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diretto da Romano Luperini

La testa nei test

Nelle classi quinte, solitamente, il rientro dalle vacanze natalizie segna un deciso cambio di passo: gli argomenti da trattare sono ancora moltissimi, l’esame si avvicina, si programmano le simulazioni delle prove scritte, si stringono i tempi su verifiche e interrogazioni. Non è facile, ma quando studenti e studentesse rispondono a dovere, la corsa degli ultimi mesi può avere un che di entusiasmante: le energie chi sta al di qua e al di là della cattedra sono incanalate verso la stessa direzione, le orecchie sono tese, i cervelli all’erta. Sono mesi faticosi, ma sono mesi in cui, se si è seminato bene, si raccolgono anche messi abbondanti – talvolta, più abbondanti del previsto.

Quest’anno, invece, serpeggia la sensazione di avere a che fare con classi poco “sul pezzo”: lavorano in modo incostante e superficiale, non tengono il ritmo, hanno la testa per aria… – e, da un rapido giro di consultazioni con colleghi reali e virtuali lungo la penisola, pare non sia un problema esclusivamente di chi scrive. Sarà questa strana primavera, per metà già estate e per l’altra metà ancora inverno?

No, è l’effetto dei test per l’ammissione all’università.

Si potrebbe obiettare: «Ma come, non si sono sempre fatti, i test d’ammissione?». Certo che sì, ma il fenomeno, negli ultimi tempi, ha raggiunto dimensioni che fino a pochi anni fa erano inconcepibili.

Chi prima inizia…?

Il primo elemento di disturbo, e il più dirompente, quello che sta davvero cambiando gli equilibri delle classi è la recente tendenza (inaugurata, come al solito, da alcune prestigiose università private) ad anticipare lo svolgimento dei test nei mesi primaverili, anziché mantenerne la collocazione usuale tra fine agosto e la metà di settembre. Così, l’impegno e le risorse (di tempo, energie, concentrazione) che normalmente venivano profuse per terminare al meglio l’anno scolastico e preparare con coscienza l’Esame di Stato devono essere condivise con la riflessione sulla scelta del percorso universitario e l’allenamento alle prove d’ammissione.

Ma moltissimi diciotto-diciannovenni, nei mesi che vanno tra gennaio e maggio, ancora non hanno ben chiaro che cosa vorranno fare “da grandi” e non possono godere di quelle lunghe settimane estive di riflessione “a bocce ferme”, dopo la fine dell’Esame di Stato, che aveva a disposizione chi sosteneva i test a fine estate. Quelle settimane servivano a fare con calma il punto della situazione, a ponderare una decisione non sempre facile, a valutarla anche sulla scorta dell’esito degli ultimi mesi di studio e dell’Esame stesso – quanti hanno deciso davvero a quale corso di Laurea iscriversi dopo Ferragosto, magari dopo essere passati anche dal rito, liberatorio ed iniziatico, del “viaggio della maturità”?

Ma erano anche settimane utili ad esercitarsi seriamente per test impegnativi come quelli di medicina o ingegneria, senza che la preparazione fosse strozzata tra un compito in classe sulle funzioni trigonometriche, un’interrogazione su Pirandello e una verifica di chimica organica: tutte cose che servirebbero anche per affrontare quei test con maggiore tranquillità, e che fino a pochissimi anni fa un diplomato acquisiva nei tempi debiti, con la calma e la progressione dello studio di mesi interi. Oggi, invece, tali conoscenze sono apprese (ma per davvero?) seguendo i tempi non della classe, ma delle date dei test: per questo capita abbastanza di frequente che gli studenti debbano, giocoforza, affrontare in autonomia contenuti anche complessi, anticipando ciò che nella programmazione di classe sarebbe stato svolto in un momento successivo; inoltre (date un’occhiata ai poderosi manuali di preparazione) i test sono sempre più settoriali e specialistici, spesso formulati in modo arzigogolato ed inutilmente puntiglioso, e pretendono da un’aspirante matricola in Economia o Giurisprudenza o Ingegneria non le conoscenze e competenze di base di comprensione del testo, di fisica, di matematica, di storia, che sono state consolidate in cinque anni di scuola superiore e soprattutto nell’ultimo anno, ma conoscenze specifiche che dovrebbero essere acquisite durante il primo o addirittura il secondo anno di corso.

