Su Lo spazio dei vinti. Una lettura antropologica di Verga di Riccardo Castellana
Questo libro vuole essere un’interpretazione complessiva del Verga maggiore (vale a dire di Vita dei campi, delle Novelle rusticane e dei primi due romanzi del cosiddetto “ciclo dei Vinti”: I Malavoglia e Mastro-don Gesualdo) fortemente orientata in senso antropologico. Si tratta di un approccio non nuovo in assoluto, ma che in passato è stato oggetto di qualche limite e di più di un fraintendimento, tanto da parte degli antropologi quanto da quella degli storici della letteratura (i quali, a dire il vero, ne hanno fatto uno uso molto parziale).
(…)
Con la parziale eccezione di Cirese e di pochi altri, per molti etnologi l’opera di Verga ha rivestito (e riveste ancora oggi) un interesse di tipo sostanzialmente documentario. (…). Un primo scopo del presente studio è dunque quello di elaborare un modello teorico di critica antropologica coerente e organico, capace di andare oltre il semplice contenuto del testo letterario e, soprattutto, oltre la sua natura di mero documento: un modello applicabile, nelle nostre intenzioni, non solo a Verga, ma anche ad altri autori, che dopo di lui hanno proseguito il dialogo con la cultura popolare.(…) Per leggere l’opera di Verga non (ingenuamente) come “documento” della cultura popolare siciliana di fine Ottocento, ma (criticamente) come il risultato di una ricerca estetica complessa e profondamente radicata nel suo tempo, è necessaria insomma un’attenzione non solo ai contenuti ma anche, e soprattutto, agli aspetti formali del testo, riportando quest’ultimo al centro dell’interpretazione critica, tanto nella sua dimensione filologica quanto nelle sue strutture.
(…)
Non di solo storicismo, tuttavia, è fatta l’operazione critica, e il titolo di questo libro, Lo spazio dei Vinti, allude al concetto di “spazio sociale” elaborato da uno dei più grandi sociologi del nostro tempo, Pierre Bourdieu (1930-2002), durante il suo apprendistato etnologico in Algeria, e sta ad indicare un secondo possibile livello della critica antropologica: da concepire non solo come ricostruzione delle fonti e del contesto culturale, ma anche come strumento ermeneutico per comprendere e attualizzare, con strumenti a noi più familiari, la sociologia implicita e i livelli di cultura implicati dal testo narrativo.
(R. Castellana, Introduzione a Lo spazio dei vinti. Una lettura antropologica di Verga, Carocci, 2022, pp.14-16)
Un’interpretazione complessiva del Verga maggiore
Della Introduzione, minuziosa e nitida, che Riccardo Castellana ha premesso al suo ultimo libro (è possibile leggerla per intero anche su LPLC²) si è scelto (con le difficoltà di ogni selezione) di privilegiare i segmenti riportati poco sopra, nel tentativo di ricondurre ad alcune direttrici di forte evidenza una riflessione che, in realtà, si caratterizza proprio per la sua natura capillare, per le traiettorie inusitate inaugurate sull’itinerario apparentemente noto «del Verga maggiore». Un percorso del genere (frutto di studi più che decennali, come si legge nella nota bibliografica) impone, tra l’altro, il confronto con la critica verghiana, soprattutto con quelle voci che ne hanno fatto la storia, a cominciare da quelle di Russo e poi di Baldi, di Pellini per arrivare a quelle a noi più vicine di Manganaro, di Forni o di Baldini, passando di necessità per Luperini, di cui si riconosce il ruolo-chiave. È già – questo – un aspetto del libro molto interessante: le voci critiche non vengono semplicemente passate in rassegna e citate dove opportuno (compito doveroso di ogni studioso), ma messe in dialogo e in prospettiva, con recuperi significativi ma anche coraggiose mise en question di posizioni interpretative acquisite da tempo e difficili da smontare, anche per via di una consolidata tradizione della manualistica per la scuola: valgano come esempio, tra i molti possibili, le pagine dedicate alla lettura stilistica dei Malavoglia di Leo Spitzer, alla tesi celebre di un erlebte Rede corale (pp.168-170), capaci di rimettere in discussione la natura del cosiddetto narratore impersonale e la stessa funzione narrante. Sotto questo profilo, l’esito più significativo del percorso di Castellana sembra risiedere non solo nella formulazione di «qualche ipotesi storiografica più concreta, con effetti di qualche rilievo sulla periodizzazione letteraria» (p.15), ma anche (forse soprattutto) nella proposta in sé di un itinerario di