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diretto da Romano Luperini

Trasumanar e fotocopiar: qualche considerazione su scuola e lavoro

Una premessa

Tra i propositi dei governi che si sono succeduti negli ultimi anni c’è senza dubbio quello di avvicinare il mondo della scuola e quello dell’impresa; alcuni vorrebbero che questo avvicinamento si traducesse in un vero e proprio abbraccio, o meglio, in un letale stritolamento (della scuola, s’intende). Di certo, si tratta di una priorità, un mantra ripetuto trasversalmente da tutte le forze politiche, insieme a quello della digitalizzazione (di cosa? di tutto!).

Ad ogni occasione non manco mai di interrogarmi su quale dovrebbe essere la natura di questo “stretto rapporto” tra scuola e lavoro che tutti, davvero tutti (politici appunto, ma anche imprenditori, insegnanti, economisti, istituzioni internazionali) auspicano, e cerco anche di coinvolgere i miei studenti nelle mie estemporanee meditazioni. La loro percezione, per quanto quasi mai tenuta seriamente in considerazione, è quella che conta di più, anche nella sua immediatezza e spontaneità.

Insegno in un istituto tecnico (economico), una scuola, dunque, che spesso viene indicata come strategica per il Paese dalla classe dirigente (che pure per la prole continua a preferire la sempre troppo teorica e per nulla strategica istruzione liceale); una scuola di provincia, non posso non precisarlo, e per giunta non dell’ubertosa provincia veneta che un tempo era considerata la locomotiva d’Italia, bensì di Veneto secondario, appartato, dove le differenze socio-culturali si fanno sentire più che altrove. 

Un’ultima avvertenza prima di iniziare: queste righe non vogliono per niente essere un attacco diretto agli studenti e nemmeno generalizzare le loro posizioni. Dopotutto, ogni classe è un gruppo di persone eterogeneo, tante teste che pensano, se pensano, in maniera diversa. Voglio piuttosto provare a riassumere alcune delle opinioni dei ragazzi sul rapporto tra scuola e mondo del lavoro e rintracciarvi l’azione pervasiva di quella che potrei definire “ideologia aziendalista”.

La scuola non prepara al lavoro (e tanto meno a vivere)

Se c’è una cosa di cui i miei studenti sono convinti è che la scuola non prepari assolutamente al lavoro e tanto meno alla vita. La risposta è decisa, giunge dal profondo di convinzioni radicatissime, certo pregiudizievole e riflette, almeno in parte credo, quello che sentono dire continuamente da familiari, politici, coetanei, influencer.

In effetti, nel momento in cui si trovano a vivere la prima esperienza di lavoro attraverso il periodo di PCTO (acronimo di Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento che ha sostituito il termine, fin troppo intellegibile, di Alternanza scuola-lavoro) questo pregiudizio si consolida: la scuola non prepara al lavoro. Ecco, qui si palesa il primo grande equivoco che scaturisce dall’assunto che la scuola debba preparare (direttamente, praticamente, operativamente) al lavoro. Qualcuno dei miei studenti si lamenta, per esempio, di non essere stato in grado di usare la fotocopiatrice, di non saper rispondere al telefono o segnare un appuntamento in agenda (ma che vi insegnano a scuola?, esclama spesso il tutor aziendale di fronte alla loro inettitudine). Queste “competenze”, che poi hanno appreso in pochi giorni, se non in poche ore, ai loro occhi diventano più utili, non dico di saper svolgere un’analisi di una poesia del Pascoli (verificarne l’utilità con questo metro sarebbe, a conti fatti, come sparare sulla Croce Rossa), ma perfino di affrontare lo studio, troppo troppo teorico, delle stesse materie di indirizzo. 

