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diretto da Romano Luperini

Le «celestiali lungaggini» di Javier Marías

Javier Marías sembrava già in vita uno scrittore classico. Scriveva come se respirasse la stessa aria dei grandi francesi, russi, inglesi dell’Ottocento, o dei grandi modernisti che traduceva, o, ancora, come se gli fossero concesse le stesse possibilità di esplorazione della molteplicità del mondo e del linguaggio che aveva Shakespeare, autore onnipresente nelle sue opere, tra titoli presi in prestito dai suoi versi (Domani nella battaglia pensa a me, Un cuore così bianco) e citazioni, che mai compaiono nella forma della citazione-castone, ma diventano veri e propri inneschi a partire dai quali si sviluppano meditazioni vertiginose, insieme umanissime e metafisiche: come con l’hereafter macbethiano de Gli innamoramenti.

Marías aveva ancora una profonda fiducia nella letteratura come forma di conoscenza. Per perseguire questo scopo, usava uno strumento, come sappiamo bene, perfetto per polifonia e capacità di rielaborare i materiali più vari, il romanzo. Lo usava però in forme che mi paiono molto lontane da quelle oggi prevalenti del puro storytelling, come anche dalle forme più sperimentali che ibridano il romanzo con il saggio, o dalle varie contaminazioni documentarie e forme postmoderne di realismo (autofiction, non-fiction novel). La pagina di Marías è densa, minuziosa, analitica; procede per tiri mentali aggiustati, senza mai cancellare le traiettorie precedenti. Ma è, intimamente, pagina di grande, grandissimo romanzo: romanzo d’antan, quando questo genere sapeva produrre cognizione del mondo, verità, a partire da una pacifica “finzionalità”.

Anche in ragione del fatto che il narratore di Marías è interno, sempre a metà strada tra narratore protagonista e narratore testimone, i fatti raccontati sono sempre immersi nel fluire dei suoi pensieri, avvolti da un alone di ipotesi, alternative, eventualità che, se certamente rallentano il puro fluire diegetico, dall’altro lato fanno per così dire lievitare la narrazione, che diventa strumento euristico, limpida meditazione sulla vita, la morte, il dolore, il tempo. C’è un’espressione che Robert Schumann usò per descrivere la musica di Franz Schubert: «celestiali lungaggini». Credo che sia un’immagine perfetta per descrivere anche la prosa di Marías. E s’intende che, in quanto celestiali, quelle lungaggini non annoiano mai, mai perdono il ritmo o diventano semplice zeppa o zavorra intellettualistica.

Un suo topos, che gli consentiva di moltiplicare le porte scorrevoli delle ipotesi narrative, vede il narratore spiare altri personaggi dentro un’abitazione o un’altra stanza (ad esempio in Così ha inizio il male) o origliare quanto avviene al di là di una porta o di una parete, immaginando, dai pochi brani catturati, il dialogo cui si è assenti (avviene ad esempio ne Gli innamoramenti e in Un cuore così bianco). Ma in Tutte le anime (ambientato nell’università di Oxford) Marías si spinge ancora oltre, e sfruttando la distinzione semantica che c’è in inglese tra origliare intenzionalmente (to eavesdrop) e ascoltare inavvertitamente (to overhear), scrive pagine di deliziosa analisi dell’effetto che questi due atti, così diversi, possono produrre sull’ascoltatore e sulla storia da lui ascoltata-inventata.

La dimensione riflessiva era incorporata nella narrazione di Marías: la compattezza formale della sua pagina era assoluta. La misura classica era evidentissima nello stile: sostenuto, fondato su una sintassi sviluppata in lunghissime diramazioni, pulviscolare nella capacità di captazione di infinitesimali sottigliezze esistenziali. Si comprende benissimo che la sua verbosità, il suo sottrarsi all’uso della parola scritta come mero indice di una realtà rappresentata, come capita oggi in infinite “storie” (il ben noto “show, dont’ tell” che altro è se non la proibizione, un po’ ricattatoria, di inserire troppo linguaggio tra parola e cosa?) sono sorretti da una non scalfita fiducia, direi umanistica, nel linguaggio. Javier Marías era convinto che «la letteratura sia anche una forma di pensiero, e una delle principali, e non credo che il mondo vi possa rinunciare […]. Ci sono cose che conosciamo solo perché ce le ha mostrate la letteratura, o ci ha consentito di prenderne coscienza e di riconoscerle».

È per questa fiducia che la letteratura è per Marías altrettanto verosimile della realtà, per cui in nessun altro come in lui la dimensione della effettualità e quella della possibilità possono stare insieme, perfettamente compossibili. Nei suoi romanzi i fatti avvengono così e così, ma sarebbero potuti accadere altrimenti. E questo altrimenti, però, è portato sulla pagina: perché escludere le alternative passate non realizzatesi? o le anticipazioni sul futuro? Esse sono geneticamente inscritte nel racconto e capaci di modificarlo sottilmente, di modificare sottilmente il presente, per il semplice fatto di essere linguisticamente evocate.