indagine che esula dall’idea stereotipata della monografia e propone «il Verga maggiore» come terreno paradigmatico di prova di strumenti di analisi del fatto letterario non necessariamente nuovi, ma diversamente orientati; un terreno di cui lo scrupolo del filologo e del teorico riconosce e dichiara le peculiarità, le specificità, ma che è suscettibile di diventare, mutatis mutandis, un modello replicabile. E questo è un altro aspetto interessante della proposta: l’individuazione di quegli elementi che consentano di fare di Verga un paradigma. Nella vulgata, anche scolastica (ma non solo: più volte Castellana sottolinea la permanenza pure negli studi scientifici di automatismi critici e interpretativi perfino a dispetto dei dati testuali), Verga è paradigma del verismo, oppure di una certa tecnica narrativa (la impersonalità, di cui sopra) o ancora di certi temi (destino delle masse popolari, emergere della borghesia, declino della aristocrazia – tutti, peraltro, messi seriamente in discussione, soprattutto quest’ultimo, cfr. p.191). Qui invece è significativo proprio lo spostamento dei criteri in base ai quali un’opera o un autore possono diventare paradigmatici. Se già Luperini, sulla scorta di Homi Bhabha, aveva individuato proprio nel Verga maggiore «il terzo spazio dei vinti», in cui «vinti ed esclusi possano trovare una voce ed esprimere i loro orizzonti di senso» (Carocci, 2019), adesso Castellana afferma con forza come «una lettura antropologica di Verga, vale a dire dell’autore che per primo ha dato voce alle vittime del gigantesco processo di modernizzazione che sconvolse l’Italia tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del secolo seguente» significa «riportare al centro del dibattito letterario l’alterità, i livelli di cultura, la marginalità e l’esclusione sociale e, con questa, anche i conflitti di classe» (pp.18-19). Quella «svolta antropologica», che in letteratura comincia a interessare gli intellettuali sul finire degli anni Settanta dell’Ottocento e che in parte significativamente coincide con la svolta verista di Verga ma anche di Capuana e di De Roberto (anche gli ultimi due oggetto di attenzione particolare da parte di Castellana, soprattutto in relazione alle loro opere maggiori, rispettivamente Il marchese di Roccaverdina e I Viceré), è individuata come punto di avvio di «una storia lunga quasi un secolo»:
Si tratta di circa ottant’anni di storia letteraria che potremmo tentare di rileggere in quest’ottica: chi volesse farlo dovrebbe includere nella sua ricerca, oltre al Verga verista, anche il Capuana delle fiabe e di Scurpiddu; poi la generazione di d’Annunzio, di Pirandello e di Grazia Deledda e quella di Ignazio Silone, Cesare Pavese, Carlo Levi, per poi arrivare agli anni Cinquanta di Rocco Scotellaro, del Pasolini del Canzoniere italiano (1955) e del Calvino delle Fiabe italiane (1956): l’avvento del neocapitalismo, l’inurbamento e lo spopolamento delle campagne, la “morte dell’ethnos” e la pasoliniana “mutazione antropologica” cambiano profondamente, in questi anni, il panorama italiano (…) A partire dagli anni Sessanta il rapporto tra letteratura e antropologia è profondamente mutato. (…) la sensibilità etnologica degli scrittori ha cominciato a rivolgersi altrove, sempre meno verso un’alterità diastratica, ormai cancellata dall’omologazione, e sempre più in direzione di quella alterità diatopica rappresentata dalle culture extraeuropee. (…) Infine, un fenomeno notevole degli ultimi anni è stato l’emergere di una letteratura operaia prodotta, per la prima volta, da soggetti di estrazione popolare, che percepiscono e rappresentano se stessi come membri di una cultura “altra” rispetto a quella del ceto borghese: di qui il rilevo antropologico di queste scritture che gettano uno sguardo straniante sulla società (…). Proprio alla nuova letteratura working class (…) Giovanni Verga, il primo autore ad avere abbandonato ogni atteggiamento populista in letteratura, potrebbe forse insegnare qualcosa. (pp.51-52)
Un modello teorico di critica antropologica
È lo stesso Castellana a sottrarre la critica letteraria antropologica non solo alla commistione con la antropologia del testo letterario (p.34, fondamentale), ma anche al sospetto di essere «una delle tante varianti della critica tematica» (p.25), indicandone con chiarezza i due rischi principali:
