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Un capolavoro sconosciuto? Su Mille esempi di cani smarriti di Daniela Ranieri

Qualche giorno fa su facebook mi è capitato di leggere uno status di Riccardo Castellana che associava la copertina di un libro (Daniela Ranieri, Mille esempi di cani smarriti, Ponte alle Grazie, 2015) a una brevissima sua recensione che inizia così: “Quanti di noi si erano accorti, cinque anni fa, che l’editore Ponte alle Grazie aveva pubblicato un romanzo eccezionale?”. Personalmente non me n’ero accorta affatto, e facendo un breve giro online mi sembra che se ne siano accorti in pochi. Siccome mi fido del gusto di Castellana, e so che non è persona da spendere a caso un aggettivo come ‘eccezionale’, mi sono detta che forse valeva la pena di passare in libreria a comprare il romanzo.

Premetto subito due righe sugli effetti che mi ha fatto, come lettrice prima ancora che come persona chiamata per mestiere ad occuparsi di analisi letteraria. Per la settimana che è durata la lettura non sono riuscita a fare altro che leggere e aspettare di aver smesso di fare il resto per poter ricominciare: la mia attenzione è stata calamitata, la mia capacità di identificazione smossa e scossa in più punti, ho riso molto e… ho finito di leggere in lacrime, il che non mi capita di frequente. Lacrime di strazio, di stupore e gratitudine per essere stata presa per un braccio, trasportata attraverso una narrazione lucida ed emotivamente potente, deposta a terra al termine del viaggio stupita, commossa e un po’ trasformata. Credo che l’ultima volta sia capitato ben più di un lustro fa con Austerlitz di Sebald – mica l’almanacco di Geppo. Detto questo, comincio la vera e propria recensione.

Mille esempi di cani smarriti (titolo flaubertiano, tratto da un passo di Madame Bovary, e di cui solo nell’ultima pagina capiamo il senso) è un romanzo di cinquecento pagine che racconta di squarcio la vita di alcuni personaggi, tutti legati tra loro da vincoli di più o meno interessata amicizia, amore o parentela. La gestione dell’architettura narrativa è sapiente, e viene dritta dritta dal modernismo: le tappe del romanzo sono scandite dalla partecipazione di quasi tutti questi personaggi (c’è un’assenza che solo molto più avanti risulterà assai significativa) a una cena di compleanno sulla terrazza di un costosissimo appartamento di Roma nord. Poi – lentamente, in maniera prima fortuita e quasi inavvertita, poi sempre più evidente – la struttura si apre a ospitare pagine di diversa ambientazione che approfondiscono, variando il fondale, le relazioni tra alcuni personaggi, raccontano per frammenti la loro storia, stabiliscono un continuo andirivieni tra vicende che intuiamo intrecciate. Tutto è sorretto e scandito dallo spazio di poche ore della serata, in cui si incastonano i frammenti delle azioni e delle vite precedenti a quel momento: vent’anni, sei mesi o tre giorni prima. Tutto è necessario a costruire il momento in cui la cena precipiterà in un’inaspettata resa dei conti.

Con la progressiva entrata in scena dei personaggi, Daniela Ranieri mostra una notevole maestria nel maneggiare i registri del grottesco applicato alla satira dei costumi: la padrona di casa Luciana è un’ex-sessantottina, ex-femminista, ex-artista, ex-attivista, ex-musa di altri artisti che i soldi di papà hanno sempre e comunque protetto dalla vita, si muove tra una serie di ex-amanti (due dei quali presenti alla festa), un ex-marito e un compagno attuale che, lo vedremo tra poco, funge da capro espiatorio per tutto e per tutti. Luciana è il prototipo di quella che Houellebecq, con mano ben più pesante, definirebbe una “puttana hippie”, sorella in spiritu della madre di Bruno e di Michel nelle Particelle elementari: superficiale, egoista, piena di buoni e umanitari propositi, sempre pronta a qualche sit-in o a qualche tè solidale, è in realtà mossa solo dal proprio tornaconto, a bagno da una vita nella propria compiaciuta e auto-indulgente falsa coscienza. Intorno a lei sulla terrazza si agita un gruppo di ‘amici’ uniti da tratti invarianti: essere gli esponenti dell’ultima generazione in Italia ad aver goduto di tutele e privilegi inimmaginabili per quella successiva, essere ricchi e occupare posizioni di potere senza aver mai davvero aver dovuto faticare per ottenerle.

