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diretto da Romano Luperini

Via da qui di Alessandra Sarchi

Cari lettori e lettrici, la redazione di LN si prende una pausa estiva. Durante questo mese, ripubblicheremo alcuni articoli già usciti nel corso dell’anno. Ci rivediamo a settembre.

Pubblichiamo un estratto da “Cherry Street” in Via da qui, la raccolta di racconti di Alessandra Sarchi uscita la scorsa settimana per Minimum Fax. Ringraziamo l’autrice e l’editore per la gentile concessione.

Annamaria si sporge su Monty che stesa su un fianco le dà le spalle. Non ha idea di che cosa abbia ascoltato del suo lungo monologo, visto che adesso dorme ed emette un leggero fischio, sottile come quello del gatto, anche lui accovacciato e addormentato in mezzo alle sue gambe.

Sente di nuovo lo squillo del telefono. Potrebbe essere Giovanni, in genere dopo le loro litigate la tempesta di chiamate cui lei non ha nessuna voglia di rispondere. Potrebbe essere di nuovo sua madre, e allora è meglio rassicurarla. In ogni caso si alza ed entra in casa e solleva la cornetta. Sulle prime non riconosce il nome e nemmeno la voce. O forse li riconosce così bene e li associa a una persona tanto spiacevole che vorrebbe non aver alzato il ricevitore e non doverle rispondere.

È Jessica, l’amica a cui Giovanni aveva affidato la sua macchina, quando era venuto in Italia per sposarsi e tornare con lei. Jessica sarebbe dovuta venire a prenderli con quell’auto all’aeroporto, il giorno del loro arrivo. L’aveva promesso, e Annamaria aveva giudicato che della promessa di una ragazza che aveva compilato per Giovanni un album con i testi trascritti delle canzoni che suonavano con il loro piccolo gruppo ci si poteva fidare. Era un bell’album decorato sulla copertina di cartone rigido con grandi foglie secche di jacaranda.

All’aeroporto avevano aspettato per un paio di ore, poi esasperati avevano cercato di rintracciarla telefonicamente, infine le avevano lasciato diversi messaggi via via più perentori sulla segreteria telefonica.

A un certo punto, quando finalmente erano riusciti a raggiungerla, era stato chiaro che non sarebbe mai arrivata e che se volevano indietro la macchina dovevano andare a riprendersela. Annamaria aveva cercato di capire un po’ meglio chi fosse questa Jessica, ma le sue domande avevano solo messo di malumore Giovanni. Intorno a Jessica c’era un misto di ansia e noncuranza, ma Annamaria non aveva la sensazione che di mezzo ci fossero stati sesso o sentimenti. Quando la incontrò seppe che non si era sbagliata.

All’epoca non conosceva l’espressione white trash. Le venne incontro una ragazza alta e obesa, con la pelle rosa e sudata, i vestiti sporchi, la ricrescita scura nei capelli tinti di biondo, lo smalto blu smangiucchiato sulle unghie lunghe e tanti piccoli inspiegabili lividi fra le mani e i polsi. Annamaria pensò: che disagio.

Adesso invece, dopo due anni che vive lì, sa che una come Jessica può finire sotto l’etichetta di white trash. E il suo aspetto c’entra fino a un certo punto.

«Sono Annamaria» le risponde secca. Dall’altra parte del telefono si sente un sospiro, o qualcosa che assomiglia a un rumore represso di disappunto e di sorpresa.

Non si aspettava di trovarla in casa, è Giovanni che cercava, con il quale magari aveva appuntamento. Ma lui non le aveva detto che l’amicizia con Jessica era morta e sepolta?

Dall’altra parte della cornetta c’è esitazione, poi Jessica decide: «Giovanni ti avrà lasciato qualcosa per me, immagino. Passo a prenderla, fra dieci minuti».

Annamaria non fa neanche in tempo a dirle che non ne sa proprio nulla e che in realtà preferirebbe che non passasse affatto e che sarebbe meglio che se la vedesse, per qualsiasi cosa, con Giovanni, ma Jessica ha già riattaccato.

