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diretto da Romano Luperini

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I mezzi, i fini, i media. Perché non ho firmato il Manifesto per la nuova scuola

 

 Lunedì 17 maggio abbiamo pubblicato il Manifesto per la nuova scuola redatto da un gruppo di colleghi, che hanno invitato il nostro blog al dibattito sui suoi contenuti. Ieri è uscito l’intervento del nostro redattore Daniele Lo Vetere, che ha firmato il manifesto. Oggi prende la parola un altro redattore, Stefano Rossetti, che non ha firmato il manifesto e ne spiega le ragioni.

Considero il Manifesto per la nuova scuola una preziosa opportunità per discutere in modo qualificato alcuni temi cruciali del dibattito sull’istruzione del futuro. Tuttavia, non l’ho firmato, perché ne ho ricavato un’impressione strana, come di due testi in uno.

Condivido e trovo convincenti, infatti, le considerazioni sull’abbandono politico della scuola (a partire dal reclutamento e dalla formazione dei nuovi docenti), sull’oppressione burocratica e sul primato dell’organizzazione: processi esaltati oltre ogni misura dalla negazione di relazioni e socialità che si è verificata in quest’ultimo anno e mezzo, ma in realtà in atto da molto tempo.

Mi convincono assai meno le proposte in ambito didattico e culturale. Non penso che siano posizioni segnate da uno spirito aristocratico e conservatore, ma che esprimano un’istintiva autodifesa, un ritiro in ciò che ci è familiare di fronte a fenomeni complessi e magmatici, mai sottoposti ad una discussione democratica all’interno della comunità scolastica.

Proverò ad argomentare la mia tesi, riferendomi al tema che nella proposta di una “nuova scuola” risente maggiormente di questa postura intellettuale: il digitale.

Fino a che punto si può distinguere perché, cosa, come insegnare?

La mia perplessità nasce prima di tutto dal contesto entro il quale si colloca la riflessione sul digitale: la prima parte del manifesto è infatti dedicata a distinguere in modo netto fra i contenuti dell’insegnamento da una parte, fulcro della “scuola della conoscenza”, e dall’altra le sue finalità e le sue forme. Da questa visione, che colloca i contenuti disciplinari al centro dell’esperienza di apprendimento, consegue una netta distinzione fra perché e cosa insegnare, da una parte, e come farlo, dall’altra. Contro l’esaltazione acritica del metodo, caratteristica di certe impostazioni pedagogiche, si evoca però lo stesso orizzonte di senso caro a molti pedagogisti, separando contenuto e metodo per assegnare ad uno di essi un valore preminente.

 

Quest’argomento è discutibile di per sé, perché chi insegna sperimenta quotidianamente la compresenza e la convergenza delle domande formative su cosa, come e perché’ insegnare. L’idea di “sapere” che invece emerge da un quadro così segmentato, in cui ogni aspetto viene descritto (vissuto?) come distinto dagli altri, suggerisce un’impressione di staticità (un contenuto sempre uguale a se stesso) e di passività (una netta separazione di ruoli fra chi insegna e chi apprende): ma la “conoscenza” è invece un processo dinamico, nel quale i contenuti che costituiscono il punto di partenza sono ben diversi da quelli che si trovano al traguardo, e non possono in alcun modo essere considerati autonomi rispetto ai metodi e ai canali di trasmissione e rielaborazione.

Ad essere onesti, mi sembra anzi che nella realtà delle nostre scuole l’affermazione del primato e dell’indipendenza delle conoscenze non si accompagni ad una visione innovativa della scuola, ma al contrario ad un approccio nozionistico: una pratica molto diffusa e rassicurante (per chi insegna), nel quadro della quale si attribuisce un eccessivo valore a informazioni in gran parte destinate ad essere dimenticate; trasmettendo nel contempo agli studenti proprio quella visione museale del contenuto che tutti dicono di voler evitare nella scuola del futuro: Nell’ambito delle materie umanistiche, inoltre, la musealizzazione si accompagna in molte e molti studenti ad una diffusa sensazione di inutilità del “nostro” sapere.

