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diretto da Romano Luperini

Il 4 gennaio si è spento, a Milano, Franco Loi. Questo breve saggio è un modo per ricordare e rendere omaggio alla «vûs fina» di uno dei più grandi poeti dialettali del secondo Novecento, la cui morte, forse, è sfuggita all’attenzione di molti.

«Vèss om e vèss puèta»

«I’ mi son un che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’è ditta dentro vo significando». Così, citando Dante (il riferimento è al canto XXIV del Purgatorio) assai spesso negli anni, Franco Loi ha risposto a chi gli chiedesse di definire i fondamenti del suo discorso poetico, dichiarando apertamente, senza remore, che i suoi versi sono il risultato dell’espressione libera di sé, che rifiuta convenzioni artificiose. L’essenza della sua poesia si dispiega, dunque, dall’«intuizione, dall’osservazione del reale, dalla vicinanza alle cose», dall’«amore per la vita» che genera un movimento, un’emissione di suoni che divengono successivamente significati, quindi parole.

La scrittura non è il risultato di una costruzione mentale del poeta che raccoglie e classifica, ante rem, i contenuti dell’ispirazione, e non ha a che fare con l’intenzione razionale di trasmettere un’immagine idealistica o intellettualistica; nasce, invece, dall’ascolto autentico della propria memoria inconscia e, insieme, del mondo, è una rivisitazione a posteriori di una rivelazione, di una circostanza folgorante, atemporale, «nel momento in cui l’amore induce a esprimersi», e in cui  si fondono una miriade di eventi sparsi, «immagini, frammenti, ombre» («Ma cos’è la poesia? È come il sogno, esprime la nostra parte inconscia, quello che ti viene dettato da dentro […]. A volte le cose sono chiare, altre volte sono immagini, frammenti, ombre a cui a fatica si riesce a dare un significato; «La poesia è il momento in cui ti congiungi con l’ignoto, con il mistero, anche con Dio. Scrivi perché è necessario, la forma viene dopo. Il primo che ha composto in endecasillabi non è partito dalla metrica»).

D’altronde, non è possibile parlare di esperienza religiosa, mistica, orfica, ché l’esperienza poetica è rielaborata, anzi, in forma razionale, e ha sì le sembianze di un sogno, come dice Loi, ma vissuto ad occhi aperti e ricostruito, poi, in presenza della ragione (la definizione originale, «la poesia è un sogno fatto in presenza della ragione» è, però, di Tommaso Ceva, spesso presa in prestito da Montale), in cui le parole, da Stròlegh a I niül, rivendicano con fermezza il diritto di rappresentare, con «furioso impegno mimetico» (Brevini), «i ròbb del mund» (Dent la paròla vèrta mi me pèrdi, in Isman). Innanzitutto Milano, «citâ di matt», «cun l’aria senza temp», con le sue strade, le persone, i rumori che rompono la notte, i suoi silenzi. Poi la storia con i suoi morti, la politica con i suoi errori, la «class uperara» e, ancora, il tempo fugace, il «fi’sc de la memoria», «la vita nel so vent», la morte, la fede nella poesia, la paura del nulla, l’amore, ‘na lüs sensa pietä anche in tarda in età, e Dio.

Loi non comunica una visione del mondo totalmente introflessa, né è custode passivo di un linguaggio incontenibile, la sua voce, onirica e visionaria, riesce sempre a trovare una armonia lucida tra le contraddizioni, un equilibrio compatto tra la tensione di tragedie storiche e sociali, individuali e collettive e la serenità temperata dalla coscienza, perché la poesia, sempre, «l’è storia de vita e de resun» (Che scrìven in diàlett o in italian).

«Mì scrivi in milanes, e lur me dìsen che sun arius o che capìssen no…»

Il dialetto attiene all’essenza umana di Loi, e non è un esperimento letterario, è una scelta esistenziale, «una lingua non di natura ma di elezione e di storia» (Mengaldo), che sfida la diffidenza di una certa parte dell’ambiente culturale italiano che guardava, come Fortini ha confermato proprio nell’introduzione a Stròlegh («[…] ho un pregiudizio sulla poesia dialettale. Mi nasce diffidenza per la illusoria immediatezza offerta dall’abbandono al suo scivolo struggente, emozionante; come per dire ‘basta’ ad altro, ad altra fatica»). Il sospetto era che questa scelta costituisse un patetico tentativo di regressione sentimentale, di sprofondamento nostalgico, per dire ciò che in italiano non è conveniente dire (Giudici parlava addirittura di «dialettanti»). Tuttavia Loi è lontano da questo gusto umbratile e crepuscolare, in lui il dialetto è una lingua schietta e viscerale, come ha scritto Raboni, «cruenta e oltraggiosa, piena di asperità e di grumi, luogo di infinite agglomerazioni e di accanita verifica del vero», una «pronuncia autentica del vivere». La poetica di Loi si distingue non solo da quella dei classici della poesia dialettale lombarda (Porta, Tessa), ma anche da quella di poeti come Zanzotto, per cui il dialetto è «logos erchomenos, lingua veniente di là dove non è scrittura […] né grammatica», e Pasolini, per cui è, ancora, «lingua anteriore e infinitamente più pura».

Per Loi il milanese non è «lingua materna», ma «paterna», la lingua ruvida e realistica dell’espressione quotidiana, di «sangue popolare», un tentativo di comunicare «una visione del mondo all’interno di un’esperienza», un mondo, però, «che non si sente paradigma di nulla ma semplicemente e prepotentemente vita» (così il poeta raccontava in una lettera a Fortini).

