Inchiesta sul lavoro di editor/2: Laura Bosio (Guanda)
A cura di Morena Marsilio e Emanuele Zinato
Con l’intervista di oggi continua l’inchiesta – che ha cadenza quindicinale – sulla professione dell’editor. Nel corso del Novecento questo “mestiere” è stato svolto da scrittori come Calvino, Vittorini, Sereni che fungevano da mediatori tra società letteraria, case editrici e pubblico; oggi il mondo dell’editoria è stato investito da grandi trasformazioni che sembrano aver dissolto la figura dell’intellettuale-editore e modificato in profondità il lavoro editoriale. Questa indagine mira a sondare come sia mutata, tra dissolvenze e persistenze, la funzione dell’editor all’interno della filiera del libro, coinvolgendo sia case editrici indipendenti sia l’editoria maggiore. Qui trovate la prima intervista.
1. Editing e condizioni materiali del lavoro intellettuale. Qual è il suo rapporto lavorativo e quanti libri è chiamato a editare in un anno?
Lavoro all’esterno della casa editrice con la quale principalmente collaboro da anni e edito circa dieci libri all’anno, per lo più romanzi. Una scelta, quella di lavorare all’esterno, che mi ha permesso di concentrarmi con maggiore attenzione, direi in modo quasi esclusivo, sui testi di cui mi occupo.
2. Su che basi si imposta il dialogo tra l’editor e lo scrittore. Come viene “associato” un autore a un editor (per affinità tematiche, di generi letterari…); quanto del lavoro di editor può rientrare in queste categorie: semplice revisione (ruolo tecnico), interpretazione (ruolo di critico); riscrittura (ruolo creativo). Quanto e come queste tre funzioni si traducono in un dialogo con l’autore?
Essere scrittrice, avere esperienza della scrittura “dall’interno”, probabilmente mi aiuta nel mio lavoro, ma non è certo un requisito essenziale. Bisogna staccarsi dalle proprie modalità e predilezioni per entrare in un altro linguaggio, in altri mondi espressivi. Personalmente, faccio distinzione tra quello che cerco come scrittrice e quello che scopro come lettrice, e sono curiosa di strade diverse dalla mia. Non sovrapporsi è fondamentale per editare un testo: lo considererei un fallimento. È necessario osservare, ascoltare le pagine: isolare le parti che sembrano arrivate a un maggiore compimento e poi, insieme all’autore, portare il più possibile a quel livello anche le altre. Il dialogo con l’autore è basilare: il compito dell’editor è aiutare l’autore ad acquistare consapevolezza del proprio testo mentre ne chiarisce le ragioni all’editor e a se stesso. L’invadenza, il “maltrattamento”, l’appiattimento, la “manomissione”, il livellamento rispondente a “logiche di mercato” non fanno parte della mia pratica: è una mia forma di resistenza. Non mi sono mai sentita un Mida – per usare termini con cui l’editor viene a volte definito – che trasforma la materia eccentrica e difforme di un testo per renderla accessibile al pubblico più vasto. Né l’editore con cui principalmente collaboro me lo ha, del resto, mai chiesto. La scommessa sul gradimento di un testo è già avvenuta al momento della sua acquisizione, di quel testo e non di un altro, che l’editor deve semmai valorizzare individuando con l’autore aspetti sfuggiti, rimasti nascosti, facendo il gioco di quell‘opera e non di una ipotetica altra. Nessuna standardizzazione della lingua e dello “stile”, nessuna adesione a blocchi stereotipi, ma al contrario valorizzazione della sua “diversità”, unicità, il più possibile. Se il testo lo richiede, si rinuncia anche alla rigida applicazione delle “norme grafiche” per rispettare i “segni” scelti dall’autore. L’obiettivo non è un testo “impeccabilmente” scritto, ma un testo vivo. Il risultato, ovviamente, non è scontato.