Annamaria guarda sulla scrivania in soggiorno dove c’è il telefono che ha appena posato. Si domanda cosa potrebbe cercare. Non vede niente che possa riferirsi a Jessica. Ci sono le solite bollette del telefono e della luce da pagare, una copia dell’Atlantic Monthly spiegazzata, un pacchetto intonso di sigarette. Passa in camera da letto dove c’è la scrivania di Giovanni, alla quale sarebbe meglio non avvicinarsi, perché anche il minimo spostamento di un libro o di una carta sembra turbarlo; in passato è stato motivo di litigi, ma a questo punto le cose non possono che rotolare ulteriormente giù per la china sulla quale sono già avviate. Annamaria sposta un paio di forbici, due cassette di cd, una pellicola da restaurare che, in teoria, non sarebbe dovuta uscire dagli archivi dell’Università. Apre i cassetti: nel primo ci sono foto e ritagli in una totale confusione. Nel secondo, dove in genere tiene la carta i francobolli per la corrispondenza, Annamaria trova una busta sigillata e sopra la grafia di Giovanni in stampatello: JESSICA.

La busta non pesa tanto ma ha un gonfiore che non può corrispondere a fogli di lettere, Annamaria la solleva verso la luce della finestra, ma è già sicura di quello che vedrà in filigrana: un pacchetto di dollari. Si accascia sul letto come se all’improvviso la busta pesasse una tonnellata e lei non ce la facesse a reggerla. Dunque Giovanni deve dei soldi anche a Jessica. Com’è possibile, dopo tutto quello che è successo? E perché?

Alla fine, dall’aeroporto avevano dovuto prendere un taxi. Jessica aveva detto che viveva con un uomo, di cui non sapevano ancora nulla, ma dal quale nel frattempo, nell’anno in cui erano stati in Italia, lei aveva avuto una bambina. Abitavano in una strada dal nome poetico: Cherry Street. Lungo il tragitto, nel languore che le dava il fuso orario e il fatto che da più di venti ore non chiudeva occhio, Annamaria aveva immaginato che fosse una stradina costeggiata, da una parte e dell’altra, di alberi di ciliegio. Macché. Cherry Street era uno di quei viali a dosso di cammello che dall’arteria principale portano verso le strade che si affacciano sull’oceano, nella desolazione che si estende tra cemento e acqua a Long Beach. Di ciliegi neanche a parlarne. Eucalipti, invece, tanti, anarchici, cresciuti per volontà di chi sovrintendeva al verde pubblico, o per inseminazione involontaria ai lati della strada. Le case, ma erano case quelle? Per il fatto di avere un tetto, una forma poliedrica e delle finestre, si poteva anche chiamarle case, ma c’era qualcosa nel modo in cui erano adagiate sul suolo, o connesse fra di loro, che le faceva assomigliare piuttosto a delle scatole. Scatole colorate e recintate, dall’aria fragile e sgangherata. Sulle prime Annamaria stentava a credere che fosse quello che sembrava: una zona poverissima. Non conosceva nessuno che vivesse in quelle condizioni. Jessica arrivò ad aprire il cancelletto di ferro arrugginito; sollevava polvere a ogni passo lungo il vialetto di terra battuta, dietro le scodinzolava un ragazzo nero, più basso di lei, di cui Annamaria non capì il nome quando le venne detto. Jessica era una gigantessa, bianchissima, con grumini rosa che si accumulavano sottopelle; faceva un certo effetto di fianco al suo compagno nero, magro e dinoccolato. Li accolse con aria guardinga e, per quanto lei e Giovanni si fossero gettati le braccia al collo, notò che spiava le loro reazioni. Annamaria pensò che fosse dovuto alla sua presenza e alla nuova condizione di Jessica, sposata e madre nel frattempo. Ma osservandola meglio ebbe l’impressione, per come arretrava a ogni più piccolo movimento di Giovanni, che si aspettasse di essere sgridata, come una bambina. Probabilmente sapeva che sarebbe avvenuto di lì poco. La macchina infatti – uno dei pochi beni in loro possesso – era parcheggiata su un lato del cortile col cofano ammaccato, la vernice sulla portiera destra era tutta abrasa, i vetri impolverati e coperti di foglie. Si capiva subito che era da parecchio che non veniva usata, stava lì come un cane dal muso lungo, che ne ha prese troppe per alzarsi.

A quella vista Giovanni era esploso: «Cosa hai combinato? Non ti sei presentata all’aeroporto, poi non mi avevi detto che avevi ridotto così l’auto», e intanto le girava intorno, l’apriva e ispezionava in cerca di ulteriori danni.

«Per la fiancata» aveva azzardato Jessica, «conosco qualcuno che potrebbe ridipingerla». «E allora perché non l’hai fatto? Non potevi sistemarla prima che arrivassimo qui? Ti lascio la mia macchina e tu la riduci in questa maniera».

«Gio’, non ti arrabbiare. Io e Nash abbiamo avuto un sacco di cose da fare, e poi la bambina. Non credere che sia facile».

