Cormac McCarthy, cose ultime e penultime
A luglio avrebbe compiuto novant’anni, ma è morto a giugno, evitando di un soffio il traguardo tondo; e così anche l’ultimo atto assomiglia alla vita di Cormac McCarthy, che non ha mai voluto stare al centro della scena: che ha respinto, come altri grandi narratori americani suoi coetanei e in Italia Elena Ferrante, la spettacolarizzazione del successo. Dalla scrittura sembrava essersi congedato, quando di anni ne aveva poco più di settanta, con due capolavori diversi e vivissimi: Non è un paese per vecchi, del 2005, e La strada, dell’anno seguente. Due romanzi che agiscono sul patto narrativo in modo spiazzante: un thriller dai colori di un western contemporaneo, il primo; un romanzo apocalittico, il secondo. Ma limitare questi due capolavori al genere thriller o a quello catastrofico è come dire che la Commedia è un racconto di viaggio o un’opera fantascientifica. In gioco è altro: il punto più profondo della mente e della realtà che si riesca a guardare, o anche solo a ipotizzare. Lì vuole andare la scrittura; e il plot, genere incluso, è solo la condizione per tentarlo.
Dopo l’interrogazione di La strada, in ogni caso, la partita sembrava chiusa; e solo un’appendice minore era apparsa la pièce disperata The Sunset Limited (2006), in cui un nero prova a prendersi cura del destino di un aspirante suicida, vedendo infine sconfitto ogni argomento per dissuaderlo dal suo gesto: una sorta di Dialogo di Plotino e di Porfirio al rovescio. A maggior ragione, sembrava che il punto fondo toccato con La strada, l’interrogazione ultima sul senso della civiltà e sul nostro rapporto con la natura e con la realtà, non potesse consentire, più ancora dell’anagrafe, un oltre. E sembrava che questo grande vecchio ai margini dei circuiti pubblici degli States avesse scelto di dedicare i suoi anni ultimi all’incontro con i fisici del Santa Fe Institute, nel New Mexico, dove partecipava ai dialoghi e alle ricerche interdisciplinari di un prestigioso gruppo di studiosi appartenenti a diversi campi del sapere.
E invece si preparava questa sorpresa di due romanzi nuovi, un dittico centrato sulle figure di Bobby e Alicia, fratello e sorella, legati da una relazione ambigua che sembra evocare il grande precedente di Ulrich e Agathe nell’Uomo senza qualità di Robert Musil, con il quale queste opere estreme di McCarthy hanno d’altra parte in comune anche l’interesse per la fisica e le leggi rivoluzionarie che ne hanno segnato il campo nell’ultimo secolo. Il primo romanzo, uscito negli Usa alla fine del 2022 e in Italia a maggio del ’23, un mese prima della morte dell’autore, si intitola Il passeggero (The Passenger); Stella maris è il titolo del secondo, già pubblicato in America e atteso per settembre nella traduzione italiana.
Per Il passeggero (The Passenger, 2022, tr. it. Einaudi, Torino 2023, pp. 385), l’editore Einaudi, responsabile in Italia delle opere di McCarthy, ha affidato la non facile traduzione a Maurizia Balmelli, che aveva già dato ottima prova con Suttree, uno dei titoli decisivi dell’autore, uscito in originale nel 1979 ma presentato in italiano solo nel 2009, con trenta imperdonabili anni di ritardo. Quali che ne siano le ragioni pratiche, la scelta della stessa traduttrice sembra rendere ragione di una parentela stilistica fra i due titoli: analoga la scrittura densa e acuminata, il senso di troppo pieno figurale, l’incalzare dei dialoghi; una cifra ben diversa dalla parola-azione di Questo non è un paese per vecchi o dalla dilatazione spettrale di La strada. E come già nel caso di Suttree, anche questa volta la traduzione sembra rendere ragione della folla di cose evocate, a partire dal lessico: il campo della scienza, con impervie allusioni alla fisica delle particelle, e poi quelli del linguaggio tecnico del soccorso in mare, e del mondo militare, e della psichiatria clinica; ma soprattutto le parole identitarie di una società stratificata e complessa come quella statunitense. Un mescidato difficilissimo da restituire e da rendere intelligibile in un’altra lingua. Al netto di verifiche puntuali e tecniche fra l’originale e la traduzione italiana, la sensazione è che il risultato funzioni, e coinvolga.
