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diretto da Romano Luperini

Il cucchiaino del dottor Mandel’štam. Su Il rumore del tempo e altre prose di Osip Mandel’štam

 Una prosa cristallografica

Le prose che costituiscono la raccolta Il rumore del tempo di Osip Mandel’štam (Passigli Editori, 2010) furono scritte tra il 1925 e il 1928. Precedono dunque di un soffio la lunga e dolorosa persecuzione che, tra denunce, arresti, ricoveri, condusse infine il poeta, accusato di antistalinismo, nel lager siberiano di Vtoraja Recka, dove morì d’inedia e di stenti nel dicembre del 1938. Appartenente a una benestante famiglia ebrea di Varsavia, Mandel’štam aveva studiato alla Sorbona ed era amico e sodale, tra altri grandi intellettuali, di Marina Cvetaeva e Anna Achmatova, con le quali condivideva una fiera avversione al simbolismo e a quella letteratura destinata unicamente all’«appagamento semantico», al suo portato di «inevitabile imparaticcio», di «batti e ribatti sui soliti, vecchi chiodi definiti “immagini storico-culturali”»[1]: «Possibile che la letteratura – orso che si succhia la zampa – sia un sonno pesante, dopo il lavoro, sul divano dello studio?» (Il rumore del tempo – In una pelliccia signorile non adatta al rango, p.78), si chiedeva lo scrittore; e così – con febbricitante lucidità – descriveva la sua epoca, e se stesso:

Mi sentivo agitato e ansioso. Tutta l’agitazione del secolo mi si era trasmessa. Attorno fluivano strane correnti: dalla brama di suicidio all’aspettazione della fine del mondo. La letteratura dei problemi e delle insipienti questioni universali era appena passata col suo cupo e fetido passo, e le mani sporche e vellose dei trafficanti di vita e di morte rendevano ripugnante il nome stesso della vita e della morte. Era davvero la notte dell’ignoranza! I letterati con le bluse nere e le camicie alla russa facevano commercio, come negozianti di grano, di Dio e del diavolo e non c’era casa dove non si strimpellasse con un dito la stupida polka della Vita dell’uomo, divenuta simbolo di un simbolismo abominevole e plebeo. Troppo a lungo l’intelligencija si era nutrita dei canti studenteschi. Adesso vomitava le questioni universali. La stessa filosofia come dopo una bottiglia di birra. (Il rumore del tempoLa famiglia Sinani, p.68)

Poco dovrebbe stupirci, quindi, che queste prose – in tutto tre – rifiutino i percorsi lineari della narrativa e della saggistica, e siano piuttosto articolate, al loro interno, in una molteplicità di piani (contrassegnati da altrettanti, ulteriori titoli; qui li citiamo sempre, accanto al titolo principale), tanto da assumere quasi la fisionomia di quella «figura cristallografica» che Mandel’štam riconosceva nella Divina Commedia: «un solido attraversato da un’incessante tensione generatrice di forme»[2]. La prima prosa dà il titolo alla raccolta e ne definisce scenari, temi, umori, cui le altre due (Feodosia e Il francobollo egiziano) imprimono sferzate, ma anche improvvise, inattese carezze.   Protagonista (e non semplice fondale) è la Russia, significativamente ritratta, nella maggior parte dei casi, sui lungofiumi di San Pietroburgo, capitale eletta da Pietro il Grande, insofferente al vecchio, o sulle banchine del porto di Feodosia, culla delle villeggiature in Crimea. Questa Russia, preda di una «verace dissonanza storica» (Il rumore del tempo – Il programma di Erfurt, p.55), è paradigma inquietante di una «Guerra e pace continua» (Il rumore del tempoLa famiglia Sinani, p.68) – quella che era in atto, quella che non si sarebbe esaurita a conclusione del secondo conflitto mondiale perché acceso e vivo restava il conflitto di classe:

