Perché leggere Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi
Perché interseca più generi letterari
C’era una volta…
–Un re! – diranno subito i miei piccoli lettori.
No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno.
L’incipit fiabesco viene subito smentito dalla voce narrante che a volte si sovrappone a quella dell’autore (questo è uno dei casi in cui dialoga col pubblico), a volte tende a riportare le vicende in modo più o meno impersonale. Sono gli anni del Verismo che Collodi conosceva bene, anche attraverso la declinazione regionale toscana di Renato Fucini, che negli stessi anni pubblicava Le veglie di Neri, raccolta di novelle debitrici di quella cultura orale del racconto che hanno ispirato sicuramente la scrittura di Collodi.
L’inizio del romanzo, inoltre, ci introduce alla natura ‘polimorfa’ del testo collodiano. La fiaba scompare e rimane il controcanto ironico, che a volte sconfina apertamente nella parodia. Ma, prima di scomparire, lascia pesanti eredità: gli elementi fantastici, specialmente un bestiario di prim’ordine, composto da grilli parlanti, gatti e volpi, ciuchi e cani, colombi viaggiatori e pulcini irriverenti («Mille grazie,signor Pinocchio, d’avermi risparmiata la fatica di rompere il guscio. Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa», cap. V), e chi più ne ha più ne metta. Gli elementi fantastici, anche se spesso presenti nel testo, non indeboliscono tuttavia l’andamento realistico del romanzo, costituendone al contrario un contrappunto necessario nella partitura collodiana. Allo stesso modo è frequente il ricorso alla scrittura teatrale: fitti dialoghi, monologhi e a parte, cosa che non ci stupisce in un autore che aveva, fra i tanti generi letterari praticati, frequentato con discreto successo di pubblico (ma non di critica) anche quello teatrale, specie fra gli anni ’50 e ’60 del secolo XIX.
Inoltre, vale la pena soffermarsi sul cambio di titolo (da Storia di un burattino a Le avventure di Pinocchio). Il termine “storia” con cui Collodi cataloga la prima stesura del romanzo fa pensare a una tecnica di scrittura in parte, ma non del tutto, diversa da quella che poi elaborerà con l’ampliamento del romanzo stesso e la sua trasformazione in “avventura”. Ce lo dice, nella prefazione alla sua opera Macchiette, lo stesso Collodi quando spiega bene il metodo di scrittura adoperato, che è abbastanza facile reperire in filigrana dietro tutto il romanzo (più evidente nella seconda parte dal cap. XVI in avanti):
Moltissimi libri, in giornata, si fanno così: vale a dire, si pigliano dei fogli scritti, stampati o scarabocchiati pur che sia, si numerano uno dopo l’altro come vengono vengono, e se non vogliono stare uniti e d’accordo fra loro, allora con un filo di refe si cuciono insieme: e il libro è fatto. […] quel filo di refe, in parecchi libri, è il vero nesso logico che serve a legare i primi capitoli cogli ultimi, e a mantenersi intera l’unità di concetto dal frontespizio alla fine
Perché è un libro per adulti
Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi, pagamela bene per farmi venir la voglia di seguitarla. (C. Collodi, Lettera al redattore Biagi, 1881)
Ha sempre nuociuto all’ingresso nelle scuole superiori del romanzo scritto da Collodi fra il 1881 e il 1883 il pregiudizio che sia un libro per ragazzi, perché tale lo volle il suo editore, perché comparve per la prima volta a puntate sul “Giornale per i bambini”, perché a questo ruolo lo ha confinato un immaginario, quello disneyano, assai duro a morire nonostante rivisitazioni cinematografiche più “mature”, dal punto di vista grafico (il Pinocchio di Benigni chiaramente ispirato alla straordinaria graphic novel di Roberto Innocenti) e contenutistico, come il recente Pinocchio di Matteo Garrone, che ha saputo evidenziare meglio gli aspetti di Unheimlich presenti nel testo collodiano. È adesso tempo di mandare Pinocchio a scuola, ma direttamente alle superiori, e mettere in mano il libro ai ragazzi e alle ragazze che frequentano le nostre aule liceali, con buona pace di qualche manuale che ancora lo relega nella categoria “letteratura per ragazzi”; e di chiarire una volta per tutte che il termine fiorentino bambinata, adoperato da Collodi nella lettera al redattore Biagi, non si riferisce alla finalità (roba per bambini), ma alla modalità della scrittura: allude al fatto che nello scriverla Collodi si era divertito come un bambino.
Perché è l’antesignano delle serie televisive
Tutt’a un tratto venne una terribile ondata, e la barca sparì.
Aspettarono che la barca tornasse a galla: ma la barca non si vide più tornare.
— Pover’uomo! — dissero allora i pescatori, erano raccolti sulla spiaggia: e brontolando sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle loro case.
Quand’ecco che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:
— Voglio salvare il mio babbo!―
Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava come un pesce. Ora si vedeva sparire sott’acqua, portato dall’impeto dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima distanza dalla terra. Alla fine lo persero d’occhio, non lo videro più.