a) ridurre il testo a un mero documento (soprattutto quando il suo valore documentario dipende, in realtà, dalle sue fonti, come nel caso di molti autori moderni, a partire da Verga); b) restringere l’analisi ai soli aspetti linguistico-filologici. In entrambi i casi, infatti, quella che viene persa di vista è la dimensione propriamente letteraria (cioè formale) del testo. (p.35)
Ripercorrendo con acume la lezione di alcuni studiosi che hanno gettato le basi della moderna critica antropologica (in particolare Northrop Frye e Michail Bachtin; ma, sulla loro scia, non mancano suggerimenti preziosi che aprono a letture meno frequentate, come quella di Eleazar Meletinskij o Massimo Bonafin, cfr. pp.35-40), Castellana problematizza le esperienze antropologiche legate al mondo antico che hanno riscosso maggiore prestigio internazionale: per intenderci, la linea che va dalla “scuola francese” (più legata alla componente religiosa e filosofica), guidata da Jean-Pierre Vernant, per gli studi sulla classicità greca, alla “scuola italiana” (più attenta ai depositi, soprattutto nella lingua, di una cultura fatta di miti, riti, consuetudini), per gli studi sulla latinità che hanno il loro portavoce più autorevole in Maurizio Bettini (una linea, peraltro, ci sentiamo di aggiungere, lungo la quale si è mosso anche il rinnovamento della manualistica scolastica). Proprio da Bettini Castellana mutua uno dei concetti-chiave del libro, cioè «la distinzione tra rappresentazione “emica” e “etica”» (p.27), che contrappone la pretesa conoscitiva universalizzante della postura critica eticamente orientata all’atteggiamento partecipe di chi indaga e descrive una cultura assumendone come propri i valori di riferimento. Si pongono così le condizioni per ripensare a due accessi ormai irrinunciabili all’universo verghiano, i concetti di straniamento (Luperini, 2009) e di regressione (Baldi, 2012). Tuttavia «l’antropologia del mondo antico ha una giustificazione inattaccabile quando usa il testo come documento: le testimonianze più rilevanti della cultura romana sono, in effetti, di tipo letterario, ed è solo in talune opere letterarie, per esempio, che possiamo reperire descrizioni di riti e pratiche culturali non altrimenti attestati» (p.29); e questo fa sì che venga privilegiata l’analisi lessicale ed etimologica rispetto allo studio delle strutture e (lo abbiamo letto poco sopra) venga persa di vista la dimensione propriamente letteraria (cioè formale) del testo – che invece è ciò che scongiura ogni possibile rischio di “abuso tematico”. Per tale ragione, Castellana inaugura (viceversa) una traiettoria di ricognizione formale che interessa tutti i dispositivi di funzionamento del testo narrativo, non con l’intenzione di farne un catalogo, quanto di mostrarne il contributo imprescindibile nella costruzione del significato complessivo di un’opera e nella rappresentazione delle modalità in cui il pensiero stesso si costruisce e si organizza: dal narratore («pluripotenziale», p.109, o presunto «impersonale», p.172) nel suo rapporto dialettico e non facile con l’autore e con il lettore (p.108) al sistema dei personaggi; da alcuni criptotemi (il «pathos della distanza», le «riflessioni metanarrative», pp.108-109, i «capri espiatori», pp.71-86, pagine molte intense dedicate a Rosso Malpelo e a La lupa) alla «grammatica della descrizione» (p.189) fino ad arrivare alla organizzazione complessiva della materia narrata all’interno dei romanzi maggiori di Verga o delle sue raccolte di novelle. Per questa via Castellana (che ha al suo attivo studi rilevanti sulle forme e sui generi della letteratura) [1] consegue un altro risultato non trascurabile: se non temessimo la forzatura, diremmo, sfruttando il termine caro alla critica verghiana, che regredisce anche lui, mettendo in sordina la propria voce e lasciando emergere le strutture narrative, i meccanismi delle opere di cui si occupa. Può consentirsi così, davvero regredendo dietro i dati testuali, di avanzare ipotesi critiche dense di implicazioni e davvero suscettibili di sviluppi, come «riscrivere la storia della novella moderna non dall’alto (dal punto di vista delle raccolte) come si è fatto finora, ma dal basso (da quello dell’editoria periodica)» (p.56) o come superare la tesi steineriana della morte della tragedia soltanto indietreggiando rispetto alla evidenza del «tragico senza forma» del Mastro don Gesualdo (pp.197-217, letteralmente tra le più avvincenti del libro), che «come Edipo ignora di essere lui stesso la causa della propria rovina» (p.211).
