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diretto da Romano Luperini

Su Stalingrado di Vasilij Grossman

Un percorso tormentato

Cominciato all’inizio della Seconda guerra mondiale e finito di scrivere nel 1946, Stalingrado uscì a puntate nel 1952 sulla rivista russa Novyj mir e poi nel 1954 in volume, grazie alla mediazione con la censura stalinista di Maksim Gor’kij, che all’epoca godeva di alcuni privilegi grazie alla sua posizione nella nomenclatura. Nei vari passaggi subì numerosi tagli a seconda del discontinuo rapporto con gli editori-censori di regime, per poi finalmente essere esportato in Occidente clandestinamente negli anni Settanta e pubblicato in russo in Svizzera. Il doloroso percorso, che costerà numerose persecuzioni all’autore a causa delle sue posizioni contro il regime staliniano, e della sua appartenenza alla minoranza ebraica, sono descritti nell’interessante Postfazione di Robert Chandler, lo studioso inglese a cui si deve l’attuale pubblicazione, che ha ricostruito il testo originale di Grossman per la traduzione italiana (cosa che manca per Vita e destino, infatti l’originale è stato solo recentemente sdoganato dagli archivi dei servizi segreti russi). Queste traversie spiegano anche come mai sia uscito prima in Occidente e in italiano il secondo volume della «dilogia», Vita e destino appunto, scritto successivamente e considerato il capolavoro di Grossman.  L’attuale edizione di Adelphi ha, dunque, un suo particolare pregio ricostruttivo, che permette al lettore la conoscenza del testo come uscì dalla penna dello scrittore russo. Potremmo anche parlare di una trilogia se aggiungessimo ai due poderosi romanzi l’ultimo libro di Grossman, E tutto scorre, scritto tra il 1955 e il 1963 e pubblicato in Occidente nel 1970, che viene considerato il suo testamento.  I due primi volumi hanno un’unità di argomento, la battaglia di Stalingrado, ma il terzo trae sicuramente le somme della critica radicale di Grossman allo stalinismo, che risale fino a Lenin e che non gli costò la vita solo grazie alla morte precoce di Stalin. Da una parte della critica occidentale Stalingrado è considerato un “romanzone” tutto interno al realismo socialista. Tale valutazione è sicuramente un errore. Senza dubbio il romanzo segue i criteri del realismo, ma ha poco a che spartire con i caratteri semplificati del realismo sovietico, per cui i personaggi sono statici e opachi. Lo scrittore russo tratteggia tutti i personaggi, persino Hitler e Mussolini, nei capitoli iniziali (durante l’incontro di Salisburgo, in cui viene decisa l’aggressione all’URSS), mettendone in luce, con uno sguardo sempre compassionevole, l’insita ambivalenza, le oscure contraddizioni, i difetti, ma anche le virtù, la ferocia e la fragile umanità allo stesso tempo.

Un singolare romanzo storico

Il romanzo è di tipo storico, e racconta l’epica ritirata dal Don e poi fino al Volga, che rappresenta la strategia di guerra russa contro l’invasione. È quanto aveva fatto centoventi anni prima il generale zarista Kutuzov per sconfiggere Napoleone, così come ha narrato Tolstoj in Guerra e pace, qui esplicitamente citato. Il romanzo di Tolstoj è la lettura preferita dei generali (e di Grossman corrispondente di guerra) durante quella ritirata verso est, finché, giunti a Stalingrado, la riva destra del Volga diventa il finis terrae, la linea oltre la quale non si può arretrare. Secondo Chandler la reazione patriottica del popolo russo è, per Grossman, spontanea, ma va a coincidere con l’ordine draconiano di Stalin nel 1942: «Non un passo indietro». Questo riflette una saldatura tra il popolo russo e il suo dittatore, che è l’erede perverso di una tradizione gloriosa, di cui rimane ancora oggi traccia nella “guerra patriottica”, intrecciata con il nazionalismo oggi dominante. A Stalingrado e nelle sue retrovie, oltre il Volga verso il Caucaso,  sono concentrate le grandi fabbriche di acciaio, di armi e di cingolati, le quali reggono lo sforzo bellico e permettono ai sovietici di resistere alla fanteria motorizzata e alla divisioni corazzate di Hitler, che aveva deciso si arrivare a Stalingrado con un blitzkrieg di otto settimane. Il piano si infrange contro la resistenza dei sovietici. È ormai universalmente condiviso il giudizio storico che nella battaglia di Stalingrado si è deciso il destino della Seconda guerra mondiale e l’equilibrio planetario successivo, che oggi si sta cercando di scardinare pericolosamente. Nel romanzo, Grossman, che era di origine ucraina e aveva studiato a Kiev, spiega in un’epoca non sospetta la paura tutta russa dell’accerchiamento, dì cui si è discusso vanamente negli ultimi mesi. I russi non si sentono sicuri fin dalle «epoche delle più tremende invasioni straniere [quando] i confini dello Stato erano così striminziti che in una notte un messo poteva galoppare dal Cremlino alla frontiera» e vedere i tartari, lo si capisce soprattutto considerando che la strategia russa della guerra di difesa è attrarre l’invasore sempre più profondamente all’interno dello sterminato territorio fino a rendere impossibile ogni collegamento. Grossman, come in tutti i romanzi storici, mescola personaggi reali e fittizi (nell’appendice della presente edizione vi è un lungo elenco dei personaggi distinti tra reali e fittizi, una massa enorme di uomini e donne che egli estraeva dai suoi nutriti taccuini di giornalista di guerra).  Claudio Piersanti ha ricordato recentemente la storia della sua potente «memoria visiva» che gli permetteva di attingere insieme ai taccuini ad un archivio personale immenso. Questa abilità gli ha consentito di scrivere non solo un romanzo storico, incentrato sulla «spietata verità della guerra», ma anche un vero e proprio racconto biografico, corale, di cui è protagonista un popolo intero (Grossman cita anche i poemi omerici, Stalingrado, però, non è un poema di eroi singoli, ma è invece modernamente polifonico). In questo sta l’adesione di Grossman all’epica della costruzione del socialismo. Tutto sembra partecipare alla lotta del popolo sovietico, compresa la natura e gli animali della steppa, perfino i serpenti (alla loro fuga di fronte all’invasore sono dedicati diversi passaggi).

