento della dimensione della “materia”, indicando orizzonti di apprendimento trasversali e apparentemente estranei alla concezione tradizionale del “sapere disciplinare” (fino all’estremo delle cosiddette soft skills). Qualunque sia la nostra posizione sul tema, la realtà del colloquio attuale è la fotografia di un tentativo mal riuscito (perché precluso a tante e tanti studenti) di dare ad un percorso centrato sulle discipline una conclusione pluridisciplinare (nei casi migliori, perfino interdisciplinare). L’interrogativo sulla possibilità da parte dei commissari di “fare domande” a candidate e candidati durante il colloquio, interrompendo così il flusso dell’argomentazione costruita autonomamente da loro, è stata anche quest’anno la manifestazione più chiara dell’ambiguità e della contraddittorietà delle scelte del legislatore scolastico, nel percorso curricolare e nel momento dell’esame. A molti colleghi è sembrata ambigua anche l’insistenza con cui gli ispettori che avevano il compito di formare i presidenti di commissione hanno sottolineato il valore di semplice spunto del materiale fornito allo studente, utilizzabile quindi con la massima libertà intellettuale. Ne sono sortiti, come era logico che fosse, episodi che si inseriscono a pieno titolo nell’antologia di sciocchezze della scuola italiana: del genere: “Questa è la foto di Ungaretti durante la Prima Guerra Mondiale. In guerra i soldati mangiavano molto male, quindi partirei da Scienze e parlerei del ruolo degli enzimi”, o anche “Nella poesia Il porto sepolto il poeta parla delle profondità dell’animo. Quindi, legandomi al petrolio, parlerei dei cambiamenti climatici”.

Conoscenze/ competenze

Una seria pratica di incrocio e perfino di contaminazione fra le discipline costituisce un orizzonte culturale aperto e stimolante. Tuttavia, darne per scontato il valore in sé può produrre conseguenze gravi e ridicole, come quelle appena esemplificate: come docenti, infatti, siamo ben lontani dal condividere il senso di espressioni come “collegare le discipline” o “costruire un’argomentazione critica”. Inoltre, pensare che lo studio delle singole materie produca automaticamente il famoso “senso critico” o la capacità di argomentare è quanto meno ingenuo. Per costruire una prospettiva multi/ interdisciplinare credibile, appare vitale ragionare a fondo sulla seconda questione che l’esame pone in primo piano, l’intreccio fra “conoscenze” e “competenze”, superando una volta per tutte una contrapposizione sterile e debolmente fondata: il superamento del nozionismo e della cieca selezione classista operata dalla scuola del passato, obiettivo comune alla stragrande maggioranza delle persone che insegnano, non si ottiene infatti impoverendo o addirittura cercando di cancellare i saperi disciplinari e scolastici, a favore di non meglio precisate “competenze sociali” o “trasversali”. Il tema, a giudicare dai colloqui ai quali si assiste in sede d’esame, è come trovare un equilibrio produttivo fra la trasmissione di un patrimonio di conoscenze e la sua assimilazione critica, legata (anche) al vissuto personale di ciascuna persona che studia. La sceneggiatura del colloquio, concepita nei termini attuali, ripropone sul versante di chi studia le sfide che la sessione d’esame propone a chi insegna, come abbiamo visto in precedenza. Come molte commissioni non si mostrano in grado di assumere la responsabilità e il ruolo che la legge affida loro, così molti studenti non sanno proprio che farsene della centralità che il colloquio riconosce loro. Ѐ sicuramente possibile e doveroso immaginare e scrivere una sceneggiatura diversa, mettendo finalmente da parte i discorsi accademici sulla presunta egemonia cui aspirerebbe la classe docente, a danno della presunta aspirazione alla libertà del sapere per cui combatterebbe chi apprende. Fulcro di questa nuova sceneggiatura potrebbe essere, e in alcuni colloqui di alcune commissioni è già, il valore dell’interpretazione, dello scarto intellettuale, perfino dell’errore, nella costruzione di un’ipotesi critica personale, nella lettura di un testo e fenomeno (questo è, credo, il percorso suggerito dalla norma quando immagina lo studente alle prese con un “materiale” di inizio del colloquio). Una situazione ben diversa sia dalla commissione che interrompe di continuo chi parla, per precisare nozioni inutili e secondarie, sia da un monologo autoreferenziale infarcito di errori, ascoltato dalla commissione in religioso e timoroso silenzio.

Le parole vanno riempite di significato, messe alla prova della pratica didattica e educativa, sottoposte alla discussione collettiva della comunità scolastica. Altrimenti producono stereotipi. Nel caso dell’esame, per esempio, il rischio è di considerare “democratica” la scuola della norma burocratica (perfetta sulla carta e inesistente nel mondo), o la scuola che cancella la cultura come sapere disciplinare, la sua socializzazione come verifica di un percorso, i confini e la diversità di ruolo fra adultità e giovinezza.

Ѐ bene ricordare che, nel mondo presente, nulla è inclusivo e democratico come l’ignoranza.

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