O programma di Erfurt, propilei del marxismo, precocemente, troppo precocemente avete abituato lo spirito all’armonia, ma a me e a molti altri avete dato la percezione della vita negli anni preistorici quando la vita è assetata d’unità e d’armonia, quando la colonna vertebrale del secolo si raddrizza (…). Con il programma di Erfurt in mano (…) ero riuscito a popolare, a socializzare il mondo visibile con l’orzo, con le strade di campagna, con i castelli e la ragnatela di sole, dividendolo in schemi, appoggiando sotto il firmamento azzurro scale tutt’altro che bibliche per le quali salivano e scendevano non già gli angeli di Giacobbe, bensì i piccoli e grossi proprietari, passando attraverso gli stadi dell’economia capitalistica. (Il rumore del tempo – Il programma di Erfurt, pp.56-57)

Simbolica malgré soi (ma di un simbolismo intimo e insieme spudorato fino a risultare provocatorio), la parola di Mandel’štam induce rimpianti in chi, come me, non conosce il russo e deve accontentarsi di una traduzione (attività verso la quale, peraltro, lo scrittore nutriva un’attenzione defatigante)[3], perché se ne percepisce subito, si vorrebbe dire a pelle, la qualità speciale: tesa, vibratile, un poco nervosa, eppure sorvegliata da un’ironia superiore e tragica, si muove con l’agilità pericolosa di un acrobata, senza mai cadere nel vuoto del virtuosismo; ed è parola che raccorda con salti imprevedibili gli eventi della storia agli oggetti del quotidiano, parola che avvicina gli eleganti «luoghi in cui i pietroburghesi si fissano gli appuntamenti» (Il francobollo egiziano – II, p.109) al modesto «appartamento, vulnerabile dalla cucina, dove irrompono i portinai» (Il francobollo egiziano – I, p.105), che accosta il «segreto del fascino» di una celeberrima attrice ibseniana (Il rumore del tempo – La Komissarževskaja, pp.70-73) al «senso misto di valuta vantaggiosamente acquistata» (Feodosia – Il comandante del porto, p.85) del comandante del porto, parola che mescola tenebra e languore «dove l’aria è nera e dolce» (Il francobollo egiziano – II, p.112), che trascorre dalla terza persona alla prima nel narrare:

Che delizia per il narratore passare dalla terza persona alla prima! È come quando, dopo aver usato un bicchierini-ditali bassi e scomodi, un bel momento ti si aprono gli occhi, ti decidi e bevi direttamente dal rubinetto l’acqua fredda e naturale. (Il francobollo egiziano – VIII, p.146)

Non sono però le tre prose l’esibizione fine a se stessa di un funambolo, ma proprio lo svelamento di quelle traiettorie nascoste e insidiose che attraversarono il Novecento, le stesse traiettorie che non hanno smesso, dopo un secolo, di rappresentare i sentieri pericolosi lungo i quali l’umanità si perde:

Basta togliere la pellicola all’aria di Pietroburgo e si denuda il suo strato più segreto. Sotto la piuma di cigno, di edredone, dei Gagarin, sotto le nuvole del ponte Tučkov, sotto la bouchée francese dei lungofiumi morenti, sotto gli occhi a specchio degli appartamenti dei nobili-lacché, appare qualcosa del tutto inaspettato. Ma la penna che toglie quella pellicola è come il cucchiaino del dottore, infettato dalla patina della difterite. Meglio non toccarlo. (Il francobollo egiziano – VIII, pp.142-143).

La penna-cucchiaino di Mandel’štam solleva quella pellicola, e però non s’infetta: piuttosto si immunizza e tira dritta – spregiudicata, coraggiosa, sensibilissima – nel suo giro di perlustrazione e di incontri; smascherando convenzioni e finzioni, anelando quiete.

