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diretto da Romano Luperini

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Vulesse addeventare nu brigante: a proposito di Italiana di G. Catozzella

 La storia narrata in questo romanzo basato su documenti è realmente accaduta. Eventi e personaggi narrati sono da considerarsi reali e non frutto della fantasia dell’autore.

Ogni accadimento e snodo storico è documentato da più fonti. I documenti riportati (telegrammi, sentenze, affissioni, discorsi, lettere) sono reali.

Gli accadimenti storici e privati della vita di Maria Oliverio e di Pietro Monaco sono documentati negli atti dei processi depositati presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma, l’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma e l’Archivio di Stato di Cosenza. (G. Catozzella, Italiana, Mondadori, 2021, pag. 9) 

Prima di leggere il lettore è avvertito. E dopo aver letto, l’autore fornisce ulteriori informazioni nella sua Nota

L’idea di questo romanzo è nata molti anni fa, quando da bambino mia nonna mi raccontò le gesta di un’ava che insieme al marito combatteva dai boschi come brigantessa.

Le prime fonti per tracciare la vita di Maria Oliverio sono stati gli articoli che Alexandre Dumas le dedicò su “l’Indipendente”, il giornale che diresse dal 1860 al 1864. Nel 1864 Dumas ne scrisse anche la storia in sette puntate e aveva in progetto un romanzo che non completò. Quello stesso anno scrisse invece ‘Robin Hood. Il principe dei ladri’, che uscì postumo nel 1872, ispirato a Maria Oliverio e a suo marito Pietro Monaco.

Fondamentali sono stati gli studi accuratissimi di Peppino Curcio e i faldoni dei processi istruiti contro Maria Oliverio e la banda Monaco, depositati all’Archivio Centrale dello Stato di Roma, all’Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito di Roma e all’Archivio di Stato di Cosenza, che mi hanno consentito di ricostruire tutti gli eventi con la massima precisione, fino alla resa fedele di alcuni dialoghi. Detto questo, è pur sempre un romanzo. (pag. 321)

Catozzella ha ragione nell’insistere sulla realtà dei fatti e sulla verità dell’invenzione romanzesca, ma alla fine della lettura del romanzo si tenderebbe a credere che abbia avuto la meglio l’invenzione sulla realtà, per questo l’autore sente la necessità di ritornare sulla documentazione: i due poli del romanzo storico sembrano attirare in un perpetuo moto alternato il lettore, alla fine interdetto. Si propende per la finzione del romanzo, in conclusione: Ciccilla, la terribile brigantessa di Dumas, diventa in Catozzella un personaggio romanzesco di ben altro spessore, donna alla ricerca di emancipazione e di riscatto sociale, questa Maria Oliverio osserva i boschi della Sila con gli occhi di Rigoni Stern (a cui rimanda esplicitamente Catozzella) e la montagna è forse vissuta con Fenoglio e Zanzotto. Ma più di ogni altra cosa si fa sentire in questo nuovo personaggio femminile una sensibilità esistenzialista che le fa vivere il bosco, sola e selvaggia, in comunione – per esempio – con la lupa Bacca, e con l’astore, il nibbio bruno e la poiana che «sono uccelli giusti».

Appaiono, a volte, trasparenze dannunziane in filigrana

Iniziava al tramonto e andava avanti fino all’alba, una pioggia sottile e continua che degli aghi dei larici, delle pigne e delle foglie dei faggi faceva un unico ammasso scuro che lavava i pensieri e alla fine mi sembrava benedetto. […] Mi dissetavo con l’acqua della pioggia, lanciandomi sui cuscini dei muschi, e di notte diventavo anch’io terra di bosco, un seme che la pioggia fecondava. (pag.216)

Vivevo secondo i cicli naturali del sole e della luna, secondo quelli delle stagioni, come aveva vissuto zia Terremoto, come aveva vissuto nonna Tinuzza (pag.236)

A volte la brigantessa Ciccilla ha le stesse sensazioni del poeta-soldato che scrive M’illumino d’immenso

Da quando vivevo nel bosco, a colpirmi più di tutto era la luce. Si presentava timida, col sorgere del giorno, ma appena il sole superava i fusti scoppiava dentro il cielo e bruciava tutto. Ogni mattina fissavo quel miracolo con occhi bene aperti: era la luce che si sottraeva all’ingiustizia, che rinnovava la forza di lottare (pag.236)

La banalità del male della storia evapora in un sistema in cui fondamentalmente si riconoscono romanzescamente i buoni distinti dai cattivi e si sente l’eco di tanta letteratura, anche quella risorgimentale: Nievo e il giustamente dimenticato Verga del giovanile I carbonari della montagna, e quello, poi corretto da Sciascia, di Libertà delle Rusticane. E la sempiterna interpretazione del nostro risorgimento di derivazione lampedusiana.

