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A scuola con Bergson

Negli ultimi anni si assiste allo sforzo di rinnovare la didattica fornendo denaro agli istituti scolastici per acquistare computer e lavagne multimediali. Il fine dichiarato è l’innovazione dei luoghi di apprendimento e l’introduzione massiccia dell’informatica: se ne promuove l’uso come strumento nei metodi di insegnamento, per permettere a tutte e tutti, insegnanti e studenti, di sfruttare al meglio le potenzialità formative degli strumenti tecnologici e della rete.

Se, come accade nella scuola, altri sono i bisogni da colmare, si crea uno scarto simile a quello vissuto da chi, possedendo una bella fila di luminarie natalizie, manca della corrente per accenderle.

Le prime nozioni che i maestri e le maestre insegnano sono scrivere e far di conto e quelle restano alla base di ogni conoscenza futura. Leggere un testo, sia esso la targhetta dei prodotti in vendita sia il saggio su Holderlin di Heidegger, richiede competenze che si affinano e precisano attraverso il percorso che dalle elementari conduce alle superiori e che si possono perdere se non esercitate.

Gli strumenti tecnologici purtroppo non servono a migliorare le competenze linguistiche e interpretative.

Essi diventano utili quando si è capaci di comprendere le proprie azioni lasciando che l’aspetto più razionale della coscienza intervenga sull’istinto naturale di perseguire il piacere più immediato. Il rischio infatti che risulta chiaro a chi insegna è la ricerca del naturale soddisfacimento temporaneo, quello che allenta l’ansia e rimanda a dopo la noia di assistere a un’interrogazione, sparando al maggior numero di nemici possibili su sfondo rosso o inviando una faccina preoccupata al proprio migliore amico che la mattina sembrava un po’ triste.

Nella scuola non dovrebbe essere dato tanto spazio e tempo alla fibra, a internet e alle piattaforme ma alla riflessione su che cosa sono, sui mille modi per usarle, in modo che siamo noi a usare loro e non il contrario. L’esercizio del pensiero libero rischia di essere messo in discussione dalla necessità di incasellare ogni passaggio della propria crescita in uno schema di pensiero codificato nella forma oggi vincente (il coding o pensiero computazionale, secondo i dettami di molta pedagogia odierna).

L’ammirazione acritica per l’informatica rientra forse nella considerazione di cui godono la scienza e le materie scientifiche in generale, fondata sull’idea di oggettività della conoscenza, per cui le proposizioni della scienza sarebbero valide sempre e per tutti mentre quelle dalle scienze dello spirito non lo sarebbero altrettanto.

Ci muoviamo in un paradosso: mentre i problemi a cui le teorie elaborate dalla scienza cercano risposta cambiano insieme alle epoche storiche a cui si riferiscono, la natura dell’essere umano, dei caratteri dell’azione morale e dei principi che muovono il vivere in società, non sono dissimili con il trascorrere del tempo. La riflessione di Pascal sul divertissement o di Platone sull’educazione dei governanti della città giusta sono un esempio di come si possano comprendere appieno le tesi riguardanti la filosofia pratica. La collocazione storica di esse non ne esaurisce la validità: siamo ancora, o forse per sempre, dentro il loro senso, finché la struttura mentale dell’essere umano resta quella che lo caratterizza da almeno cinquemila anni.

Inoltre, le “Idee che oggi formano la base della scienza esistono solo perché ci furono cose come il pregiudizio l’opinione, la passione; perché queste cose si opposero alla ragione e perché fu permesso di operare a modo loro”[1]: per Feyerabend, allievo di Karl Popper, la metafisica e le scienze dell’uomo danno senso allo sviluppo delle scienze esatte, costituiscono le coordinate di riferimento di ogni sistema scientifico. La mente che apprende non è vuota, ma già condizionata da pre-concetti e da una complessa trama di significati connaturati al tempo in cui vive, che determina sia la natura dei problemi posti sia la loro risoluzione. Nel suo porsi, l’osservazione sperimentale esprime aspettative specifiche che invitano a guardare in una direzione precisa. L’esperimento infatti sostiene o nega la teoria. Non osserviamo tutto, ma solo quei fenomeni che aderiscono alla smentita o conferma dell’ipotesi. L’epoca in cui viviamo fa da sfondo interpretativo alle nostre azioni, condizionandone aspettative, speranze e conoscenze.

Senza voler giungere all’anarchismo metodologico di Feyerabend, basti ammettere l’uso regolativo delle idee metafisiche che Kant attribuì all’anima, al mondo, inteso nella sua totalità e a Dio (l’ideale della Ragione). Queste idee non sono ricavate dalla natura, piuttosto siamo noi che cerchiamo di intendere la natura attraverso esse.

La ragione umana, il cui fine ultimo è tendere alla conoscenza dell’anima del mondo e di Dio, indica attraverso le idee la strada all’intelletto analitico e individua quale sia il fine ultimo della conoscenza, senza cui l’intelletto sarebbe cieco, non sapendo da quale parte rivolgere la sua indagine.

Oltre la fiducia nel progresso scientifico che ci porta a tentare di risolvere i problemi didattici attraverso la strada dell’analitica, potremmo praticare un’inversione sostanziale che ci faccia superare la diffidenza verso le forme di conoscenza non esatte, appunto le scienze umane.

Dare più fiducia alla umanità della nostra natura, ammettere l’errore come stimolo e la differenza come risorsa, aiuterebbe la scuola ad essere quello che è: una comunità di uomini e donne che imparano e vivono.

La scuola oggi non ha bisogno di più tecnologia ma di un supplemento d’anima.

[1] P. Feyerabend, Contro il metodo, Milano, Feltrinelli, 2002, pag. 146.

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