Nash era sulla porta di casa con un fagotto rosa in braccio, strillava un po’, ma non tanto.

«Ti mancava solo di fare un figlio, a te», le aveva detto Giovanni con una dose di disprezzo che Annamaria aveva trovato offensiva, inutile. Ma adesso, dopo averla ascoltata parlare e faticare nel trovare una logica alle proprie frasi, le era chiaro che Jessica era un po’ ritardata, magari un disagio lieve che però si era aggiunto al sovrappeso e che doveva averla sempre emarginata. Era riuscita a infilarsi in un gruppo di musica dove faceva praticamente di tutto, portava gli strumenti, attaccava i cavi delle chitarre, trascriveva i testi, preparava i panini per merenda e scarrozzava casse di birra. Annamaria immaginò quale dovesse essere stato l’atteggiamento dei maschi nei suoi confronti: si poteva pensare di aiutarla, ma rimaneva quello che era, una ragazza che nessuno avrebbe frequentato per propria scelta.

Le cose si stavano mettendo veramente male, Annamaria sentiva la rabbia di Giovanni e l’assurdità di quella situazione. Poi invece Giovanni si era rabbonito. Jessica aveva detto: «Andiamo dentro a fumarci qualcosa, così ci rilassiamo un po’», e lui aveva subito cambiato espressione.

Annamaria aveva seguito questo passaggio con curiosità; erano tante le cose della vita di Giovanni che non conosceva. Ad esempio, non aveva mai visto sulla sua faccia quella distensione immediata e quella vena canagliesca. Doveva esserci un’altra ragione, al di là del gruppo musicale, per cui Jessica faceva parte del suo mondo.

Erano entrati in casa, una stanza non molto grande che dava su un’altra più piccola. Annamaria aveva notato che il pavimento coperto di linoleum era chiazzato di muschi neri e lungo i muri si attorcigliavano fili elettrici; bisognava stare attenti a dove si posavano i piedi. Su un fornellino da campeggio era appoggiato un sacchetto. Jessica lo prese, tirò fuori delle cartine da una borsa di cuoio si traverso sul tavolo e cominciò a rollare sigarette con le sue mani paffute e veloci. Giovanni si mise a sedere su una specie di futon, in attesa. Nash stava in piedi, con un sorriso insulso stampato in faccia. Annamaria si sentì a disagio, il fumo richiede cameratismo, e lei aveva l’impressione di non far parte di quel gruppo. La neonata, che di nome faceva Princess, era stata depositata in una sdraietta e cominciò presto a essere avvolta da volute di fumo appiccicoso.

Annamaria si offrì di prenderla in braccio e portarla fuori. Gli altri, non dissero niente, ma apparvero sollevati.

Annamaria sollevò Princess che sembrava addormentata, se non addirittura narcotizzata e se la mise su una spalla, come aveva visto fare con i bambini neonati. Uscita fuori, nei tre metri spelacchiati di cortile dove la casa si prolungava in una tettoia di lamiera, aveva temuto che le gambe le cedessero per la stanchezza. Voleva allontanarsi il più possibile dal fumo. Il terreno si arrendeva ai tacchi delle scarpe, la risucchiava come se fosse fatto di una materia molle e inconsistente. Anche Princess era sul punto di scivolare dalla sua presa. Era un peso vacuo e Annamaria si sentiva un sostegno insicuro. Se la portò più vicina al petto, sistemandola come se fosse una sciarpa. Oddio, è una bambina, non una sciarpa, s’era detta spostandosi dal sole che scottava la sua pelle abbronzata e quella indifesa di Princess. Aveva cercato riparo all’ombra di un eucalipto. Si era seduta su un tronco tagliato e aveva chiuso gli occhi. L’aria era leggera e un po’ salata, si sentiva che c’era il mare vicino. Il respiro della bambina era appena percettibile, le piaceva il caldo che produceva quel piccolo corpo appoggiato al suo petto e alla sua spalla. Stava per addormentarsi, un secondo o due, forse un minuto, poi si era ripresa. Aveva riaperto gli occhi e tastato la schiena della bambina, per accertarsi che respirasse, poi si era guardata intorno. Allo squallore del luogo era difficile aggiungere o togliere qualcosa, ma la luce solare in quel paese era perfetta, di un nitore capace di dare profilo persino alla polvere, capace di contenere il colore in tutto il suo schianto.

Poi aveva pensato che dentro, nella cosiddetta casa, si stavano drogando, e che lei non sapeva nemmeno dov’era.

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