Allegoria di un’assenza e di una ricerca di senso sempre frustrata e sempre necessaria e da rinnovare, il passeggero cui allude il titolo è quello (o quella) scomparso dall’abitacolo di un aereo precipitato, all’interno del quale il protagonista Bobby Western, un sommozzatore addetto al recupero, trova nove corpi anziché dieci. A partire da questa scomparsa misteriosa, Bobby è oggetto di interrogatori perturbanti, così che decide di dileguarsi, mettendo in moto una peregrinazione che è un movimento nello spazio – la provincia americana torbida e vitale di Suttree, ma anche della trilogia della frontiera –, e contemporaneamente uno sprofondamento nel tempo, verso l’incrocio con il destino della sorella Alice/Alicia: depressa, psicotica e infine suicida, ma anche immagine di bellezza la cui perdita costituisce il centro di tutto ciò che è inaccettabile e resta privo di ogni possibile redenzione del senso.
La fuga di Bobby disegna una civiltà folta di volti e di relazioni, irta di identità e di ambienti diversi; ma anche evoca il sentimento di un’apocalisse imminente o forse già accertata: il dissolversi di un tessuto sociale solido e benevolo. La catastrofe privata del suicidio della sorella, avvenuto dieci anni prima e posto subito quale condizione della vicenda interiore del protagonista, è a sua volta l’emblema di una perdita collettiva: come in La strada, sembra anche qui che tutto sia ormai compiuto, e che il presente abbia il solo privilegio di conoscere «il controspettacolo delle cose che cessano di esistere», come risuona una delle diagnosi più suggestive e terribili di quel libro.
«Il vero guaio è che ogni linea è una linea spezzata. Torni sui tuoi passi e niente è familiare. Allora giri i tacchi per fare marcia indietro, solo che adesso hai lo stesso problema nella direzione opposta. Ogni linea di mondo è discreta e la cesura valica un baratro che non ha fondo. Ogni passo incrocia la morte» (p. 57). Sono parole di Kid, proiezione allucinata di Alicia; ma è anche la regola che guida il movimento di queste pagine, che insistano sullo spazio privato e mentale della sorella, folle e abbarbicata all’amore dell’esattezza oggettiva dei numeri, oppure in quello pragmatico del fratello, tuttavia scosso dalla consapevolezza delle leggi della relativistica fisica novecentesca: l’indeterminazione, le nuvole probabilistiche, i quanti… È soprattutto infine la regola della narrazione, che si svolge senza un centro e senza punti di partenza e mete certe; che insiste sui margini della società con dialoghi allucinati e fraterni, in un minimalismo esistenziale che ha parentele prestigiose nella narrativa americana di questi decenni, fra Pynchon e DeLillo.
Parlano, parlano i personaggi di questo romanzo. Si incontrano parlando fitto, ma l’esperienza vera sembra restare incomunicabile, sulla linea di Beckett e magari di Faulkner. Parlano tutti cercando una via d’uscita, un modo non di tornare sui propri passi, o di tracciare l’identikit del passeggero che manca; e neppure di disegnare una versione plausibile e aggiornata del divino (un tema cui pure McCarthy si mostra sembra sensibile). Parlano cercando di capire a chi possano chiedere aiuto gli elefanti uccisi senza motivo mentre cercano di difendere i loro vecchi; inseguendo il modo di rispondere alla vecchia domanda di Villon e di tutti quelli che hanno perso qualcosa: «Dove vanno a finire le giornate?» (p. 114).
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