— Povero ragazzo! — dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, tornarono alle loro case. (cap. XXIII)
La scrittura di Collodi obbedisce a un principio di serialità che fa di Pinocchio un perfetto anticipatore di quelle serie televisive che oggi vanno per la maggiore, e che Collodi condivideva con quegli autori di feuilleton che aveva letto durante la sua fase di apprendistato letterario. Ne sono indizio: la brevità dei capitoli, la frequenza dei colpi di scena, la continua posposizione del finale, persino un linguaggio assai mobile e ricco di dialoghi, con frequenti concessioni all’oralità:
– Povero grullerello! Ma non sai che facendo così, diventerai da grande un bellissimo somaro e che tutti si piglieranno gioco di te?
– Chetati, Grillaccio del malaugurio! – gridò Pinocchio (cap. IV).
Perché l’ombra della morte rivela il perturbante
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un’immagine di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse dall’altro mondo:
— In questa casa non c’è nessuno; sono tutti morti.
— Aprimi almeno tu! — gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
— Sono morta anch’io.
— Morta? e allora che cosa fai costì alla finestra?
— Aspetto la bara che venga a portarmi via. –
Appena detto così, la Bambina disparve e la finestra si richiuse senza far rumore. (cap. XV)
Fu Giovanni Jervis (“Prefazione” a Le avventure di Pinocchio, Einaudi,1968) a individuare per primo la presenza del “disturbante” nel racconto collodiano, così come l’aspetto caratteriale del burattino. Com’è noto, la stesura originaria del romanzo (il cui titolo era Storia di un burattino:e “storia” fa pensare a un inizio e a una fine) si concludeva al cap. XV con la morte di Pinocchio. Tutto il capitolo è dominato da una atmosfera da romanzo nero che allontana, con uno scarto improvviso, il filo del racconto dal tono più leggero dei capitoli precedenti. A parte gli ovvii richiami alla pagina manzoniana della madre di Cecilia, basterebbe questo esempio per capire che la scrittura di Collodi non riesce a fare a meno della sua complessità neanche in un’opera destinata in primis a un pubblico infantile. Collodi è uno scrittore che sa cogliere il lato inquietante delle cose e sa trasmetterlo a noi lettori moderni in maniera assai naturale, come nel finale, quando compare quel «grosso burattino appoggiato a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni e le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo se stava ritto» (cap. XXXVI). L’ombra dell’Unheimlich irrompe così anche nell’apparente lieto fine che dovrebbe porre un termine alle continue metamorfosi del personaggio principale (ma sarà veramente così?).
Perché diventa archetipo elaborando tanti archetipi antropologico-folkloristici
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un’allegrezza così grande e così inaspettata, che ci mancò un ètte non cadesse in delirio. Voleva ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente gli riuscì di cacciar fuori un grido di gioia, e spalancando le braccia e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
— Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio più, mai più, mai più! (cap. XXXV)
La Spannung di tutte le peripezie dell’eroe-cercatore Pinocchio (che tale è costruito da Collodi che pesca a piene mani nel repertorio del mito classico e del folklore nazionale) avviene nel penultimo capitolo, col ritrovamento del povero Geppetto nel ventre del Pescecane. È uno dei pochi casi in cui Collodi adopera la suspence già nella rubrica che, anziché essere riassuntiva come tutte le altre, crea nel lettore un clima di attesa («Pinocchio ritrova in corpo al Pesce-cane…. chi ritrova? Leggete questo capitolo e lo saprete»). Il capitolo è importante anche perché illustra molto bene la natura complessa del testo collodiano. Dietro l’apparente bambinata, lo scrittore fiorentino riesce a celare secoli di mitologia, antropologia e folklore, offrendo a noi lettori la possibilità di intervenire sulle numerose chiavi di lettura tematiche dell’opera, speculari ai numerosi registri ed espedienti di genere presenti nel romanzo. C’è tutto in questo ritrovamento: il tema della quête, il motivo di ascendenza biblico-ariostesca del mostro marino, la paura e l’attrazione verso l’elemento acquatico che, com’è stato ampiamente dimostrato, annulla la nascita per “partenogenesi xerofila” del nostro protagonista da un pezzo di legno secco. E c’è anche la redenzione, necessaria in qualsiasi bildungsroman (sia pure così particolare come il nostro), di entrambi i protagonisti: Geppetto, che sconta il peccato originale di aver voluto un figlio per farlo esibire e guadagnarci sopra, e Pinocchio, che da questo momento in poi diventerà quel bambino ubbidiente che il Grillo parlante gli aveva proposto come modello di vita sana. Tuttavia Collodi non è De Amicis e Le avventure di Pinocchio non sono il libro Cuore, e così la redenzione, impossibile per Franti, lo è per Pinocchio. Siamo in presenza di un nuovo paradigma di italianità, a costruire il quale Collodi contribuisce così come altri scrittori di quel clima post-unitario quando, per parafrasare la famosa frase di D’Azeglio, “fatta l’Italia, bisognava fare gli Italiani”. E sulla patente di italianità – lessicale, comportamentale, antropologica – del burattino collodiano credo che nessuno di noi abbia dubbi.
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