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diretto da Romano Luperini

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Perché leggere La strada di casa di Kent Haruf

 Alla fine Jack Burdette tornò a Holt. Nessuno di noi se l’aspettava più. Erano otto anni che se n’era andato e per tutto quel tempo nessuno aveva saputo niente di lui. Persino la polizia aveva smesso di cercarlo. Avevano ricostruito i suoi movimenti fino in California, ma dopo il suo arrivo a Los Angeles se l’erano perso e a un certo punto avevano rinunciato. Quindi nell’autunno del 1985, per quanto se ne sapeva, Burdette era ancora là. Era ancora in California e noi ci eravamo quasi dimenticati di lui.

Poi un sabato di inizio novembre, nel pomeriggio, ricomparve a Holt. (p.9)

La strada di casa di Kent Haruf (NN Editore, 2020; traduzione di Fabio Cremonesi) porta ancora una volta a Holt. Si tratta di un viaggio di ritorno che contiene, in realtà, anche il biglietto d’andata: uscito negli Stati Uniti nel 1990, è il secondo romanzo scritto da Haruf (morto nel 2014) e precede nella composizione i romanzi che invece l’hanno anticipato nella pubblicazione: Benedizione, Canto della pianura e Crepuscolo, ovvero la cosiddetta Trilogia di Holt (o della pianura), sono usciti infatti in Italia tra il 2015 e il 2016 (sempre per NN e sempre tradotti da Cremonesi). Tornare a Holt non è occasione da mancare: anche questa volta l’immaginaria cittadina del Colorado conquista immediatamente i lettori (La lettura del Corriere della sera lo proclama «libro dell’anno» per il 2020) e annienta i luoghi comuni della serialità televisiva americana, ma anche quelli della cosiddetta Small Town Literature.

Per comprendere il segreto di una small town

Per la verità, Jack Burdette, protagonista del romanzo, torna a Holt certamente non animato dalla stessa nostalgia del lettore. Pur essendovi nato e cresciuto, figlio tardivo e inquieto di un uomo perennemente ubriaco e di una donna bigotta e taciturna, della sua città Jack è – insieme – prodotto ed esubero. Tutto in lui è esorbitante: la muscolatura, la forza, l’abilità nel football, lo sprezzo delle regole. Eppure, quelle regole gli servono; sono il parametro del suo essere oversize, ne ha bisogno per affermare la sua personalissima misura. Tant’è vero che fuori da Holt – all’università come nell’esercito – Jack è fuori posto:

Comunque all’inizio andava tutto bene. Era un ragazzo e a metà agosto, quando si presentò agli allenamenti di football, era abbastanza violento da piacere agli allenatori. Eppure come running back non era adeguato al campionato universitario. Era grosso, ma troppo lento. Quindi alla seconda o terza settimana di allenamenti venne spostato in difesa. In quel modo poteva sfruttare la sua forza. Però a mancargli era la gloria. Alle superiori era lui a portare la palla verso la meta e sulla stampa locale il suo era il nome che aveva maggior risalto. (…) all’università erano bravi tutti, quindi non gli venivano dedicate particolari attenzioni (p.51)

Aveva lasciato l’esercito ed era evidente che continuava a pensare di essersela spassata durante i due anni trascorsi in servizio. Ciò significa che da soldato aveva fatto progressi come bevitore di birra e come giocatore di poker e aveva visto un po’ di vita notturna nelle cittadine accanto alle basi in cui era stato spedito. Aveva anche scoperto che i soldi, ad averne abbastanza, potevano comprare molte cose che non sapeva si potessero comprare, inclusi i servizi temporanei di altri esseri umani. (p.66)

Solo a Holt Jack viene «considerato un eroe» (p.57), finché, divenuto «direttore della cooperativa dei silos» (p.78), presso la quale ha lavorato per anni come scaricatore, il consiglio di amministrazione decide «di mandarlo un fine settimana a Tulsa, Oklahoma, per farlo partecipare a un convegno di direttori di silos del grano» (Ivi); e qui (cioè ancora una volta lontano da Holt) Jack, ormai trentenne, incontra Jessie, una graziosa hostess, che di anni ne ha appena venti, la corteggia disertando il convegno, la sposa nell’arco di pochi giorni e torna con lei a Holt. A farne le spese, di fatto, è soltanto la bella e fedele Wanda Jo, che lo ama dai tempi del liceo e che certo s’aspettava di diventarne la moglie. Per il resto, pur con qualche perplessità («era l’esatto contrario di ciò che la gente di Holt pensava che avrebbe dovuto essere» (p.89), la comunità di Holt prova a integrare la forestiera.