Questo atteggiamento nei confronti della scuola nasconde da una parte l’ingenua tenerezza dei ragazzi, dall’altra la più viscida ipocrisia della classe politica. I primi, nonostante talvolta vogliano apparire sbruffoni e sicuri di sé, sono intimoriti da un futuro che considerano incerto, pieno di ostacoli e parco di soddisfazioni. Dopotutto, sono cresciuti col ritornello della crisi nelle orecchie, tanto che baratterebbero il proprio futuro col passato dei loro genitori (quante volte ho letto nei loro temi questo genere di considerazioni). Quale istituzione dovrebbe prepararli alla vita se non la scuola? Chi dovrebbe fornire loro la bussola, la carta nautica per navigare nell’oceano incerto della vita se non i loro prof? E allora gli studenti vorrebbero che la scuola insegnasse loro non solo a lavorare, ma anche a trovare lavoro, ad accendere un mutuo, a compilare un bollettino postale, a usare la fotocopiatrice, appunto. Insomma, quello che sognano, forse, è una vera e propria alternanza scuola-vita quotidiana con tutor qualificati.

E però, come dicevo, a ciò corrisponde l’ipocrisia della classe politica che conferisce alla scuola il monopolio di ogni questione che ha a che fare con i giovani: dall’educazione stradale a quella alimentare, dalla parità di genere all’inclusione dei disabili, dalla cittadinanza consapevole al rispetto per l’ambiente. Non passa giorno in cui il politico o l’opinionista da talk show di turno non dica: questa o quell’altra materia dovrebbe essere studiata obbligatoriamente a scuola! Ciò a fronte di finanziamenti ridotti e altrettanto bassa considerazione di chi a scuola ci lavora: accettiamo di pagare di più il meccanico che si prende cura della nostra auto, che non gli insegnanti che si prendono cura dei nostri figli. Questo dato mi pare parli da sé. E assegnare sempre più responsabilità, anche educative nel senso più ampio del termine, alla scuola è comodo anche per le famiglie e per la società intera, nelle sue varie forme e declinazioni, dal mondo dello sport a quello dell’informazione e appunto delle professioni.

Meno male che c’è il PCTO (ed è pure gratis!)

Dopo le tinte fosche di queste prime considerazioni, un po’ di luce. La quasi totalità dei miei studenti è rimasta soddisfatta dell’esperienza di PCTO che, a tutti gli effetti, dico io, toglie tempo ed energie allo studio. Si tratta, meglio specificarlo, di un periodo che gli studenti debbono obbligatoriamente trascorrere in azienda, per un totale di 150 ore per gli istituti tecnici (ma la riforma che lo ha introdotto, la sedicente Buona Scuola renziana, prevedeva addirittura un monte più che doppio). Che l’esperienza sia realmente formativa non è sempre vero per loro stessa ammissione. Alcuni, infatti, si sono messi in gioco, come si dice oggi, e hanno implementato, come si dice oggi, il loro know how; ad altri, invece, sono state affidate mansioni, come la sistemazione di archivi, l’inserimento dati, il controllo di documenti, particolarmente ripetitive che sarebbero state un costo per l’azienda e una noia per i dipendenti. Ah, questo sempre che vi sia una qualche attinenza col loro percorso di studi e non siano stati “gettati” nei contesti più diversi. In ogni caso, l’entrata nel mondo del lavoro viene salutata con grande favore; finalmente il gap tra scuola e impresa si riduce per traghettare il Paese in un avvenire di prosperità e sviluppo. 

Pochissimi dei miei studenti, forse un paio, i più sindacalizzati verrebbe da dire, riterrebbero giusto ricevere un compenso per la prestazione svolta. Per tutti gli altri, va bene così o si accontenterebbero di un regalo (sic!). In effetti, è questo uno dei più grandi insegnamenti del PCTO (insegnamento carsico, ovviamente, implicito e per questo ancora più potente), cioè che si può lavorare gratis, che è normale e opportuno, farlo. E poi dicono che la scuola non li prepara al futuro!