Lo spazio sociale
La ricognizione attenta dei contenuti come degli aspetti formali del testo agevola l’accesso a quello che, come abbiamo visto in apertura, Castellana definisce un secondo possibile livello della critica antropologica, cioè lo spazio sociale:
Lo spazio sociale, tradotto in termini letterari, è l’insieme delle possibilità concrete che regolano i rapporti tra i personaggi (…): è uno spazio spesso descrivibile e visualizzabile (…), ma è soprattutto un campo di forze attraversato da tensioni e delimitato dai concetti-chiave di “capitale simbolico” e di “capitale economico”. Anche nell’opera di Verga, che il senso comune identifica troppo spesso con una visione rozzamente materialistica dell’esistenza, incentrata in modo esclusivo sulla “roba”, l’asse cartesiano del capitale simbolico (vale a dire l’insieme delle pratiche d’onore, l’agire nel rispetto delle tradizioni, l’etica compendiata nel «motto degli antichi») influisce sulle traiettorie dei personaggi non meno di quello economico in senso stretto. (p.16)
Principio ispiratore e supporto interpretativo costante, «la dialettica bourdieusiana tra capitale simbolico e capitale economico» (p.183) interviene a illuminare di una luce meno ovvia e compiacente i luoghi e gli ambienti descritti nei romanzi verghiani maggiori (soprattutto nel Mastro) e le azioni dei personaggi che in quegli spazi si muovono operando scelte e istaurando, o recidendo, relazioni e rapporti tra loro e tra loro e le cose, tra loro e la Storia. Così si sfatano alcuni persistenti luoghi comuni (per esempio che padron ‘Ntoni contragga l’affare dei lupini per migliorare la propria condizione sociale, mentre è al matrimonio di Mena che guarda il patriarca e alla tutela, attraverso di esso, dei valori della comunità di appartenenza, p.143); così si spiegano alcune apparenti incongruenze (per esempio il rifiuto di comare Venera Zuppidda di dare la figlia Barbara in moglie al brigadiere don Michele, provvisto, sì, di stipendio fisso, ma mangiapane a ufo, estraneo alla comunità, pp.145-148); così diventano trasparenti per il lettore quelle «regole dell’economia sociale» che restano invece, fino alla fine, oscure per mastro Gesualdo, pur se divenuto don (pp.181-189). Ma il ricorso alla dialettica di Bourdieu diventa dirimente non solo al momento di sciogliere alcuni nodi narrativi che talvolta Verga sembra proprio voler intrecciare per il lettore, ma anche come strumento per ripensare all’intero progetto del “ciclo dei Vinti”, così come emerge dalla famosa prefazione del 1881:
(…) nella prefazione ai Malavoglia, Verga afferma che i primi due romanzi avrebbero dovuto trattare, rispettivamente, la «lotta per i bisogni materiali» e l’«avidità di ricchezza», mentre i successivi tre si sarebbero invece incaricati di rappresentare la «vanità aristocratica» della Duchessa di Leyra, l’«ambizione» politica dell’onorevole Scipioni e l’ambizione ancora diversa (quella artistica) dell’uomo di lusso. Visto così, nella dimensione progettuale (…) il rapporto che si viene a creare tra l’economico in senso stretto e il simbolico è in misura schiacciante favorevole al secondo. (…) è un caso che l’ultimo tassello del ciclo romanzesco avrebbe dovuto essere il romanzo dell’«uomo di lusso»? Il suo protagonista (come si legge in uno schema preparatorio) avrebbe dovuto essere (…) un nobile decaduto, dal 1843 esule a Firenze, scrittore, giornalista, poeta: figura emblematica (e in parte autobiografica) in cui il capitale simbolico nobiliare si converte in capitale culturale, in capacità creativa e in ambizione (o velleità) artistica. Intuizione geniale, quella di Verga, che dell’economia del simbolico aveva intuito l’ultima trasformazione: quella, per noi decisiva, della grande macchina della produzione culturale moderna. (pp.195-196)
Ci limitiamo a questa sottolineatura che, da sola, ci obbliga a riposizionare la lezione di Verga ben al di là non solo del regionalismo più vieto, ma anche degli stilemi e dei temi del verismo di maniera.
[1] Ci si riferisce in particolare agli interventi presenti nei volumi Le forme brevi della narrativa (Carocci, 2019) e Fiction e non fiction (Carocci, 2021).
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