In effetti risultò che Jessie Burdette era una donna molto tranquilla e solitaria. (…) Non era certo la ragazza della porta accanto, ottimista e carina, solare e con l’aria impertinente; non aveva niente dell’idea vistosa, californiana di avvenenza femminile. Era invece piuttosto piccola, scura, tranquilla e decisamente risoluta. Sembrava capace di grandi cose, sembrava indipendente. (…) aveva un’aria distaccata, come se davvero preferisse essere lasciata in pace o come se sapesse molto bene quello che voleva, e qualora ciò le avesse impedito di stare vicino agli altri – costringendola ad apparire sempre un po’ fuori dalle righe e isolata rispetto al resto della gente di Holt, o, se è per questo, rispetto alla gente di qualsiasi posto al mondo – lo avrebbe accettato senza obiezioni. (pp.94-95)

Insomma, a buon diritto Pat Arbukle, antico compagno di Jack, direttore del settimanale di Holt e voce narrante della storia, commenta: «non capisco come mai avesse sposato Jack Burdette» (p.95). E se, nel raccontare la giovinezza di Jack, non nega di aver subito – come tutti a Holt – l’incantesimo oscuro di quella personalità, di quella fisicità debordante, lucidamente – d’altra parte – individua il punto di rottura:

A metà pomeriggio dell’ultimo giorno di dicembre del 1976, Jack Burdette scomparve. E non tornò a Holt per molto tempo, quando ormai il danno era fatto, e si trattava di un danno molto grave. (p.100)

Si tratta di un grosso furto ai danni del consorzio, ai danni di tante famiglie che a Holt vivono sulla coltivazione e il commercio dei grani; ai danni della sua stessa famiglia: Jack abbandona infatti Jessie con due bambini piccoli e incinta di una terza figlia. È la stessa gente di Holt a coprirne inconsapevolmente la fuga: avvezza a perdonare al suo corpulento e spregiudicato eroe ogni genere di stravaganza, nei primi giorni dalla sua scomparsa se ne rende quasi complice, senza cercarlo, perfino strizzandogli un occhio. Ma quando diventa chiaro che Jack non tornerà, Holt cerca con furia in Jessie un capro espiatorio; e la donna si offre a risarcire la comunità, silenziosamente ma risolutamente proprio come si era sottratta alla sua integrazione forzosa. Lo stesso Pat, reduce dal fallimento drammatico del suo matrimonio, se ne innamora profondamente e, cronista da sempre delle storie di Holt (di fatto eredita dal padre la proprietà del giornale), sembra trovare in questo amore l’occasione che aspetta da sempre, l’occasione di un racconto nuovo e diverso, di sé e della sua città. Ma non si può raccontare una storia senza sapere chi sia la protagonista. E a Holt nessuno sa veramente chi sia Jessie:

Chi era davvero? (…) Era come se un elegante uccello esotico fosse volato fin qui una primavera e avesse deciso di restare, senza peraltro aspettarsi alcun tipo di sostentamento o addirittura di rapporto con chi o cosa la circondasse. (p.100)

Per questo il racconto si chiude là dove si è aperto, sul ritorno di Jack, quando il reato è caduto ormai in prescrizione: il suo corpo, ormai sformato e oltraggioso, è nuovamente in primo piano, prodotto ed esubero di Holt; Jessie, «uccello esotico», da Holt si allontana così come vi era arrivata, senza riceverne «sostentamento». Pat invece resta, non la cerca o non sa dove cercarla. «Voglio credere che stia bene» – si ripete soltanto – «voglio credere almeno questo, e sperare anche qualcosa di più» (pp.191-192).

Holt si conferma personaggio alla stregua dei suoi abitanti, e non solo contenitore delle loro storie o (ancor meno) fondale. La dimensione corale azzera il tempo e la geografia, e avvicina (per esempio) Holt a Spoon River, il Colorado e le sue praterie al Maine e al mare di Crosby (dove vive la Olive Kitteridge di Strout), riportandoci (con qualche azzardo ma molte suggestioni) perfino alla Aci Trezza dei Malavoglia. Gli spazi vasti e aperti delle praterie, dove si coltiva il grano, ma (anche) dove scompaiono uomini e cose, a Holt sono tenuti a bada, quasi esorcizzati, dal paradosso degli spazi chiusi – del pub, del supermercato, dell’ufficio dello sceriffo, della main street addirittura – dov’è sempre possibile incontrarsi, riconoscersi, ritrovarsi; spazi asfittici eppure salvifici, dove ogni destino diventa esemplare, senza rischiare l’immensa voragine che – fuori – mischia, confonde e fa uguali i destini di tutti.

