L’ultimo capitolo di Mastro don Gesualdo
Si riporta qui la relazione introduttiva di Romano Luperini al convegno su Verga organizzato dall’università di Bari nei giorni 11-12 maggio 2023.
Come è noto, secondo Bachtin la gestione della estraneità e la figura della incomprensione costituiscono uno dei principali problemi del narratore moderno che di esse si serve per smascherare le false convenzioni della vita sociale. L’ultimo capitolo del Mastro affronta appunto questo problema sin dalle parole di apertura: «Parve a don Gesualdo d’entrare in un altro mondo, allorché fu in casa della figliuola». Il palazzo del duca è appunto «un altro mondo» che obbedisce a una logica estranea a Gesualdo e per certi versi incomprensibile: la logica nobiliare, che dà da mangiare a un «esercito di mangiapane» e, all’interno del palazzo, segue un «cerimoniale di messa cantata». Giustamente è stato scritto, citando Bourdieu, che qui si confrontano capitale economico e capitale simbolico: il primo volto alla logica dell’accumulo, il secondo a ottenere e mantenere prestigio sociale. Gesualdo guarda dall’alto della foresteria dove è stato relegato (e questo nome stesso, “foresteria”, contribuisce, dice il narratore, a farlo sentire un forestiero), osserva la vita del palazzo e la trova irragionevole e insensata. Il punto di vista è perfettamente delineato: «Passava i giorni malinconici dietro l’invetriata a vedere» i movimenti dei camerieri e delle cameriere, degli stallieri, dei cocchieri, il loro comportamento grossolano e irrispettoso mentre fingono il massimo del decoro e del rispetto: tutta gente «che mangiava e beveva alle spalle di sua figlia, sulla dote che egli le aveva dato, su l‘Alìa e su Donninga, le belle terre che egli aveva covato cogli occhi tanto tempo, sera e mattina», terre dunque che per lui hanno anche un valore d’uso, affettivo ed esistenziale, mentre per il duca solo uno di scambio. Il punto di vista è definito esattamente: da «dietro l’invetriata» e la traiettoria dello sguardo è anche quella di una incomprensione che è “malinconica” perché elabora un lutto, la perdita dei propri beni. Gesualdo non ha dubbi: davanti ai suoi occhi si recita «una commedia», una recita vana e insensata che serve solo a sperperare il denaro che piuttosto sarebbe potuto servire a costruire fattorie e villaggi e a seminare terre che si estendono a perdita di vista e che ora inghiottono solo denaro «senza renderlo però, senza dar frutto». Qui si sente ovviamente il lettore di Franchetti e Sonnino e di quanti allora teorizzavano la cosiddetta “alternativa agraria” che avrebbe dovuto sconfiggere la logica improduttiva della usura e della nobiltà cittadina assenteista.
Tuttavia questa prospettiva (la prospettiva di Gesualdo che guarda dietro l’invetriata) non è la sola. Si alterna a quella del narratore oggettivo e a quella del duca. Gesualdo guarda la vita del palazzo, ma nel contempo è a sua volta guardato dal narratore oggettivo, che non nasconde la propria pietà, anche se non disgiunta da una punta di cattiveria quando deve spiegare il comportamento del protagonista alla luce del determinismo naturalistico. Così sin dalla prima pagina il narratore oggettivo chiama il protagonista «Il povero don Gesualdo» e questo aggettivo compare più volte anche in espressioni diverse («il povero diavolo», due pagine dopo, e poi «povero padre» quando Gesualdo si accorge di essere ingannato anche da Isabella); ma poi, per spiegarne il silenzio implacabile, ricorre alla spiegazione naturalistica («non diceva nulla, da villano malizioso») che riecheggia il dialetto di un proverbio siciliano ,”Viddanu ‘gnuranti e maliziusu”, e suona meno benevola.
La prospettiva del duca è quella ipocrita di chi mira alla ricchezza di Gesualdo ma nasconde le vere motivazioni del proprio comportamento dietro una cortina di gentilezza affettata. Il suo è un linguaggio convenzionale, perennemente inautentico ed eufemistico: vuole visitare la casa dei Trao perché il loro palazzo (e il lettore sa in quale condizione di decadenza sia) deve essere «interessantissimo», arrivato al paese intende «presentare i suoi omaggi in casa Motta», poi esprime il proprio dolore «inconsolabile per la perdita della suocera» (e intanto si informa presso il notaio se disponga di beni estradotali), dichiara a Gesualdo «il tesoro che vi chiedo è vostra figlia» e che Isabella sarebbe «un vero fiorellino dei campi, una violetta nascosta», per giustificare la reclusione di Gesualdo nella foresteria evoca «il regime speciale» richiesto dal suo stato di salute, e così via. A un certo punto lo stesso narratore oggettivo sembra perdere la pazienza e definisce «salamelecchi» i suoi modi falsi e cerimoniosi. Il suo linguaggio in effetti è opposto a quello di Gesualdo che esprime invece il proprio autentico amore per le terre che deve cedere al genero e i propri scrupoli morali verso i figli naturali avuti da Diodata.
È stato detto che Gesualdo «deve piegarsi alla forza, residuale quanto si vuole ma ancora efficace e attiva, di un’aristocrazia cittadina che si è saputa adattare ai tempi». Il capitale simbolico la avrebbe avuta vinta su quello economico, e il duca sarebbe anzi «l’unico “vincitore”» del romanzo (Castellana). In realtà il duca è subito presentato in gravi difficoltà economiche. Se nella stesura del 1888 si dice addirittura che «non aveva più nulla», in quella del 1889 si allude di continuo alla sua debolezza economica. Subito si dice che aveva sì «gran possessi», ma gravati da ipoteche, da liti, da gran pasticci. Si precipita a chiedere la mano di Isabella perché doveva «dar sesto ai suoi affari che ne avevano tanto di bisogno», ma poi si dice che «in pochi anni si era mangiato un patrimonio» seminando «a due mani debiti fitti al par della grandine» (e si noti la ripetizione ironica del verbo “seminare”, precedentemente usato da Gesualdo che immaginava invece un uso produttivo delle sue terre). «L’ombra delle ipoteche» si sta stendendo sulle terre tanto amate dal protagonista.