I media non sono (solo) mezzi

L’idea di separare contenuto e mezzo diventa poi addirittura controproducente quando si decida di considerare le tecnologie (e l’ambito genericamente definito “digitale”) nella loro pura dimensione strutturale/ strumentale.

Ben al di là delle nostre possibilità di azione come educatori e intellettuali, infatti, il digitale non è semplice risorsa tecnologica. Costituisce invece l’humus psicologico e sociale al cui interno germinano le esperienze reali, le visioni del mondo, i valori e disvalori di molti giovani  fuori dalla scuola; è inoltre frontiera avanzatissima e incustodita delle sfide culturali ed etiche del futuro, compreso quello dell’istruzione.

Si tratta di una nuovo modo di esistere nel mondo, come bene hanno visto gli studiosi che se ne occupano, lontanissimi da un atteggiamento di esaltazione acritica: una condizione discontinua, pervasiva, frammentaria, contaminante, che Ruggero Eugeni ha definito “postmediale”. Immersi in questa condizione, e largamente vittime delle manipolazioni e delle false libertà che comporta, sono soprattutto le persone più deprivate e bisognose di istruzione, all’interno delle nostre classi.

Una scuola nuova, che persegua nel presente i fini che la Costituzione le assegnò, non finge a se stessa che sia possibile confinare il digitale in un ristretto ambito strumentale. Al contrario, si preoccupa di dare autonomia, consapevolezza, spessore culturale – in una parola “senso” – all’esperienza tecnologica e visiva dei nostri studenti, spesso tragicamente vuota.

Quale rapporto fra il nuovo e la tradizione?

Naturalmente, questo non implica affatto abdicare alla nostra funzione di trasmettere un patrimonio di conoscenze e valori, per sostituirli, come auspicato da un recente Presidente del Consiglio addirittura per la classe dirigente, con l’insegnamento delle serie televisive.  Non si tratta di sostituire o affiancare ai libri la rete o la tv per guardare i contenuti anziché leggerli. In questo caso, davvero la tecnologia sarebbe solo canale e strumento.

Si tratta invece di affrontare un compito molto più impegnativo: tentare di confrontarsi con le estetiche, i linguaggi giovanili e gli strumenti che ne sono il tramite, anche attraverso una sorta di “meticciamento” di contenuti letterari e metodi critici.

Provo a fare un esempio, per scongiurare il rischio di non farmi capire. Studiare il ritmo narrativo e il senso del tempo nel romanzo del primo Novecento, o il tema del doppio in Stevenson, Dostoevskji, Svevo e Pirandello è certamente utile alle ragazze e ai ragazzi per conoscere elementi irrinunciabili del nostro e loro patrimonio storico e culturale, per accrescere la loro sensibilità e la loro intelligenza critica.

Attraverso un’alterità radicale di mezzi e fini comunicativi, potrebbe però anche servire ad accrescere la loro consapevolezza di cosa significa esporsi sui social ogni minuto allo sguardo degli altri (costruire la propria identità), o veder scomparire dopo poche ore la propria storia, e doverla sostituire con una nuova e diversa (vivere l’esperienza del proprio tempo). Si potrebbe così costruire una nuova e condivisa idea di identità e di tempo, all’incrocio fra la cultura colta e quella giovanile (anche pop), senza preoccupazioni di affermare il predominio di una sull’altra, o addirittura di negare ad una valore e diritto di esistere all’interno del percorso scolastico.

Per farlo, non sarebbe per forza necessario studiare o praticare i social giovanili: potrebbe essere sufficiente, soprattutto con le classi dei piccoli, lavorare sul cinema (di ieri e di oggi) in modo sistematico e contrastivo.