Per riflettere sulla giustizia individuale e collettiva

Scrive Fabio Cremonesi, nella bellissima Nota del traduttore, che la giustizia è uno dei temi centrali del romanzo:

Quella dei tribunali, che nel romanzo risulta del tutto inadeguata; quella sommaria degli abitanti di Holt, che aspettano Burdette fuori dal carcere, pronti a vendicarsi da soli, e quella di individui come Jessie, che si condanna a una vita durissima pur di risarcire – restitution è una delle parole chiave del libro – i suoi concittadini. (p.193)

È una riflessione sulla giustizia antica e moderna, tragica e romanzesca, assoluta e dinamica. La legge (quella dei tribunali) prescrive il reato e mette in libertà Jack, che può addirittura esibire con arroganza la sua colpevolezza e rivendicare diritti di cittadino, marito, padre. D’altra parte la comunità di Holt sembra accorgersi dell’inefficienza o della insufficienza della legge – o della legge tout court – solo nel momento in cui essa entra in conflitto con le sue regole; ma per anni ha ampiamente perdonato a Jack infrazioni al buon senso, al buon gusto, ai buon sentimenti, pur di preservare, a garanzia di se stessa, l’eccezione che conferma la regola, il campione della forza e dell’eccesso in grado di esimere il resto della comunità dall’usare la forza e dall’eccedere, facendola sentire virtuosa. Jessie prova dapprima a risarcire la comunità del danno economico, a fare spontaneamente quello che avrebbe dovuto fare per legge: rinuncia alla casa «in favore del consiglio di amministrazione della cooperativa degli agricoltori di Holt» (p.128). Ma questo non basta a risarcire una comunità chiamata a fare i conti non solo con l’ammanco del denaro, ma con la ridefinizione difficile delle sue regole, delle sue eccezioni, dei suoi eroi; di sé. Non basta nemmeno quando Jessie dà alla luce la sua bimba ormai morta.

La gente di Holt pensava che a quel punto avrebbe pianto. Pensavano che sarebbe crollata. Immagino fosse quello che volevano. Ma lei non lo fece. Forse aveva oltrepassato il punto in cui le lacrime di un essere umano hanno un senso (…). (p.140)

Jessie rappresenta un pericolo perché, con la sua sola presenza (schiva, eppure gigantesca), impedisce alla comunità di Holt la più consueta operazione di salvaguardia di sé: la rimozione:

Sembrava che volesse rimanere a Holt, che avesse i suoi buoni motivi per tener duro. Pareva determinata a reagire a quello che le stava capitando nel suo modo tranquillo e silenzioso, come se l’opinione che aveva di sé dipendesse solo da questo. Come se stesse tentando di dimostrare qualcosa.

E la conclusione fu tragica. Finì per essere ben più di una semplice questione di soldi. Le cose andarono in maniera così dolorosa che a Holt c’è ben poca gente disposta a ricordarsene. (p.125)

Davvero tragica, nel senso antico e profondo del termine, è la conclusione, il sacrificio estremo di sé con cui Jessie, seguendo coi figli Jack senza opporgli resistenza, mette in salvo la comunità ma incredibilmente anche se stessa: l’opinione che aveva di sé, il suo privatissimo senso della giustizia e del dovere.

Per seguire i tracciati della narrativa nordamericana

Chi ha iniziato ad addentarsi nella narrativa nordamericana, ascoltando le voci potenti di Scott Fitzgerald, Faulkner, Hemingway, Steinbeck, Fante, Kerouac, non è rimasto, poi, indifferente al richiamo di altre voci che, nel tempo, ci hanno raccontato l’America profonda, niente affatto patinata anche quando veste lustrini o divise di varia natura. Philip Roth, Paul Auster, Elisabeth Strout, Jonathan Franzen, David Foster Wallace, Jhumpa Lahiri sono tra coloro cui (giustamente) più frequentemente si fa riferimento quando si intenda tracciare non solo genericamente il panorama della narrativa americana contemporanea, ma il profilo della condizione psicologica e culturale delle società moderne. Kent Haruf ha senz’altro voce in capitolo; una voce diversa, che somiglia un poco alla sua eroina (quella vera), cioè Jessie: per usare i suoi stessi aggettivi, tranquilla e decisamente risoluta. Haruf ci parla in una lingua apparentemente semplice, ma di una semplicità che inchioda per assenza di orpelli; la sua sintassi è essenziale senza essere scarna né ermetica né omissiva, restituzione esemplare delle relazioni non sempre facili e non sempre trasparenti tra gli esseri umani. Una narrazione che si impone senza usare la forza, con l’evidenza naturale del suo esserci, «come se un elegante uccello esotico fosse volato fin qui una primavera e avesse deciso di restare, senza peraltro aspettarsi alcun tipo di sostentamento»: così, come Jessie, anche il racconto di Haruf si accampa alla nostra attenzione e non s’aspetta applausi. Semplicemente c’è, e non si può fare a meno di vederlo. Una lunga analessi raccorda il presente al passato e di nuovo al presente (sappiamo da subito che Jack è tornato, che è stato via per anni, che l’ha fatta grossa), mettendoci di fronte con disarmante schiettezza alla impossibilità di sottrarci all’uno e all’altro.

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