Tutta questione di mismatch

Alla base dello sfacelo odierno (che poi, sarà un vero sfacelo?), che consiste ovviamente nel divario tra domanda e offerta di lavoro, ci sono i programmi scolastici. Anche su questo, sono tutti concordi: lo studio è dotato di senso solo se riconducibile ad un’utilità pratica, che non è quella di sapere e di conoscere, ma quella di saper fare (le famose competenze di cui sono infarciti le circolari ministeriali e le programmazioni dei docenti) per accedere a certe carriere e professioni. Dunque, le discipline di tipo tecnico dovrebbero spogliarsi degli aspetti culturali e teorici che inevitabilmente portano con sé e curvarsi sulla pratica del lavoro (ma quale nessuno sa bene indicarlo con esattezza); le altre, invece, considerate nel migliore dei casi come apprezzabili ma assolutamente inutili, potrebbero tranquillamente essere sacrificate. A che serve sapere chi era Mazzini? Perché studiare l’astronomia? Perché la geometria? Perché Leopardi?

Cultura generale, prof, cultura generale. Che è come dire, a niente.

A fare maggiormente le spese di questa forma mentis, neanche a dirlo, sono le cosiddette discipline umanistiche che, in certi ordini di scuola, come i professionali, sono già ridotte in una specie di riserva indiana in attesa dell’estinzione. Anche quando, e va molto di moda farlo, si riconosce loro un compito preciso, oltre a quello di trasmettere allo studente nozioni di cultura generale s’intende, lo si fa sempre banalizzando e sminuendo il loro apporto potenziale. Mi riferisco alle cosiddette soft skills la cui acquisizione sarebbe appannaggio proprio dei saperi umanistici. Studiare Dante, quindi, serve per imparare a lavorare in gruppo (pardon, in team), per consolidare la leadership e l’autostima, la capacità di adattarsi, il problem solving (pensare che prima di questa espressione, ogni problema rimaneva irrisolto), le proprie facoltà creative in senso imprenditoriale. D’altra parte, anche questo impoverimento di senso, non nasce dal nulla: basta vedere in che modo oggi la cultura nel discorso pubblico venga sempre e comunque legata alla promozione di un territorio e dei suoi “prodotti tipici”, in una parola all’economia.

Eppure, sì, di questo sono convinto anch’io: è questione di mismatch. Con la stagione estiva alle porte, infatti, si moltiplicano le voci degli imprenditori, soprattutto balneari, che non trovano personale (questi giovani entusiasti del PCTO, poi scappano dal lavoro!); tutto questo mentre, all’inizio di maggio, la Guardia di Finanza ha scoperto 360 lavoratori in nero negli alberghi della Riviera Romagnola. Eccolo qui il disallineamento: quello tra lavoro e legalità, tra lavoro e diritti, tra narrazione e realtà.

Meritocrazia: “qui perdiamo tutti e questa è la vittoria”

Quello che mi colpisce durante questi momenti di confronto è la difficoltà che i ragazzi dimostrano nell’individuare la loro passione, i loro interessi. Eppure ci sono, perché non possono non esserci. Credo siano in qualche modo autocensurati. Perché? Molto probabilmente perché afferenti alla sfera dell’inutile. Perché lo studio, anche quello universitario, viene ridotto a un lasciapassare verso certe posizioni (anche l’università non prepara al lavoro, ça va sans dire), e quindi non considerato innanzitutto come un mezzo di crescita e sviluppo personali. Di fronte a questo, quindi, l’istruzione pare aver metabolizzato pienamente l’aziendalismo imperante fatto di obiettivi misurabili, di competenze concrete, di incontri con agenzie interinali e banche per prepararsi ad un mercato del lavoro competitivo e diseguale dove, tra l’altro, l’ingiustizia di cui il singolo è vittima, viene spesso considerata come il frutto di sue specifiche responsabilità. La tirannia del merito, per usare il titolo del saggio di Michael Sandel.

La scuola appare quindi come un elefantiaco macchinario burocratico, ferito, soggetto ad attacchi di una politica asservita pienamente alle richieste del mondo produttivo che, da parte sua, si lamenta di non poter usufruire di addetti già pienamente formati a spese dello Stato, se non addirittura già selezionati dalla scuola che alcuni vorrebbero diventasse anche una grande agenzia di collocamento. Non è forse questo il servizio che le famiglie pretendono dalla scuola, per cui pagano le tasse?