Nel 1993, ben lontano dalle polarizzazioni attuali intorno all’uso dei media nel percorso formativo, Howard Gardner preconizzava in “Educare al comprendere” una situazione molto vicina a quella odierna:

Come istituzioni distinte dal resto della società, le scuole devono affrontare il problema dei rapporti con la comunità di appartenenza. (…) Per lo più hanno ritenuto che un’azione indipendente dalle altre istituzioni promettesse di essere più efficace. Questa scelta si rivela particolarmente dubbia nella società contemporanea, in quanto nei media, nel mondo dei commerci e sulle strade sono costantemente in azione potenti fattori educativi (e diseducativi). La decisione di ignorare queste forze è comprensibile, ma non va dimenticato che si tratta di forze che, proprio perché così potenti e così onnipresenti, possono distruggere le azioni e i contenuti della scuola.

Il tempo è cambiato, ma l’esigenza di scegliere si fa ogni giorno più impellente. Si tratta di decidere se è più intelligente cercare di difendere il patrimonio culturale dell’istituzione erigendo un muro intorno al “sapere”. Oppure se, correndo indubbi rischi, è più produttivo gettare un ponte che consenta a chi insegna e a chi apprende di visitare i rispettivi paesi e conoscere in maniera non ipocrita i rispettivi immaginari.

Essere intellettuali: a parole o nei fatti?

Sono perfettamente consapevole che questa posizione può essere confusa con la moda delle “digital humanities”, una postura intellettuale neofuturista, basata in gran parte sul rifiuto della tradizione (prima fra tutte quella dell’istituzione scolastica e dei modelli tradizionali di formazione), e sull’apertura (meglio sulla resa) incondizionata alla colonizzazione dell’immaginario, ad opera di media e messaggi di ultima generazione. Tuttavia, una scuola delle conoscenze in cui il digitale resti confinato fra i mezzi di apprendimento potrà rassicurare molte e molti docenti, ma sottrarrà a tante ragazze e ragazzi una delle poche possibilità (spesso, l’unica) di riflettere sulle implicazioni psicologiche, culturali, etiche  della tecnologia di cui padroneggiano con disinvoltura il funzionamento. Risulterà quindi coerente e funzionale al tentativo di rendere “naturali” atteggiamenti e scelte che sono invece costruiti in nome di interessi tanto precisi quanto nascosti. Shoshana Zuboff (“Il capitalismo della sorveglianza”) li definisce “codice ombra”; la sua impostazione sociologica la induce a riflettere soprattutto sulle responsabilità dei politici e degli intellettuali, fino ad ora complici o sdegnati di fronte a quest’avanzata del digitale. Credo però che proprio la giusta rivendicazione, da parte degli estensori del manifesto sulla scuola nuova, di un ruolo di “intellettuale” e “professionista” per chi insegna, dovrebbe farci sentire coinvolti nel tentativo di illuminare questa zona d’ombra.

Il confinamento delle tecnologie di apprendimento nella sfera delle app comporta a mio avviso anche altre conseguenze.

La prima è già ben visibile nelle scuole: di tecnologia si occupano infatti in maniera quasi esclusiva docenti di materie scientifiche e tecniche. Questo significa porre i problemi legati alle tecnologie sul piano del funzionamento meccanico, non dell’opportunità culturale o delle implicazioni filosofiche ed etiche. Come se effettivamente chi insegna Storia, Filosofia o Letteratura si occupasse di altro, e dovesse ricorrere solo periodicamente al collega di Informatica/ Matematica per risolvere problemi. E, all’opposto, come se il docente di materie scientifiche non fosse investito delle implicazioni etiche e sociali delle tecniche che insegna.

In realtà non è (non dovrebbe essere?) così, e sappiamo bene che molte delle più importanti figure ed opere della cultura novecentesca e contemporanea lavorano esattamente sull’intreccio e sul confine fra tecnologico e umanistico (Levi, Calvino) o sulla traduzione del patrimonio della tradizione in linguaggi nuovi (Pasolini). Ma forse, osservo maliziosamente, non è un caso che parecchi fra i più strenui difensori della purezza della tradizione scolastica, e dell’esigenza di non macchiarla con contaminazioni pericolose (in particolare nei licei classico e scientifico), siano poi le stesse e gli stessi che terminano il loro percorso letterario, se va bene,  agli anni Venti del Novecento.