È ovvio che questo meccanismo perverso finisca per infliggere un vulnus non indifferente al valore attribuito all’ultimo anno di studi: che importanza può avere una poesia di Ungaretti se non mi aiuta a superare il test di Ingegneria? Perché devo seguire la spiegazione di quell’argomento di scienze naturali se tanto l’ho già preparato da solo in vista del test a Biologia? Non parliamo poi, della svalutazione dell’Esame di Stato, che non ha più alcun peso nella graduatoria di accesso a questo o a quel corso accademico: in un sistema in cui l’Università non riconosce più alla scuola il compito (e la capacità?) di offrire indicazioni precise sul grado di preparazione di questo o quello studente, tanto che si avoca il compito di farlo da sé, con strumenti anche molto diversi da quelli della didattica superiore (test a risposta multipla, certificazioni linguistiche…), interferendo pesantemente con lo svolgimento degli ultimi mesi di scuola, conquistare un buon voto all’Esame di Stato è solo questione di soddisfazione personale e poco altro. È una questione a cui si è già accennato qui, ma è una questione su cui sarebbe bene che le due istituzioni, Scuola e Università, ormai separate anche nei rispettivi Dicasteri, cominciassero ad interrogarsi congiuntamente, dato che un quinto anno portato a termine in modo approssimativo non giova di certo a chi sarà, pochi mesi dopo e pur avendo superato i test, una matricola universitaria.

Più è meglio?

A completare il quadro, si aggiunga che la moltiplicazione dell’offerta formativa delle Università conseguente alla riforma del 3+2 ha prodotto un’infinità di corsi di laurea triennali spesso parzialmente sovrapponibili, e altrettanto spesso a numero chiuso: se anni fa lo studente o la studentessa interessati alle lingue e all’economia avrebbe sostenuto esclusivamente i test d’ammissione a queste due facoltà, oggi, invece, sosterrà le prove d’accesso non solo a Lingue e letterature straniere e ad Economia, ma avrà anche l’imbarazzo della scelta tra Mediazione linguistica, Management delle organizzazioni, Scienze internazionali, Economia delle imprese e dei mercati, Economia e gestione aziendale, Economia e gestione d’impresa, Scienze linguistiche, Scienze linguistiche per le relazioni internazionali, Marketing, Economia analisi dei dati e management, Scienze Statistiche ed economiche, Economia delle banche e delle assicurazioni… e magari tenterà anche di entrare in corsi in lingua inglese ormai considerati più prestigiosi e spendibili nel mondo del lavoro, come International Law Politics and Economics, Economics and Management o Finance.1 Da far girare la testa solo a pensarci.

In tempi pre-pandemici, a dare una mano nel limitare la scelta c’era almeno il fattore spaziotempo: i test, infatti, si svolgevano in presenza, in sedi universitarie magari lontane che dovevano essere raggiunte con dispendio di energie, tempo e denaro (per gli spostamenti, oltre a quello investito per l’iscrizione al test). Dal lockdown in poi, però, quasi tutte le università si sono attrezzate per far svolgere i test a distanza, online, dal comodo delle camerette che già furono un porto e che dalla primavera del 2020 sono diventate succursali delle aule d’esame. Questo, che è sicuramente un vantaggio per chi abita in piccoli centri, accentua però la prassi, ormai diffusa, per cui molti studenti, anziché concentrarsi su uno o due test ne provano quattro, cinque o sei – anche perché molte università, generalmente private, offrono più tornate di prove: il “o la va, o la spacca” non esiste più, c’è sempre la seconda o la terza possibilità. A ciò si aggiunga l’ansia, in parte comprensibile ma acuita dalla narrazione ormai mainstream sul “merito” e sul successo, di non riuscire ad entrare nel corso “giusto”. Dunque, i test si aggiungono ai test, perché oltre al piano B ne servono (almeno) anche uno C e uno D.

E quindi?

E quindi, nei mesi che vanno da gennaio a maggio, la testa degli studenti non è più sui libri di testo, ma sui libri dei test, poderosi volumi forsennatamente crocettati da chi dovrebbe dedicare le proprie energie ad acquisire e consolidare conoscenze e competenze che forse non serviranno per rispondere a quello specifico quesito di logica o di diritto o di biologia, ma che dovrebbero costituire i prerequisiti fondamentali e necessari per affrontare in modo sereno e consapevole il grande salto verso l’università.

1Non sono corsi di laurea inventati, sono alcuni dei corsi realmente proposti dalle tre maggiori università milanesi: Statale, Bicocca, Cattolica.

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