Abbiamo Erasmo, figlio di primario diventato primario e deputato a sua volta, compromesso in gioventù col terrorismo ma uscitone pulito in virtù di agganci importanti, narciso, facilone, sfacciatamente fortunato con le donne, che tradisce e maltratta sistematicamente; Barbato, l’artista-vate veneziano che rumina gli ultimi scampoli di un ribellismo decotto e che nonostante (o proprio per) questo ha un notevole successo di pubblico; e poi la migliore amica di Luciana, Frediana, che per farsi perdonare i suoi natali popolareschi e poco glamour si è consegnata armi e bagagli alla funzione di balia-cuoca-collaboratrice domestica-gregaria; infine la coppia ascetico-venale dei due commercialisti Amilcare e Teresa, che tra un ritiro spirituale e un digiuno danno consigli per frodare il fisco, apprezzatissimi ça va sans dire dagli amici.

La cena è piena delle loro chiacchiere, del loro cicaleccio vanesio, magniloquente e maligno, intorno al niente – e qui Daniela Ranieri mostra di avere benissimo fatto sua la lezione di Flaubert, ma anche quella di Petronio –, mentre l’unico polo di martoriata e fiera resistenza è costituito da Antimo, il compagno di Luciana che ormai Luciana detesta, e a cui infatti per tacito accordo nessuno dà mai la parola o risponde, una sorta di reietto Saniette nel salotto di Madame Verdurin. Figlio illegittimo di un prete operaio, abbandonato dalla madre e cresciuto come un selvaggio nella canonica paterna sperduta nelle colline dell’Umbria, Antimo è il contrario di tutto quello che gli si agita intorno: zoppo, umile, pratico, abituato per istinto a volare basso, onesto, perbene, senza grandi pretese e tuttavia capace di vera dedizione per chi merita.

Quello dei suoi pensieri è un controcanto critico, silenzioso e costante alla serata: detesta infatti uno per uno i partecipanti alla cena (e sono gustosissimi alcuni suoi indiretti liberi in cui spara a zero su tutti, facendo largo ricorso a mirabolanti metafore ed epiteti), e in generale il mondo in cui si è trovato suo malgrado a fare la parte del vero e disprezzato marginale. Le uniche persone che ama sono Cecilia e Franca, due personaggi che – per una precisa scelta di strategia narrativa – vengono introdotti in ritardo rispetto agli altri. La prima è la radiosa e bellissima figlia di Luciana e del suo ex-marito, fidanzata a sua volta con l’altrettanto bellissimo e ricco figlio di Erasmo. L’altra è Franca, la di lei migliore amica borgatara, che per uno scherzo del destino è bella, istruita e raffinata, ma viene da una famiglia poverissima, sfortunata e tremenda, in cui il desiderio di essere felici si paga come una colpa infame. Franca si trascina addosso una coazione al masochismo che la invischia in relazioni sempre più devastanti con uomini sempre meno alla sua altezza – fino all’abiezione estrema di sé. Cecilia è attesa alla cena, e farà il suo ingresso solo a tarda notte, come gli ospiti d’onore, scesa direttamente da un aereo che la riporta a casa da Boston; su Franca resta invece un punto di domanda di cui qui è saggio non parlare, per lasciare che sia il lettore a scoprire quel che deve.