Primo Levi si definiva “tecnografo” e riteneva fondamentale che quelli come lui interloquissero con il mondo che vedeva crescere intorno a sé, il mondo dei “tecnocrati”. Credo che la nuova scuola, e per primo chi insegna materie umanistiche, dovrebbe riprendere e accettare questa sfida: nel mondo spietatamente tecnocratico che si sta creando, la dignità dell’uomo, e quella del sapere umanistico, non si difendono isolandolo e sminuendo la portata dei fenomeni epocali che ci circondano, ma al contrario accettando la sfida di studiare anche il senso del mondo che produce la tecnologia digitale, proprio attraverso il distanziamento cognitivo che nasce dallo studio della letteratura, della storia, della filosofia.

Altrimenti, cadremo in quello che Pier Cesare Rivoltella definisce “tecnoscetticismo sterile” (“Nuovi alfabeti”, pag. 35)

Esiste un tecnoscetticismo digitale?

Nel “Manifesto” si riprende anche un’associazione radicata nel senso comune: in molti casi, l’uso degli strumenti digitali provoca, soprattutto nei più giovani, disturbi psicologici e relazionali, incidendo profondamente sulla loro socialità e sulle qualità delle loro relazioni. Si tratta di un’idea supportata da evidenze scientifiche incontestabili, e sostenuta negli ultimi anni con particolare forza dal neuroscienziato Manfred Spitzer. A sostegno di questa visione negativa del rapporto fra relazione, studio e apprendimento, si cita esplicitamente la recente esperienza della didattica digitale integrata (la famigerata dad).

Il quadro politico e culturale attuale presenta indubbiamente, in quest’ambito, elementi di preoccupazione e di rischio: risulta infatti fondato il timore che il decisore politico, guidato da interessi e criteri di valutazione estranei alla scuola (fondazioni, organizzazioni, gruppi di pressione lobbystici) possa sfruttare il ritorno alla normalità per conservare e consolidare alle tecnologie per l’apprendimento il ruolo di assoluta e inevitabile preminenza assunto durante l’emergenza.

Di fronte a questa realtà, ci sono solo due strade.

La prima è abbracciare, magari in modo non dichiarato, l’idea di una “ontologia negativa del visivo” resa popolare da Giovanni Sartori; per il quale l’homo videns è una degenerazione dell’homo sapiens, e “il sapere per immagini non è un sapere nel senso conoscitivo del termine e, più che diffondere sapere, ne erode le premesse”.

La seconda strada è dialogare con le idee della media education, i cui principali teorici (Rivoltella, Turkle, Buckingham, Jenkins) sono propositivi, consapevoli e colti. La proposta di un largo dibattito sulla presenza dei media nel percorso formativo informale della cultura pop, l’intreccio fra cultura “colta” e “giovanile”, la compromissione della sfera tecnologica con potentissimi interessi economici e manipolazioni culturali, costituiscono infatti la linfa vitale e il punto di partenza della riflessione più avanzata sul digitale.

Lo spiega con chiarezza Pier Cesare Rivoltella (“Nuovi alfabeti”), riferendosi al crescente mercato dell’autoapprendimento e dell’autoalfabetizzazione, in gran parte determinato da esigenze di vendita di prodotti sempre nuovi:

Il risultato è l’ingannevole idea che al tempo del digitale non servano più insegnanti, educatori e formatori: la falsa ipotesi del nativo digitale rappresenta un esempio paradigmatico di questo modo di pensare. Di fatto, vale esattamente il contrario, ovvero la mediazione didattica ed educativa finisce per avere una ancora maggior importanza. Il problema è che non può più essere svolta come in passato.

Cancellare la sfida educativa e didattica di questa alfabetizzazione dalla scuola del futuro, richiudendola nella sfera delle app e di un sapere tecnico, sarebbe semplicemente un tragico errore.

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