La rivoluzione come cura

Ma il dottor Mandel’štam, svelando l’infezione, è medico rigoroso e severo e rifiuta la diagnosi facile della corruzione del presente, come la terapia a base di robuste iniezioni di passato. La prognosi è intransigente: la malattia di cui sembrano soffrire uomini e donne di ogni estrazione, letterati e commercianti, aristocratici e parvenu, ha origine nel personalismo, il virus che tutto ammorba:

Non voglio parlare di me, ma seguire il secolo, il rumore e l’evolversi del tempo. La mia memoria è ostile a tutto ciò che è personale. Se dipendesse da me mi limiterei ad arricciare il naso ripensando al passato. Non ho mai potuto capire i Tolstoj e gli Aksakarov, i nipoti di Bagrov innamorati degli archivi di famiglia con le epiche ricordanze domestiche. Ripeto: la mia memoria non è amorevole, ma ostile e lavora non a riprodurre ma a eliminare il passato. Il raznočinec[4] non sa che farsene della memoria, gli basta raccontare i libri che ha letto e la sua biografia è bell’e pronta. Là dove per le generazioni fortunate parla l’epos in esametri e in cronaca, là per me c’è il segno dello iato e tra me e il secolo c’è una frana, un fossato, pieno d’un tempo rumoreggiante (…). (Il rumore del tempo – La Komissarževskaja, p.70)

Questa memoria che lavora a smontare la «oscura araldica delle nozioni morali» (Il francobollo egiziano – II, p.112), ovvero un modus vivendi difeso dal blasone del privilegio, è farmaco irrinunciabile nella cura del dottor Mandel’štam, tutta protesa nel recupero di quel tessuto connettivo che fa uguali gli esseri umani: la natura, al tempo stesso rivoluzionaria e timorosa:

La natura è rivoluzione, una sete eterna, un eterno infiammarsi (forse invidia i secoli che hanno estinto la propria sete umilmente, alla buona, recandosi all’abbeveratoio delle pecore. Per la rivoluzione è caratteristico questo timore, questa paura di ricevere qualcosa da mani estranee, essa non osa, non ha il coraggio di accostarsi alle fonti dell’esistenza).

Ma che cosa avevano fatto per lei queste fonti dell’esistenza? Dove erano fluite così indifferenti le loro onde rotonde? Erano fluite per se stesse, si erano riunite in ruscelli per se stesse; per sé gorgogliavano alla sorgente! («Per me, per me, per me», dice la rivoluzione. «Ognuno per sé, ognuno per sé, ognuno per sé», risponde il mondo). (Il rumore del tempo – La Komissarževskaja, p.71)

È lì il segno dello iato, lì la frana, lì il fossato pieno d’un tempo rumoreggiante: in quella diatriba fra sordi della natura-rivoluzione che dice «per me» (il «me» della natura, quindi un «noi») e del mondo che dice «ognuno per sé». Priva di quel tessuto connettivo, «la nostra vita è un romanzo senza intreccio e senza protagonista», «fatto di sole digressioni» (p.145), proprio quelle che raccontano di onde riunite in ruscelli per se stesse; dovunque dilaga «il germe del prediletto delirio della prosa» e la scrittura si infetta, come ogni altro oggetto:

Conoscete questo stato? Quando tutti gli oggetti è come se avessero la febbre; quando tutti sono gioiosamente eccitati e malati; i cavalletti nella via, lo scrostarsi dei manifesti, i pianoforti che si affollano nei depositi come una mandria intelligente senza guidaiolo, nata per l’estasi delle sonate e per l’acqua bollita…

Allora, lo confesso, non osservo la quarantena e cammino deciso, dopo aver rotto i termometri, lungo il labirinto infetto, carico di proposizioni subordinate, come di allegre compere occasionali… (Il francobollo egiziano – VIII, p.145)

La letteratura come casa

Come torna lo scrittore da questo vagabondare lungo il labirinto infetto?

È intirizzito e si arrabbia, lo scrittore raznočinec con la pelliccia signorile non adatta al rango.

Proprio così si adiravano nelle loro icone, gli abitanti di Novgorod (…), volgendo stupiti verso l’avvenimento le intelligenti teste contadine sui colli corti. (…) Mi sembra di ravvisare in essi l’archetipo del furore letterario.

Come i novgodoriani con le loro barbette protestano rabbiosamente contro il Giudizio Universale, così la letteratura si adira per un secolo e guarda di traverso gli avvenimenti con l’ardente guercezza del  raznočinec e del fallito, con la rabbia del laico svegliato anzi tempo, chiamato, o meglio, tirato per capelli a far da testimone dinanzi al tribunale bizantino della storia.