«L’invisìbel müseca del feng»

La pienezza del dialetto si incarna in un milanese singolare, estraneo a quello della tradizione letteraria della città, e in cui i milanesi autentici non riescono a riconoscersi completamente. Loi è «trascinato», grazie a l’invisìbel müseca del feng», verso un idioma irresistibile, stravagante, mescidato, tipico dei «casciavit» delle periferie (il termine, che in dialetto milanese significa cacciavite, simbolo del lavoro manuale e operaio, con cui nei primi anni Venti del Novecento si tende a identificare la tifoseria milanista di origine proletaria, contro i «bauscia» interisti della “Milano bene”), in cui convivono e si mescolano elementi linguistici del proletariato meneghino con quelli tipici degli immigrati dalla campagna lombarda o da altre regioni, un idioma che ha funzionato in passato «non solo come mezzo di scambio, ma come strumento di comprensione e amalgama» (Isella). Loi, però, non si limita solo a questo spazio ridotto, e privilegiato, che riflette la realtà umile e ritirata degli sfruttati, ma lo rielabora, lo esaspera di drammatica forza civile, in cui recupera l’immaginario rivoluzionario risalente alla coscienza storica della sua adolescenza e della sua giovinezza (gli anni della guerra civile, Piazza Loreto nel 1944 e nel 1945, le lotte del proletariato, il fallimento della sinistra), e lo contamina ulteriormente con altri dialetti (il colornese della madre, il genovese della sua prima infanzia), con neologismi, con  il latino, con le lingue straniere e, infine, con l’italiano letterario (Dante su tutti), ottenendo un impasto linguistico denso e magmatico.

Il risultato, soprattutto nelle prime raccolte (basti pensare a Stròlegh), è un linguaggio totalizzante, deformante, iperrealistico, straniante, violentemente espressionista (Mengaldo), con cui il poeta celebra l’epopea operaia, ed esprime in modo radicale la propria idea della classe oppressa e della sua cultura. Successivamente Loi sembra inclinare sempre più apertamente verso una maggiore concentrazione lirica, verso sonorità più lievi, con una certa tendenza al monolinguismo (anche se il poeta ha puntualizzato che si tratta di «differenza più espressiva che sostanziale»), un’attrazione sempre più marcata per una religiosità libertaria e anarchica, anche se continuano a non mancare, nella sua produzione, zone di dialetto basso, niente affatto smussato.

«Se mì te pensi, Diu, me vègn la vita, se mì te senti, la vita l’è den mi…»

Presenza significativa e assidua, nella poesia di Loi, è quella di Dio. Un Dio che «non è pensiero, non è un’idea» e, anzi, può essere sentito e vissuto intensamente solo se non viene pensato, analizzato, poiché il pensiero umano tende a scomporre, a indagare, ad arrovellarsi sull’ignoto in cerca di una verità razionale e assoluta («De Diu sun matt, se streppa la cusciensa. / Vu ’n gir, el pensi, me ′l remèni, e vu… / E püsse ’l pensi, e pü ghe sun luntan. / Diu l’è schersûs… L’è cume fa la lüna, / ch’i mè penser în nüver, e lü se scund»: Di Dio sono pazzo, si strappa la coscienza. / Vado in giro, lo penso, me lo rimugino, e vado… / E più lo penso, e più gli sono lontano. / Dio è scherzoso… ché i miei pensieri sono nuvole e lui si nasconde», De Diu sun matt, se streppa la cusciensa, in Memoria).

Il Dio di Loi, invece, non è un Dio «concettuale e teologico», è un’alterità sconosciuta ma, comunque, una scintilla concreta, un’energia che non può essere scandagliata perché è nel divenire stesso di ogni cosa e di ogni esistenza, fuori e dentro l’uomo, e si ricrea continuamente attraverso l’esperienza della fede, intesa, alla maniera dantesca, come «sostanza di cose sperate» («Diu l’è no n’penser, l’è no n’idèja, / ma l’è ‘na spada che te passa el cör, / ‘na furma del sentì, un pes de prèja / che se fa aria nel vurè del cör»: «Dio non è pensiero, non un’idea / ’a è una spada che ti passa il cuore,  / una forma del sentire, un peso di pietra / che si fa aria nel volere del cuore», Diu l’è no n’penser, l’è no n’idèja, in Isman).

Avere fede per Loi non significa, quindi, pretendere di impadronirsi dell’altro da sé e intrappolarlo nella propria chiusura egoica, ma di accettare il silenzio che non offre certezze, né rassicurazioni, l’ombra nascosta che, senza pieta, passeggia inquieta, e va e torna.

Lü l’è ‘l silensi, e mí ghe parli dâs,

sensa risposta, sensa mai sentí

ch’i fjö che giöga, i rumur luntan,

e la malincunia che vègn de mí.

Che lü me sculta sun sicür, e i man

roben la lüs che per amur l’è lí,

ma vuraría un dí vèss mí a scultà,

e mí dàgh lü la lüs e lü lí a dí.

Lui è il silenzio, e io gli parlo adagio,

senza risposta, senza mai sentire

che i ragazzi che giocano, i rumori lontani,

e la malinconia che viene da me.

Che lui mi ascolti sono sicuro, e le mani

rubano la luce che per amore è lí,

ma vorrei un giorno essere io ad ascoltare,

e io a dare a lui la luce e lui lí a dire.

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