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diretto da Romano Luperini

Una scuola contro i luoghi comuni. Costruire prove per costruire intelligenze critiche

Fra le molte osservazioni interessanti pubblicate sui social a seguito dell’articolo che Luisa Mirone e io abbiamo scritto sulle tracce della prima prova, ce n’è una che merita attenzione e risposta immediata: è la richiesta di esplicitare la pars construens del ragionamento, perché ad alcune lettrici e lettori il pezzo è apparso solido nella riflessione critica, ma poco conseguente nella proposta di alternative chiare.

Quest’articolo rappresenta dunque una prima integrazione della riflessione intrapresa sull’analisi e sull’interpretazione. Userò come esempio il brano della tipologia B1, in cui Liliana Segre narra l’esperienza di discriminazione da lei subita nella tenera infanzia.

Non c’è argomentazione senza complessità

Del racconto di Liliana Segre dirò con chiarezza che è una testimonianza toccante, una lettura ottima e istruttiva; ma si tratta di un testo molto riduttivo, per una prova d’esame. Quanto alle prime due caratteristiche, non credo sia necessario esplicitare le ragioni del mio giudizio. Sulla terza, poiché viviamo in tempi di sospetto, preciso che il difetto non risiede, ovviamente, nelle idee o nella logica di Segre, ma nel contesto in cui sono state collocate e nelle questioni che se ne sono tratte: si tratta di un brano troppo semplice, dalla lettura assolutamente scontata; rispetto ad esso, è difficile concepire una interpretazione autentica, ed è invece quasi inevitabile che uno studente confonda interpretazione e illustrazione.

Per sostenere la fondatezza di questo giudizio, partirò da un possibile testo alternativo, complesso e stratificato, che pone a chiunque lo legga una sfida intellettuale. Nel suo saggio “Il cuore vigile”, Bruno Betthelheim, recluso in un campo di lavoro nazista fra il ’38 e il ’39 e poi fuggito negli USA, scrive queste parole sul “Diario di Anna Frank”:

Il successo universale del Diario di Anna Frank ci dà un’idea di quanto grande sia ancora in noi la tendenza a negare, mentre la vicenda narrata nel libro dimostra che questa specie di negazione può affrettare la nostra distruzione. È certo un compito ingrato criticare una storia così gentile e commovente che tanta pietà suscita in noi per la povera e gentile Anna Frank. Ma io credo che il favore che quel libro ha incontrato in tutto il mondo non possa essere compreso se in esso non ravvisiamo il nostro desiderio di dimenticare le camere a gas e di esaltare l’attaccamento alla vita privata, la fedeltà alle abitudini quotidiane, anche nell’olocausto. Si esaltano i Frank proprio per il fatto che essi continuarono a vivere la loro solita vita, mentre fu proprio questo che li portò alla distruzione; così possiamo trascurare il fatto essenziale, cioè quanto sia distruttivo un tale comportamento in circostanze sociali straordinarie ed estreme.

Mentre i Frank facevano i preparativi per andare a nascondersi, migliaia di altri Ebrei, in Olanda e in tutta quanta l’Europa, cercavano di fuggire nel mondo libero, per sopravvivere o per essere in grado di lottare contro gli oppressori. Altri che non poterono farlo si dettero alla macchia, non per nascondersi alle SS aspettando passivamente e senza prepararsi alla lotta il giorno in cui sarebbero stati presi, ma per combattere contro i Tedeschi per l’umanità. (…)

Chi aveva occhi per vedere sapeva che la maniera più difficile per nascondersi era quella di farlo come famiglia: se una famiglia si nascondeva tutta insieme, ciò rendeva assai probabile la sua scoperta da parte delle SS. Con le loro ottime conoscenze tra le famiglie olandesi non ebree i Frank avrebbero avuto una vita più facile nascondendosi ciascuno in una famiglia diversa. Ma, invece di pensare a questo, essi aspiravano, in sostanza, a continuare il più a lungo possibile quel tipo di vita familiare al quale erano tanto attaccati. Ogni altra soluzione avrebbe comportato non solo di dover rinunciare alla prediletta vita familiare, ma anche di accettare come cosa reale la crudeltà degli uomini. Più di ogni altra cosa, ciò li avrebbe costretti ad ammettere che il condurre la stessa vita di sempre non era un valore assoluto, ma poteva anzi essere il più distruttivo dei comportamenti.