Il 17 marzo è nata l’Italia e presto tutti si sono resi conto che quella che sembrava una rivoluzione non era che una messinscena.

Sapevo che quando Pietro fosse tornato avrebbe trovato la situazione come non avevo avuto il coraggio di raccontargli nelle mie lettere. La verità era che ogni cosa funzionava ancora peggio di prima, i paesi e le città erano immersi in una cieca e lenta distruzione, la miseria era ovunque e noi eravamo sempre più servi.

[…] Niente era cambiato, e il modo migliore per disinnescare una rivoluzione era farla. (pag. 192).

All’orecchio del padre morto Maria aveva, infatti, sussurrato:

«Avevi ragione, papà» […] «da noi le cose cambiano solo per non cambiare mai.» (pag.170)

Il filo del racconto

La vicenda ambientata in Calabria è narrata dalla protagonista in flashback nelle prime tre parti del romanzo, IN PAESE, ITALIA, NEL BOSCO, per lasciare alla quarta, LIBERTÀ, lo scorrere del tempo lineare fino alla morte. La prima parte è preceduta da un verbale di comparizione del Tribunale Speciale Militare di Catanzaro, datato 16 febbraio 1864 e l’ultima parte riprende la narrazione con il diario di Maria, Domenica 14 febbraio 1864. I piani narrativi appaiono stratificati e incastrati nella supercornice dell’autore di cui si è detto. Il racconto vuole essere anche la storia di un’emancipazione femminile.

Ma una cosa dev’essere chiara: se ho usato un coltello per tagliarmi i capelli e mi sono vestita da uomo non è stato per essere come uno di loro. Se l’ho fatto è stato perché, senza, non mi sarei mai liberata. Senza, sarei rimasta Maria. (pag.14)

La madre, che stava per essere picchiata dal marito, le aveva rivelato le regole della vita nel mondo degli uomini

«Siamo donne, Mari’, era meglio nascere maschi. Possiamo solo prendere. Tu devi stare attenta, perché di uomini onesti là fuori non ce n’è assai.» (pag.79)

La storia di Maria sembra, dunque, segnata dalla sua condizione femminile e dalla povertà estrema della famiglia. Il padre, rassegnato a non possedere mai la terra che lavora, si ammazza di fatica e di debiti, la madre, tessitrice, guarda al bosco da cui proviene come unica possibilità di libertà a cui però ha rinunciato sposandosi. Eppure la descrizione della vita familiare risulta idillica, fino a quando non ritorna in casa Teresa, la figlia primogenita che era stata adottata da nobili campani rimasti uccisi, incastrati tra le barricate, nella Napoli in rivolta del 1848. Teresa considera Maria, che doveva anch’essa essere adottata dai medesimi nobili, responsabile di quella morte e della sua rovina

«Tu hai rovinato la mia vita…» ha continuato. Mi ha guardata, il suo sguardo era malefico. […] «Io rovinerò la tua.» (pag.44)