3. La sua specifica formazione da editor.
Ho cominciato facendo il lettore editoriale, un mestiere che si impara. Cosa chiede un editore al lettore? Innanzitutto di essere sincero, parola impegnativa, me ne rendo conto, ma in questo caso pertinente: gli chiede cioè di esprimere con precisione che cosa prova di fronte al testo che gli viene sottoposto. Ma, contemporaneamente, gli chiede di uscire da se stesso per immedesimarsi negli altri, individuando il pubblico a cui quel testo potrebbe piacere. Esercizio difficile. Giuseppe Pontiggia, che accanto all’attività di narratore e di saggista si è dedicato a lungo a questa professione, ha chiamato la lettura editoriale “lettura come se”. Si leggono i testi come se dovessero piacere o non piacere al pubblico. Alla fine si sceglie il testo che piace come se piacesse agli altri e anche a chi lo sceglie. Così si pubblicano i testi che piacciono agli editori come se piacessero a un pubblico a cui molte volte non piacciono. E alla fine, di fronte alle vendite sconfortanti di un libro, gli stessi editori chiedono: “Ma a chi era piaciuto?”. In realtà, quello del lettore editoriale è uno spazio critico libero e ha contribuito alla mia formazione di editor, a darmi strumenti per quel lavoro di interpretazione di cui si diceva prima.
4. Tradizionalmente si considera l’editor un agente dell’editoria che tende a formattare il prodotto letterario per favorirne la vendita. Quanto questa immagine oggi corrisponde al lavoro reale di editor?
Ne abbiamo già parlato e non è la mia prospettiva. È un dato acquisito che l’editoria nel Novecento abbia avuto un ruolo decisivo nella scoperta di autori, nella valorizzazione di opere, nella diffusione di correnti speculative e estetiche, nell’avvicinamento serio e approfondito ai classici. Le case editrici sono però diventate sempre di più un’industria, lo dico senza sottolineature negative, e cultura ed editoria cercano ancora di trovare un punto di equilibrio tra investimenti e progetti. Sappiamo che il profitto è essenziale per la sopravvivenza. Ma le case editrici possono fare del profitto l’elemento qualificante? Non è riducendo lo spazio della progettazione e della ricerca, ma al contrario allagandolo, che si possono ottenere i risultati più importanti, su ogni piano, forse. E alcuni editori non hanno smesso di farlo.
5. Come lavora allo scouting? Quali modalità di “reclutamento” e selezione predilige? Quali canali utilizza?
Lo scouting, dall’esterno della casa editrice, non è tra i miei compiti specifici. Ma individuare nuovi autori è per forza di cose collegato al mio lavoro. Leggo i testi che arrivano all’editore, vado spesso in libreria, seguo quotidiani, inserti letterari, riviste, blog, radio, ascolto preferenze di amici e amiche che so essere lettori esigenti, sono attenta a potenziali autori in scuole di scrittura dove vengo invitata a parlare del mio lavoro. Quando leggo un testo di un autore sconosciuto cerco di capire se mi parla, mi sorprende, mi colpisce, attraverso la storia che racconta, i personaggi, la scrittura. Ma provo soprattutto a non pensare al già noto, alle cosiddette tendenze. Per scoprire la “novità” bisogna essere aperti, disponibili. Altrimenti si finisce per scoprire soltanto gli epigoni. Chi poi resterà, diventerà magari un modello riconosciuto, difficile dirlo. Sono attirata dalla circolazione caotica di idee, dal disordine vitale, da questo una casa editrice ha sempre da guadagnare. La tendenza alla piattezza e all’omologazione, spesso lamentata dalla critica, mi sembra dipendere anche dalla distanza eccessiva da cui le opere vengono guardate. Chi legge cerca nei libri piacere, intrattenimento, ma anche, credo, qualcosa che serva alla vita, e non è detto che non lo trovi in opere magari “imperfette” sul piano letterario.
6. Quale rapporto ideale (dissolvenza, rimozione, assunzione di eredità) gli editor odierni intrattengono con le figure editoriali ‘leggendarie’ del novecento (da Vittorini a Sereni)?
Nel mio caso, direi, assunzione di eredità, tenendo conto dei mutamenti sociali, economici, estetici.
7. Casi di studio: può fare uno o più esempi di testi esemplari con cui si è confrontato?
Ogni testo per me è un caso esemplare, un’occasione.
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