Senza dubbio i Frank, che si erano mostrati capaci di procurarsi tante cose, avrebbero potuto facilmente procurarsi un fucile o due. Avrebbero potuto così uccidere almeno una o due di quelle “guardie verdi” che erano venute ad arrestarli. Di queste guardie non ce n’erano poi così tante. La perdita di una SS per ogni ebreo arrestato avrebbe notevolmente intralciato l’attività della Polizia di Stato. Il destino della famiglia Frank non sarebbe certo cambiato, perché essi morirono tutti ugualmente, tranne il padre di Anna, il quale, indubbiamente, non avrebbe voluto pagare la propria sopravvivenza con lo sterminio dell’intera famiglia. Essi avrebbero potuto però vendere cara la pelle, invece di avviarsi alla morte senza resistere.

C’erano ottime ragioni perché un dramma come questo, che ha avuto tanto successo, finisse con le parole di Anna che asseriscono la sua fede nella bontà di tutti gli uomini. Con ciò viene negata la realtà delle camere a gas che, di conseguenza, non potranno più esistere. Se tutti gli uomini sono fondamentalmente buoni, e se continuare a vivere come al solito in seno alla propria famiglia, accada quel che accada, è cosa degna della massima ammirazione, allora anche noi possiamo continuare a vivere la nostra vita di sempre e dimenticare Auschwitz. Sennonché, Anna Frank morì proprio perché i suoi genitori non seppero credere all’esistenza di Auschwitz. E la sua storia ha incontrato tanto favore perché, anche a nostro vantaggio, essa nega implicitamente che Auschwitz sia mai esistito. Se tutti gli uomini sono buoni, Auschwitz non è mai esistito.

Una riflessione profonda, come è profonda la testimonianza di Segre. Lettura istruttiva, come quella di Segre. Ma la “bellezza” di una prova d’esame non si risolve in questi tratti, pur indispensabili. Invece, il passo di Betthelheim presenta caratteristiche che lo distinguono quello di Segre.

Per pima cosa è più complesso e sfugge ad una tendenza in voga nella scuola di questi tempi: adeguare il livello delle prove al (presunto) basso livello di molti fra coloro che le svolgeranno, strutturando verifiche dai contenuti (brano da analizzare, domande e stimoli proposti) semplici e univoci. Tuttavia, solo la proposta di un testo complesso, con quesiti formulati in modo intelligente, consente di misurare i differenti livelli di penetrazione nell’analisi (come si potrebbero misurare se non esiste complessità?). Fra queste capacità, un posto centrale spetta all’individuazione delle informazioni rilevanti, rispetto a una domanda; e, specularmente, alla capacità di costruire una sintesi significativa e centrata su un argomento. Una prova troppo semplice titilla la retorica piuttosto che il pensiero, mentre la complessità non esclude affatto lo “studente medio” (che nello scritto è tale spesso per i suoi problemi linguistici, non cognitivi), e propone difficoltà anche a quello “bravo”. In particolare, li mette di fronte all’esigenza di non confondere la comprensione del pensiero dell’autore con il loro giudizio sul pensiero dell’autore.

Questo indispensabile requisito intellettuale, però, si acquisisce e si misura soltanto a condizione che chi analizza e interpreta possa collocarsi in posizione di alterità e di distanza intellettuale rispetto a chi propone un testo (insegnante) e al pensiero espresso nel testo (autore/ autrice).