Teresa, vera anima nera del racconto, sarà implacabile nel suo proposito: non avrà alcuna esitazione nel procurare ogni male alla sorella minore, con compiacimento diabolico tramerà costantemente ai suoi danni, finché Maria non la ucciderà, dopo aver scoperta la tresca tra lei e suo marito. Pietro era un «cravunaro» (carbonaio), che era piaciuto a Teresa sempre molto di più di Salvatore, che aveva sposato in quanto buon partito: nobile e proprietario di tutte le «cravunere» della zona, oltre che di quella in cui lavorava Pietro. È lui, in realtà, il catalizzatore della storia di Maria. Soldato borbonico di leva nel 1855, parteciperà alla spedizione di Sapri nel 1857, e poi alla guerra garibaldina nel ’60, con la fiducia di cambiare il mondo secondo le idee socialiste di Pisacane. Dopo aver sposato Maria, di fronte alla piemontesizzazione sabauda ed alla chiamata di leva, salirà in montagna a fare la guerra ai nobili ed ai traditori e diventerà brigante. Scenderà dalla montagna di tanto in tanto per incontrare Maria, ed anche Teresa. Sarà raggiunto da Maria, delusa di lui, dopo l’omicidio di Teresa, e così la banda di Pietro Monaco avrà un altro indiscusso capo nella moglie, che prenderà il soprannome di Ciccilla in onore di re Francesco II di Borbone. La banda opererà razzie contro i possidenti e sequestri di persone ottenendo ricchissimi riscatti. Ma i bersaglieri e gli ex Cacciatori delle Alpi gli sono alle calcagna. Pietro sarà tradito e ucciso da due componenti della banda, Ciccilla fuggirà e ancora una volta il bosco la accoglierà come da bambina con la zia Terremoto, quando Teresa aveva preteso che se ne andasse via di casa, ma infine sarà catturata. Processata, è condannata a morte, la condanna è commutata in lavori forzati, ma lei ancora fuggirà e ancora correrà verso il bosco e la salvezza mentre gli spari la inchiodano a terra a strisciare sul suo sangue.

Dalla rupe sono arrivati altri tre colpi, ed è stato come se il Monte Botte Donato mi fosse cascato addosso tutto intero.

‘Bum’. ‘Bum’. ‘Bum’.

«Italiaaaana!»

Forse, ho pensato, adesso smetteranno.

Forse, ho pensato, adesso ci renderemo conto che un giorno siamo stati vivi. (pag.317)

L’ordito della storia

La storia in cui gli uomini vivono e muoiono è un sistema estremamente complesso che più volte si è cercato di semplificare secondo linee di forza che rendessero evidente la collocazione dei giusti al cospetto dei malvagi. Tuttavia la storia recalcitra a farsi ingabbiare in categorie che essa stessa produce nel suo dialettico srotolarsi secondo direzioni e inversioni imprevedibili ai più. La storia del brigantaggio meridionale è certamente parte della nostra storia e certamente non è comprensibile utilizzando Robin Hood come chiave interpretativa. Gli errori della classe dirigente piemontese, a cominciare da Cavour, nella storia si mescolano con le aspirazioni meridionali non solo alla terra per i contadini, ma anche ad un governo che imponesse meno tasse e governasse di meno dei Borboni. L’antipatia dei Tedeschi del Sud nei confronti della Prussia è la stessa che anima l’avversione meridionale nei confronti del Piemonte. La guerra civile di tipo irlandese che scoppia in Italia nel 1861 e si dichiara ufficialmente chiusa nel 1865 fa un numero di morti superiore a quello di tutte le altre guerre del Risorgimento messe insieme, con atrocità che Catozzella ricorda di sfuggita, ma che riguardarono entrambi gli schieramenti in lotta. Le aspirazioni controrivoluzionarie e filo borboniche, le sovvenzioni della Chiesa, che considerava i piemontesi dei briganti che si erano impadroniti di gran parte del suo patrimonio, gli accordi con la camorra e la mafia si intrecciano alla storia politica e alla storia del banditismo meridionale. Gli inglesi durante le guerre napoleoniche avevano sovvenzionato e incoraggiato i briganti contro i Francesi e poi i Borboni dovettero trattare con Fra’ Diavolo come con un capo di stato. I piemontesi combatterono la camorra e poi le affidarono funzioni di polizia per controllare Napoli. La storia molto spesso non ha eroi, che vengono costruiti poi, nel racconto che della storia si fa. Catozzella guarda a quel mondo con umana comprensione, con partecipazione addirittura familiare. Ma la storia d’Italia non può essere l’epica del brigante. La patria non è la montagna che rievoca implicitamente le lotte partigiane, perché altrimenti si rischia di fare pericolose confusioni. La lotta armata degli anni del terrorismo poggiava su una cultura popolare artificiosamente costruita che faceva del brigante l’eversore del potere costituito, come cantava Eugenio Bennato nel 1980. E non è stata una pagina epica neanche quella. È stata soltanto una tragedia.

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