Piccoli grandi personaggi

La tecnica narrativa usata per tessere l’enorme tela del romanzo procede per nuclei, per gruppi di capitoli intorno ad un personaggio. Il primo nucleo si aggruma intorno alla figura di Pëter Vavilov, contadino in un kolkoz, ligio ai propri doveri verso la collettività: egli sa da subito che la possibilità di tornare vivo dalla guerra è minima e si dà da fare per sistemare le sue faccende familiari e collettive prima di partire. La figura rende bene l’idea della mobilitazione popolare di chi sa che non può evitare il proprio destino, e che deve dunque compiere il proprio dovere verso la propria terra, la propria famiglia e i propri principi di libertà, nonostante sia così legato alla vita da non averne alcuna voglia perché «un contadino che lascia il suo villaggio per la guerra non sogna medaglie e gloria, sa che probabilmente sta per morire» («[…] sentì, non con la mente né con il pensiero, ma con gli occhi, la pelle e le ossa, tutta la forza malvagia di un gorgo crudele cui nulla importava di lui, di ciò che amava e voleva. Provò l’orrore che deve provare un pezzo di legno quando di colpo capisce che non sta scivolando lungo rive più o meno alte e frondose per sua volontà, ma perché spinto dalla forza impetuosa e inarginabile dell’acqua»). Sono i temi che animeranno appunto Vita e destino. Ritroveremo Vavilov a capitanare l’estrema difesa della stazione di Stalingrado, pur non avendo alcun grado militare. Tale epica difesa è stata paragonata ad una pagina dell’Iliade, con la differenza che qui non ci sono eroi e semidei, solo uomini comuni. Il modo in cui Grossman descrive il rapporto di Vavilov con la propria terra, destinata a sfamare il popolo, ha qualcosa di sacro. Dalla Postfazione di Chandler apprendiamo che Vavilov è il nome di un biologo russo, vittima delle purghe staliniane, la cui «ambizione [era] di porre fine alla fame nel mondo». Grossman, nonostante i rischi che correva con la censura del regime, mediante l’onomastica dei personaggi, allude a vicende di opposizione antistalinista. Un altro grande nucleo narrativo è dedicato alla storia della famiglia di Viktor Pavlovič Štrum, il fisico teorico che contribuisce a far crescere il piano industriale indispensabile per vincere la guerra. Anche questo nome è preso da quello di un fisico delle particelle, conosciuto da Grossman a Kiev, vittima di Stalin. Intorno a lui si dipana la vicenda della sua famiglia allargata, parenti e amici, in particolare il commissario politico dell’Armata Rossa, Krymov, marito separato della figlia Zenja, che riesce a condurre dietro le linee tedesche una colonna di duecento sbandati in una peregrinazione a piedi di centinaia di chilometri. In calce al libro troviamo la cartina degli spostamenti.

Una tecnica allegorica

Sul versante dello stile narrativo troviamo nel romanzo tracce della tecnica figurale, classica, dell’allegoria. Ad esempio, nel descrivere il rapporto del generale tedesco Franz Weller, effettivamente esistito, con un commissario sovietico prigioniero, Grossman costruisce la figura dell’ascia che non riesce a divellere un tronco conficcato nella «terra nera». Weller passeggia avanti e indietro nella sua stanza per far fronte all’«odio cupo e durissimo» del commissario. Un odio duro quanto il tronco nodoso. Un’asse del pavimento scricchiola ad ogni passaggio. Weller ordina all’ufficiale di servizio di metterci un tappeto, poi chiede al sottoposto quale sia l’ordine del Fuhrer; l’ufficiale con un po’ di sforzo riesce a capire quale risposta Weller si aspetta da lui e replica deciso in tedesco: «Stalingrado deve cadere». Allora: «Weller scoppiò a ridere e fece qualche passo sul tappeto. La tavola cigolò di nuovo, ostinata, rabbiosa». Ancora una volta il legno resiste con rabbia ostinata, quasi umana. Tutto nel romanzo si ribella alla tracotanza degli invasori nazisti e, nonostante i dubbi e le critiche (più o meno evidenti) che Grossman rivolge al regime stalinista, rimane la risposta tellurica di un popolo che difende se stesso.

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