Quindi, tornando alle idee e ai sentimenti di Segre, come darle torto o anche semplicemente trovare ragioni per obiettare, sulle sue constatazioni circa le conseguenze delle leggi razziali? Come evitare di ripetere le sue idee sulla sofferenza dei bambini sotto una dittatura, rafforzandole e confermandole in modo più o meno retorico? Ma questo va bene se chiediamo a uno studente di dare ragione, illustrando correttamente il suo assenso. Perché è abbastanza ovvio che l’unico studente che potrebbe discutere davvero, nel cuore, le idee presenti nel passo, sarebbe un antisemita razzista. E che, ammesso che ci sia nella nostra classe un simile studente (a volte ce ne sono), non lo farà, per paura delle conseguenze. Se invece chiediamo a chi commenta e interpreta di prendere posizione, occorre un testo stratificato e aperto, che sfidi la logica corrente, eviti i buoni sentimenti e le ovvietà, anche se morali. Le giovani generazioni vivono infatti immerse in un mondo di stereotipi e mercificazione dei sentimenti, in cui anche le migliori intenzioni e i migliori prodotti popolari affogano: il mondo in cui ci si fotografa felici sul binario di Auschwitz, e Spielberg diventa marchio commerciale (il cappottino rosso della bambina del ghetto) o tormentone pop (il tema musicale usato e abusato in ogni competizione di pattinaggio, ginnastica artistica, nuoto sincronizzato).

Dunque mettere le ragazze e i ragazzi di fronte all’ennesimo brano in cui una bambina soffre per le crudeltà nazista apre una strada maestra verso idee stereotipate; non così il pensiero di un ebreo recluso nei campi che critica i genitori di Anna Frank e ritiene il “Diario” espressione della volontà di rimuovere la verità storica, trasformandola in ricordo consolatorio. Un simile passo si presta davvero a un’interpretazione e a una critica. Perché è, in sé, criticabile. Perché è un’argomentazione serrata, e provoca chi legge. Non intende affatto consolidare idee già esistenti, bensì al contrario rovesciarne la prospettiva. Sembra quasi non chiedere l’accordo, ma il disaccordo.

Complessità, problematicità e stratificazione consentono di osservare processi di comprensione articolati e divergenti, che – almeno secondo la mia esperienza – possono fare emergere situazioni che passano inosservate in verifiche più banali. Per esempio, il fatto che molti studenti “bravi” perdano il filo se non gli è chiaro immediatamente quale sia la “ragione” e il “torto” per chi ha scritto il passo sul quale lavorano (e per il docente, cui intendono logicamente allinearsi); all’opposto, che spesso studenti meno brillanti nell’espressione e meno efficaci nella retorica, abbiano un grande coraggio intellettuale, e una visione soggettiva che non si sovrappone al messaggio originale. Due situazioni molto frequenti nelle analisi di testi letterari che non trasmettano esplicitamente il loro significato (a partire dai testi poetici).

Le domande importanti non contengono la risposta

Il passo di Liliana Segre è semplice (per la sostanziale assenza di argomentazione), centrato su un unico tema. Le domande della prova d’esame si muovono in una direzione illustrativa e ripetitiva. Si tratta per lo più di domande che non richiedono un lavoro di ricognizione del testo, perché nella loro formulazione ne isolano già alcuni frammenti. La richiesta è di riprenderne l’idea e parafrasarla: ad esempio, si cita la similitudine del gioco del “bambino invisibile” e si chiede la ragione del suo utilizzo, ampiamente spiegata dall’autrice, Oppure si richiede un’opinione su un aspetto che non può essere giudicato soggettivamente: la ragione per cui Segre si sente in colpa per essere discriminata viene spiegata esplicitamente da lei; perché mai dovrebbe essere dedotta (“a tuo parere”) da chi legge? Sono domande orientate dalla volontà di predefinire una precisa risposta corretta (come certe questioni presenti nei test INVALSI, che spesso mettono in difficoltà anche noi insegnanti). Non servono a stimolare diversi approcci e misurare la capacità di ascolto del brano oggetto di studio.

Invece, è proprio quest’ultima impostazione che consente di osservare componenti fondamentali del processo logico di lettura: la capacità di orientarsi autonomamente, di valutare la pertinenza degli elementi rispetto a una richiesta generale/ teorica, di ordinare e gerarchizzare i passaggi e le espressioni che si ritengono pertinenti.