Non è un caso che uno dei temi più ossessivamente ricorrenti dell’opera di Marías sia il tempo; quel tempo che è al centro della poesia spagnola nel suo secolo d’oro, il Seicento; quel tempo che, scriveva una delle più grandi filosofe del secolo scorso, la connazionale Maria Zambrano, è il tema della filosofia novecentesca: il grande mistero non da risolvere, ma da interrogare all’infinito, perché solo così possiamo incrementare la sostanza delle nostre vite, che altrimenti scivolerebbero via in pura fattualità. Come ha scritto Marías, queste vite non ci è dato illuminarle o rischiararle, solo percepirne l’immensità e la complessità: «è come accendere una debole fiammella che perlomeno ci consenta di vedere che quella zona è lì, e di non dimenticarlo».

Credo che possa bastare un solo brano – mille altri altrettanto eloquenti potrebbero sostituirlo – per esemplificare tutto questo. Lo traggo da Domani nella battaglia pensa a me (1994), il suo romanzo più famoso e forse il suo capolavoro. Pochi elementi per contestualizzarlo: il protagonista, Victor, immagina i pensieri di Marta, la donna sposata con cui stava trascorrendo la notte e che gli è morta improvvisamente tra le braccia. Victor, che si attarda a casa della defunta non sapendo che fare (anche perché il figlio di lei, piccolissimo, dorme nell’altra stanza), ha modo di sentire, alla segreteria telefonica, la voce di un altro uomo e capisce di non essere stato l’amante esclusivo di Marta. Marías, secondo il suo costume, crea una triangolazione tra i mondi interiori dei diversi personaggi e gioca a rimpiattino con il tempo: il protagonista si immedesima nello ieri della morta, che però è ieri solo per lui, per lei è rimasto oggi, l’ultimo suo oggi; e in effetti non si tratta del passato di Marta, ma del passato che l’immaginazione di Victor le presta, un passato ipotetico, eppure presumibilmente verosimile; la grottesca e tragica vicenda occorsa ai due, una notte d’amore non consumata e la cruda realtà di una morte, sono però eventi ancora ignoti a tutti gli altri, dunque inesistenti, in effetti puro nulla; l’indicativo e il condizionale passato, il passato prossimo e il futuro anteriore si alternano, moltiplicano le prospettive, ci fanno gioire e ringraziare che sia esistito, fino a ieri, uno scrittore capace di una tale fede nella letteratura e di una tale capacità di inverarla.

Quante altre telefonate avrai fatto oggi che è ieri, quando hai saputo che tuo marito se ne andava e ti lasciava libera? Quanti uomini avrai preferito, quanti ne avrai cercati perché venissero a farti compagnia e a celebrare la tua notte di nubile o di vedova? Tutti quanti troppo tardi. Forse è rimasto soltanto quello che quasi non conoscevi, quello che era già stato prenotato con un appuntamento preso giorni prima senza pensarci, senza renderti conto che non avresti potuto sprecare con lui proprio quella notte in cui saresti stata libera e non ti sei ricordata che lo saresti stata; forse ti sei dovuta accontentare di me dopo aver passato in rassegna la tua agenda e aver chiamato più e più volte da questo telefono che ancora suona cercando di te accanto a questo letto, quelli che non sanno che sei morta in questo letto e che sei morta tra le mie braccia telefonano e continuano a telefonare fino a quando non dirai loro che ormai possono cancellare il tuo numero, Marta Téllez non è più il caso di chiamarla perché non risponde, il numero inutile che devono dimenticare coloro che un giorno si sono impegnati per conservarlo o mandarlo a mente, e io stesso, coloro che lo compongono senza nemmeno pensarci come quell’uomo la cui voce tagliente è rimasta incisa perché possa sentirla chiunque si trovi in questa stanza, tranne la destinataria; o forse sono ingiusto e sono stato soltanto il secondo della lista, povera Marta, quello che avrebbe potuto prendere il posto di quel primo così imperativo se la notte fosse stata davvero inaugurale, la prima di tante altre che ci avrebbero portati a intrattenerci sulla mia porta con i baci saturatori degli amanti che si salutano, la prima di tante altre che non aspettano più il futuro ma che sonnecchieranno per sempre nella mia coscienza instancabile, la mia coscienza che bada a quel che accade e a quel che non accade, ai fatti e a ciò che non riesce, all’irreversibile e all’irrealizzato, allo scelto e al rifiutato, a ciò che torna e a ciò che si perde, come se tutto fosse uguale: l’errore, lo sforzo, lo scrupolo, la nera schiena del tempo.

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