Furore letterario! Se non ci fossi tu, con che cosa mangerei il sale della terra? Sei il condimento del pane scipito della comprensione, sei l’allegra coscienza dell’ingiustizia, sei il sale misterioso tramandato di decennio in decennio, con un inchino maligno, in una saliera sfaccettata, insieme con l’asciugamano! (Il rumore del tempo – In una pelliccia signorile non adatta al rango, p.75)

Ma, placato il furore letterario «con il gelo e con le stelle pungenti», cioè con l’esperienza viva e vera dei sensi, allora lo scrittore cerca nella letteratura «una casa, un appartamento, una famiglia, dove dormono affiancati dei bambini fulvi nei lettini a rete» (Il rumore del tempo – In una pelliccia signorile non adatta al rango, p.79) e traccia per questa casa un’area semantica nuova, in cui i lemmi intrisi di furia e rancore lasciano il posto a parole quasi d’amore, in cui i «libri da villeggiatura» «con le pagine infette» prelevati da un «vecchiume di biblioteca» (Il francobollo egiziano – VII, p.139) lasciano il posto a «una bibliotechina dai vetri coperti di taffetà verde» (Il rumore del tempo – La libreria, p.21):

Ed è appunto di questo ricettacolo di libri che vorrei parlare. La libreria della prima infanzia accompagna l’uomo per tutta la vita. La disposizione dei ripiani, la scelta dei libri, il colore dei dorsi, si percepiscono come il colore, l’altezza, la disposizione della stessa letteratura mondiale come in un universo. Volere o no, nella prima libreria ogni libro è un classico e non se ne può scartare uno solo. (Il rumore del tempo – La libreria, p.22)

In questa «strana bibliotechina», «l’elemento paterno e l’elemento materno non si mescolavano, ma esistevano separatamente»: «quell’armadietto era la storia dello sforzo spirituale di un’intera stirpe e della trasfusione di un sangue estraneo» (Il rumore del tempo – La libreria, p.21). È nel linguaggio che questi elementi trovano compatibilità e composizione:

Il linguaggio del padre e quello della madre – non è forse della fusione di questi due linguaggi che si nutre per tutta la vita la nostra lingua, non sono essi che ne determinano il carattere? (Il rumore del tempo –Il caos giudaico, p.31)

Avviene per questa via il recupero di una memoria diversa da quella ostile che indigna lo scrittore raznočinec. È memoria rivolta con sguardo pietoso non al passato, ma al tempo, «timida crisalide cosparsa di farina, giovane ebrea incollata alla vetrina di un orologiaio» (Il francobollo egiziano – IV, p.119):

I matematici dovrebbero costruire un baldacchino per la paura, perché essa è la coordinata del tempo e dello spazio: fanno parte di essa, come il feltro arrotolato nella tenda kirghisa. La paura stacca i cavalli, quando bisogna andare, e ci invia sogni con i soffitti inspiegabilmente bassi. (Il francobollo egiziano – VIII, p.147).

[1] O. Mandel’štam, Conversazione su Dante, a cura di S. Vitale, Adelphi 2021, pp.28-29.

[2] Ivi, p.47.

[3] «L’atto stesso della traduzione provoca un estenuante deflusso di energie nervose. Questo lavoro spossa e dissecca il cervello più di qualsiasi altro. Un buon traduttore, se non salvaguardato, si logora in fretta. La traduzione è nel senso stretto del termine un reparto insalubre. I professionisti, costretti dalla miseria delle paghe a «cuocere» libri uno dopo l’altro come bliny, senza riposo e senza sosta, anno dopo anno, si ammalano di nervi… Sono minacciati da afasia, sconnessione del centro della parola, disfunzione del discorso, nevrastenia acuta». (O.Mandel’štam, Epistolario. Lettere a Nadja e agli altri (1907-1938), a cura di M. Gatti Racah, Giometti & Antonello 2020, p. 145).

[4] ] Un intellettuale che non ha estrazione aristocratica. Così Mandel’štam definisce lo stesso Alighieri nella Conversazione su Dante, in un notissimo passaggio dedicato al canto X dell’Inferno (cfr. pp.40-41)

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