Da una prospettiva focalizzata su uno studente-esecutore deriva (nel caso di Segre e nella maggior parte dei compiti della tipologia B) una richiesta di produzione generica: l’operazione proposta è infatti una semplice contestualizzazione storica, eventualmente ampliata in un’attualizzazione fortemente guidata. Una simile struttura logica rende molto difficile esprimere una propria lettura critica argomentata, e suggerisce l’esposizione/ descrizione di fatti e l’invito a formulare in veste di “opinione” i propri sentimenti. Si chiede cioè a chi scrive di confermare quelle che sono evidenti verità storiche sulla responsabilità e sui valori/ disvalori incarnati dai protagonisti delle vicende; in sostanza, di applicare una regola, dimostrare un ovvio teorema storico (pur, in sé, giusto e fondato). Ѐ la versione aggiornata della “vecchia” tipologia B, dove il pensiero autonomo veniva di solito sostituito dal copia-incolla di idee altrui, spacciando per argomentazione una semplice affinità tematica.

Sul testo di Betthelheim, invece, si potrebbero immaginare percorsi di riflessione fortemente sfidanti, che convocherebbero la sensibilità e il vissuto degli studenti in veste di ragionamento, non di buoni sentimenti. La sua complessità apre infatti a differenti livelli di comprensione e di giudizio sul pensiero. Anche una domanda generica, “Qual è la tesi presentata nel passo?”, potrebbe evidenziare capacità di scelta, gerarchizzazione delle informazioni, approfondimento e completezza del discorso sul testo.

Oppure si potrebbero indicare elementi rilevanti, affidando però a chi legge il compito di trovarne le emergenze nel testo e di valutarne la relativa maggiore o minore importanza. Per esempio, ponendo la domanda in questi termini: “Nel brano di Betthelheim, l’antitesi occupa un ruolo centrale nella costruzione argomentativa: quali sono a tuo avviso le antitesi più significative? Perché?”. Quest’approccio, localizzato sul piano concettuale ma non nelle indicazioni sul testo, permetterebbe di osservare sia capacità oggettive (alcuni contrasti sono palesemente cruciali) sia soggettive (non per tutte le persone che scrivono saranno fondamentali gli stessi identici passaggi, e dietro a diverse proposte di lettura ci saranno già differenti aperture critiche).

Sul versante interpretativo, la semplice domanda “Ritieni che l’autore abbia ragione nel criticare le scelte dei genitori di Anna Frank?” aprirebbe a differenti prese di posizione, ad un’alterità critica (anche etica) reale, non di maniera. Il passo contiene diversi passaggi significativi e provocatori, che si prestano a misurare la capacità critica e la sensibilità di qualunque persona legga: ad esempio quello in cui l’autore ipotizza che la famiglia si procuri un fucile e uccida le guardie (Ci sono circostanze in cui è lecito uccidere? Accettare la persecuzione è un comportamento moralmente giusto?); oppure le insistite considerazioni sull’idea di famiglia (La famiglia è un valore assoluto? Ci sono circostanze in cui diventa una dipendenza psicologica?).

Di fronte ai dilemmi posti in modo stringente dall’autore, è difficile (direi impossibile) cavarsela dandogli ragione o applicando un teorema storico o etico indiscutibile. Ѐ necessario, invece, concepire una soluzione e argomentarla, compiere una scelta, anche (me l’insegna l’esperienza vissuta negli anni, quando ho assegnato questa prova) dissentire dall’autorità del testo e di chi l’ha scritto.

Il passaggio dalla dimensione del conosciuto, l’applicazione/ illustrazione di un’idea preesistente o il rifugio nel luogo comune, a quella del non conosciuto, la scelta delle idee che servono a ideare una soluzione originale per un problema nuovo, è (dovrebbe essere) un obiettivo fondamentale del processo di formazione culturale e umana degli studenti. La strada che porta dal nozionismo, dal soggettivismo impressionistico, all’esercizio di una soggettività critica è lunga e faticosa. La prova d’esame dovrebbe indicarla con chiarezza e decisione.

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