Dubito insomma che il duca di Leyra sia l’unico vero “vincitore”. Verga anzi ci dice che la sua vittoria (se di vittoria si può parlare) è precaria e temporanea e che la sua ricchezza è fragile e ipotecata. D’altronde, stando agli appunti scritti per La duchessa di Leyra, il duca viene presentato come «frollo d’animo e di corpo», una «rovina materiale e morale»: tutt’altro che come un vincitore, dunque (la rovina «materiale» essendo anche, molto probabilmente, la rovina economica già annunciata nel Mastro). Da un punto di vista sociale e politico Verga, in questo capitolo finale, sembra ancora legato alla polemica contro i ceti improduttivi che caratterizzava I Malavoglia.
La diagonale prospettica dello sguardo di Gesualdo è largamente prevalente sin quasi alla fine del capitolo, e oppone con chiarezza il punto di vista del protagonista a quello del duca di Leyra e degli altri abitanti del palazzo, compresa Isabella, che in realtà, nonostante il suo linguaggio ostentatamente patetico, regge il sacco al marito. Costoro considerano Gesualdo un uomo rozzo e «primitivo, nello stato di natura«, uno che «non conosce gli usi», come spiegano il duca e la duchessa ai medici. Tutti insomma recitano una parte, escluso Gesualdo, l’unico personaggio che ancora esprima una autenticità di sentimenti. Ognuno ha il proprio linguaggio: melodrammatico Isabella, cerimonioso e convenzionale il duca, rozzo e pettegolo i servitori, in una polifonia di voci e accenti che definisce, insieme, il tessuto sociale e quello linguistico del capitolo. Vi si confrontano due strati sociali: la voce di Gesualdo è quella del proprietario terriero ancora affettivamente legato al mondo campagnolo, la voce del duca quella della nobiltà cittadina improduttiva e assenteista. E dalla plurivocità dei Malavoglia si passa alla polifonia del Mastro.
Verso la fine del capitolo però la diagonale prospettica si rovescia di 180 gradi. Con una mossa magistrale non va più da Gesualdo agli abitanti del palazzo ma da questi verso di lui: è lui ora a essere guardato e giudicato dai servitori e anzitutto da quello che avrebbe dovuto assisterlo e chiamare la duchessa, don Leopoldo. Ritorna qui il procedimento di straniamento: nell’ottica del servitore ciò che è tragicamente “normale” diventa “strano”, anzi quasi comico. I lamenti dell’agonizzante diventano «capricci», l’ansimo dell’agonia una «canzone che non finiva più», le sue smorfie sono «boccacce», e i suoi ultimi respiri fanno un rumore «peggio di un contrabbasso», mentre i suoi lamenti sono «guaiti». Poi don Leopoldo rassetta la camera e si affaccia alla finestra, a fumare e a prendere una boccata d’aria, e fa cenno allo stalliere nel cortile che «il vecchio se ne era andato, grazie a Dio», infine apre la porta ed entrano, curiosi e sfaccendati, altri servitori a guardare le mani del morto mangiate dalla calcina. Don Leopoldo si mette a raccontare «le noie che gli aveva dato quel cristiano», e conclude «Pazienza servire quelli che realmente son nati meglio di noi». La morte di Gesualdo non modifica in nulla lo scorrere della vita normale e il suo solito cerimoniale. I gesti del servitore sono quelli freddi, distaccati e professionali di sempre. C’è un protocollo da seguire, e solo questo conta. Bisogna chiudere il portone e avvertire la cameriera della signor duchessa. Una morte crudele: se la Longa nei Malavoglia muore circondata dall’affetto dei familiari e persino padron ‘Ntoni, pur spirando lontano dalla famiglia all’ospedale, lascia una ricca eredità di affetti, qui Gesualdo muore davvero solo, circondato dalla indifferenza, senza lasciare nulla dietro di sé. L’universo arcaico-rurale situava la morte nel circolo della vita che continua, quello moderno la fa coincidere col nulla.
L’ultimo capitolo è dunque fondato su questo incrocio di opposte prospettive che si confrontano sino alla fine. Verga vi appare un maestro nella gestione dell’intreccio delle reciproche estraneità. I due poli della narrazione si scambiano l’ottica narrativa, con un effetto di mutuo straniamento e di potente stravolgimento, che pone in causa, nello stesso tempo, la logica borghese dell’accumulo e la falsità ipocrita di una nobiltà cittadina già corrosa da debiti e ipoteche. Se il duca sperpera la ricchezza, chi, come Gesualdo, tanto ha fatto per conservarla e accrescerla si rende conto dell’assurdità delle proprie scelte e delle conseguenze che ne sono nate, e che lo perseguitano col senso di colpa durante l’agonia, attraverso le figure ossessivamente ritornanti di Diodata, dei figli naturali, di Bianca. Il gioco delle estraneità reciproche e incrociate mette in risalto sia l’assurdità dell’accumulo sia quella del vuoto formalismo nobiliare. In questo mondo non ci sono vincitori, ma solo vinti. La figura dell’incomprensione si estende ben oltre il motivo della incomunicabilità che indubbiamente divide tutti i protagonisti dell’ultimo capitolo: diventa la cifra stessa del romanzo e della esistenza che vi è figurata, dunque una rappresentazione della sua sostanziale estraneità al senso.
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