Piccola parentesi a proposito di giustizia sociale (ma com’è vetusto anche solo utilizzare questa espressione novecentesca). Partendo da una sollecitazione di Walter Siti che sulla rivista Sotto il vulcano, ha pubblicato una breve ma precisa esegesi di un testo del trapper Massimo Pericolo, qualche tempo fa ho attivato in classe un piccolo laboratorio di analisi testuale, proponendo come oggetto di studio proprio alcuni testi di cantanti trap.  

Per chi non lo sapesse, i testi della trap rappresentano l’unica forma “poetica” (ma loro non la definirebbero mai così) a cui si avvicinano i ragazzi. Tra sesso, droga e crimine, questa offre quei contenuti politicamente scorretti (per nulla nuovi, a ben vedere) necessari ai giovani per denunciare il loro disagio e per opporsi alla stucchevole bontà con cui molto spesso la scuola tenta di spegnere e superare i conflitti. In questi testi, vi è talvolta anche qualche accenno di critica sociale. A colpirmi è la direzione di questa denuncia. I trapper non vogliono tanto combattere per abbattere le disuguaglianze, quanto prendere il posto dei ricchi che criticano. Il loro rancore non nasce da una coscienza di classe, ma dall’esclusione individuale. Come canta Gemitaiz, Sento, fra’, che c’è qualcosa che non va/ Questo non è un romanzo rosa/ Qua moriamo tutti e finisce la storia/ Sì, perdiamo tutti, e questa è la vittoria.

Ecco, di sicuro la vittoria dell’ideologia del tardo (o del turbo) capitalismo su tutti noi.

Cosa (colpevolmente) si dimentica

Eppure con la conclusione del quinto anno, per la maggior parte dei miei studenti si esauriranno anche gli stimoli e le esperienze di tipo culturale. Non avranno altre occasioni per affinare gli strumenti interpretativi non solo legati alle manifestazioni artistiche e letterarie del pensiero, ma anche alla comprensione delle dinamiche politiche, sociali ed economiche che regolano la nostra società. Considerata la durata media della vita, il tempo dedicato allo studio alla fine non sarà stato molto, soprattutto se paragonato a quello del lavoro. Per questo occorrerebbe promuovere una convivenza intelligente tra i saperi, tra gli approcci e tra i metodi, non rinunciando ad un’indispensabile impostazione teorica e al rapporto con il libro come strumento di conoscenza. Pure la lezione frontale, talvolta, mi pare una sorta di antidoto all’iperstimolazione informativa a cui oggi siamo tutti sottoposti.

E poi, è più che mai in classe necessaria una riflessione di classe, ormai davvero espunta dal dibattito pubblico che aiuti a render chiara una cosa: quando i più economicamente e socialmente svantaggiati insistono per avere un’istruzione più pratica, più legata al lavoro, più strettamente professionalizzante, così da saper usare un fotocopiatore ad occhi chiusi insomma, stanno lottando per realizzare il sogno, davvero antimeritocratico, delle classi dominanti ben lungi da voler retrocedere dalla loro posizione di dominio anche culturale.

La scuola per continuare ad essere necessaria, per servire davvero, deve leggere in filigrana i facili slogan, porsi in contrasto, in frizione continua con i “buoni propositi” della politica e delle istituzioni. Ed è compito degli insegnanti, non solo di quelli di materie umanistiche, ma anzi, forse soprattutto, delle cosiddette discipline d’indirizzo, scardinare l’idea di una scuola funzionale ai meccanismi produttivi, dare sostanza ad una autentica critica dell’ideologia ponendosi in una prospettiva multidisciplinare. Insomma, chi lavora nella scuola deve dimostrare ogni giorno che Pasolini, quando provocatoriamente ne auspicava l’eliminazione, aveva torto.

[Grazie a Stefano Spagnolo per il titolo pasoliniano]

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