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Rileggere gli antichi: i Poeti della corte di Federico II

Forse perché siamo all’inizio del nuovo anno, è con animo beneaugurante che torniamo a leggere i testi lirici che si collocano all’origine della nostra tradizione letteraria, testi ormai quasi completamente espunti dal nostro canone scolastico, senza i quali tuttavia quel medesimo canone sarebbe profondamente diverso, e forse addirittura incomprensibile: ci guida in questo cammino ascensionale la ricca silloge di poesia siciliana duecentesca curata e commentata per Salerno editore da Donato Pirovano col titolo Poeti della corte di Federico II. Una silloge che include nella categoria dei siciliani un’ampia gamma di rimatori provenienti da varie regioni della penisola, accomunati dalla scelta di una lingua priva di ogni nobiltà d’origine e in vario modo gravitanti intorno alla Magna curia federiciana.

Per molti versi leggere la poesia siciliana significa trovarsi di fronte a un enigma, in cui ai pochissimi indizi storico-geografici fa da riscontro una altissima qualità formale, certificata e amplificata anche dalla normalizzazione toscana a cui queste liriche furono sottoposte a partire dalla fine del XIII secolo. Solo a fine Settecento, grazie alla pubblicazione da parte di Girolamo Tiraboschi delle cosiddette “carte Barbieri”, emersero come i relitti di un antico naufragio alcuni frammenti dei testi siciliani originali che il curatore qui riporta a integrazione dei testi provenienti dai codici duecenteschi Vaticano 3793, Palatino e Laurenziano (a loro volta raffrontati con due manoscritti trecenteschi, il Veneto B e fiorentino Ch). Rileggere oggi questi testi può significare allora interrogarsi su un primato che rimane misterioso, e che ha dato avvio a quella dinamica centro-periferia (Toscana-Sicilia in questo caso) caratteristica di tutta la storia della nostra penisola, fino al risorgimento e oltre. Un primato che si esplicita nel dialogo più immaginario che reale tra il poeta e la donna, centrale già nella prima e più nota canzone di Giacomo da Lentini: Madonna, dir vi voglio. Siamo all’alba della tradizione poetica italiana e già la natura metapoetica della lirica emerge con forza sotto forma di tensione continua tra voler dire e non poter dire compiutamente:

Madonna, dir vi voglio

Como l’amor m’ha priso,

inver’ lo grande orgoglio

che voi, bella, mostrate, e no m’aita.

[…]

Lo meo ’namoramento

Non pò parire in detto,

ma sì com’eo lo sento

cor no lo penseria né diria lingua;

e zò ch’eo dico è nente

inver’ ch’eo son distretto

tanto coralemente.

La lingua poetica di Giacomo si presenta come grano che «spica – e non ingrana», mette la spiga ma non produce chicchi: la natura feconda dell’amore (di un amore agito, compiuto anche nella forma del joi trobadorico) non si realizza sul piano lirico, così che alle parole è addebitata la bellezza un po’ arida di una spiga priva di frutto e al poeta il ruolo di chi «pinge e sturba», di un pittore eternamente insoddisfatto della sua opera, che affoga nella sua stessa inquietudine.

Nella bella e accurata introduzione a questa antologia, Pirovano mette in luce le caratteristiche principali di una tradizione lirica la cui bellezza sta – esattamente – nella lacuna: una lacuna erotico-estetica (la spiga senza chicchi di cui dicevano) ma anche una lacuna filologica se è vero, come notò già Costanzo Di Girolamo, che quest’esperienza lirica, pur cronologicamente brevissima, fu da subito caratterizzata da perdite e guasti, confusioni attributive, scarsa affidabilità di testi giunti a noi in uno “stato lamentevole”.

La tematica esclusiva d’amore (che la distingue sia dai precedenti provenzali che dai successivi stilnovisti) non è solo l’elemento caratteristico più evidente: essa rappresenta una vera e propria «scelta di campo» che distingue questa esperienza da quella dei trovatori e inaugura una tradizione lunghissima in cui lirica non significa più, come voleva Isidoro da Siviglia, “varietà di carmi” bensì indagine introspettiva sugli effetti del pensiero d’amore e sulla fenomenologia stessa dell’amore. Che la poesia lirica sia studio di una fenomenologia dei sentimenti, cioè analisi di un pensiero che ossessivamente assedia la mente del poeta (e non compiaciuta espressione di un’emozione) è la chiave di volta su cui, anche didatticamente, occorre insistere per inquadrare nella giusta cornice questi testi. Per questo il poeta non è semplicemente colui che parla spinto dalla forza d’amore (I’ mi son un che quando amor mi spira… secondo la nota formula dantesca): la sua poesia perderebbe forza ed esemplarità se non provenisse da un animo retto, da un cuore nobile, magnanimo e benedetto dalla grazia (sono ancora parole di Dante, secondo la formulazione del De Vulgari Eloquentia, I, 12). L’esperienza lirica non si gioca dunque in ambito esclusivamente privato e, per quanto di argomento esclusivamente amoroso, assume il ruolo di preciso modello di comportamento per l’uomo di corte: «La lirica d’amore non è né una fuga dalla realtà né un colto passatempo né un piacevole dopolavoro per giudici e funzionari [ma] rientra in un disegno imperiale in cui anche l’educazione sentimentale e la promozione culturale hanno un ruolo identitario importante» (p. XXXV).

Pirovano sottolinea inoltre la natura internazionale di questa esperienza lirica (l’analisi del famoso affresco bassanese di Casa Finco, datato 1239, in cui compaiono Federico e la terza moglie, e il ritrovamento in Catalogna di un testo italiano copiato nella seconda metà del XIII secolo, nonché l’interconnessione con i Minnesänger di area tedesca, senza dimenticare la natura stessa della biblioteca federiciana, plurilingue, universale, non specialistica, attestano una circolazione molto ampia di questi testi ben prima della loro toscanizzazione): si tratta di un dato tanto più interessante quanto più si ricorda che l’uso del siciliano è la vera scommessa di questi poeti – un dato che fa ha spinto il curatore a rinunciare alla formula della vulgata ottocentesca “Scuola siciliana” a benefico della più comprensiva “Poeti della corte di Federico II”. L’accento posto sulla corte da un lato e sui singoli poeti dall’altro consente inoltre una indagine che, partendo dai nomi canonici di Giacomo da Lentini, Guido delle Colonne, Rinaldo d’Aquino, Piero della Vigna, consente attraverso un ricco apparato di appendici di raffrontare i testi nella versione trádita sia con i modelli provenzali, sia con testi successivi della tradizione toscana: così, per esempio, la canzone di lontananza Troppo son dimorato è affiancata all’originale Trop ai estat del provenzale Perdigon e a testi successivi della tradizione duecentesca, come Troppo aggio fatto lungia dimoranza di Chiaro Davanzati. Emerge una rete di rimandi piuttosto fitta che caratterizza fin dalle origini la letteratura europea e certifica – come aveva intuito Franco Brioschi – che la centralità del testo (concetto-idolo della critica strutturalista e “da laboratorio”) non è sufficiente per una comprensione completa e che all’autonomia del testo letto “iuxta propria principia” vada affiancato se non sostituito un più ampio insieme di testi in relazione reciproca, in gravitazione reciproca secondo il modello del riuso. La contaminazione, il capovolgimento, l’imitazione (poetica, tematica, metrica) sono alcune tra le molte forme della riscrittura che emergono da questa raccolta, la cui prima protagonista è l’alba della letteratura volgare europea, un’alba la cui origine resta sfuggente ma la cui luce si irraggia fino a noi.

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