Se sulla trama non va detto di più – sperando di aver restituito il senso di un intreccio fittissimo, capillare, cesellato nei dettagli ma lineare nella sua satirica e commovente implacabilità –, mi invece preme dire ancora qualcosa dello stile, che come giustamente scrive Castellana fa pensare a Gadda, e in controcampo a Bernhard: compiutamente e volutamente barocco, teso, lussureggiante e complesso, non è mai – in nessun momento – ostacolo alla trama o puro virtuosismo, ma arricchimento sensoriale e quasi tattile per chi legge. L’attrito della sintassi, la vischiosità delle immagini, l’addensarsi delle figure diventano infatti uno strumento per srotolare davanti agli occhi del lettore una nuova realtà, originale e idiosincratica, che è appunto quella costituita dal testo, e dal modo in cui i singoli personaggi (e il narratore) vedono e vivono il mondo rappresentato: la tensione linguistica potenzia l’efficacia cognitiva ed emotiva delle situazioni che l’opera ci permette di vivere, ci svela non solo un altro mondo oltre al nostro, ma un altro modo di vedere le cose. Cito solo un passaggio come esempio, tra i tanti che trovo straordinari per nitore, densità ed efficacia linguistica – che diventa efficacia rappresentativa tout court:

“Ma lì sul terrazzo, aggredito dalla luminosità di un giorno duro e piatto e potente come il negativo del buio, subito fuori dalla brevità profonda e abissale di questo pensiero che lo faceva vecchio, a un tratto era successo qualcosa, qualcosa di improvviso, che era già lì da tempo, forse, ma fino a quel momento era stato immobile. […] Quando Franca aveva fatto un passo verso di lui e poi verso il davanzale facendo tremare gli anemoni, qualcosa di sottile e di ignoto si era mosso, rapido e pesante, e si era messo a girare attorno a loro come un animale voluminoso che si fosse svegliato affamato. E adesso chi difendo, me o lei? Adesso mi tocca. O la tocco io. […] Poco più in là c’era il piede sinistro di lei, nel sandalo, o nella ciabattina […], di cuoio, coi laccetti che passavano tra le dita e poi diventavano una cavigliera, no, un cinturino. Qualcosa di greco, di riarso, qualcosa della lucertola sulla calce, emanava dal suo piede intoccato” (p. 186).

Il romanzo di Daniela Ranieri non è solo scritto benissimo, non possiede solo l’arguzia e l’esattezza di un affresco riuscito; è anche capace di generare emozioni attraverso il racconto di una vicenda antropologica e sentimentale in più quadri e in più tempi che per ragioni di opportunità qui non si può non velare, poiché costituisce l’anima segreta e dolente del testo. Il finale sembra suggerirci che in un mondo ormai irrimediabilmente colonizzato dalla vanità e dalla vacuità possano darsi (brevi) momenti di speranza e di tregua che trascendano le infamie e i degradanti compromessi necessari alla vita. Che poi questa speranza e questa tregua siano deluse e destinate allo scacco, non rende il desiderio meno struggente e la sconfitta meno desolante.

Rispetto alla domanda sul perché questo libro sia passato inosservato o quasi, non ho alcuna risposta certa. Colpisce il sospetto che, soprattutto nella letteratura ipercontemporanea, testi di grande valore come questo potrebbero a volte scivolare via, non trattenuti sotto la luce dell’attenzione critica che meritano. È un fenomeno complesso che non ha una sola spiegazione possibile, e in parte forse – banalmente – dipende dall’eccessiva offerta che ci viene proposta ogni giorno, e dalla conseguente (legittima) difficoltà degli addetti ai lavori a farsi carico di tutto in mezzo al rumore crescente. Trovo però un certo conforto nel constatare che a volte si può anche provare a rimediare, magari per fortuna o per caso: stavolta un post su facebook ci ha regalato la scoperta un romanzo che spero possa sfuggire al silenzio per essere letto, apprezzato e discusso come merita.

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