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Il tempo dell’impegno: Sebastiano Timpanaro intellettuale militante

A cura di Alberto Bertino

Sebastiano Timpanaro, scomparso vent’anni fa, è stato un uomo dalla cultura raffinata e addirittura specialistica, essendo un filologo classico, capace, però, di usare la filologia come strumento di oggettivazione del campo d’indagine dello studioso, e non come nicchia separata per addetti ai lavori. Credo che studioso sia il termine che più si addice ad un intellettuale e a Timpanaro in particolare che ha scrupolosamente studiato i testi e la lingua per risalire secondo un procedimento induttivo al pensiero e alla posizione politica al cospetto della vita, senza mai cadere in tentazioni spiritualeggianti o idealistiche. Rigoroso materialista, intransigente nel ribadire le ragioni di un modo di essere piuttosto che di pensare, scandagliando l’opera di Leopardi – dai primi studi filologici all’intero corpus letterario – ha riconosciuto in sé una vena marxista-leopardiana che ha scontentato molti cultori del poeticismo idealistico e romantico.

Personaggio marginalizzato dalla cultura accademica, nonostante fosse accademico dei Lincei  (e socio dell’Accademia toscana di scienze e lettere La Colombaria, della British Academy , dell’Accademia dell’Arcadia e della Società Torricelliana di scienze e lettere di Faenza) ha sempre orbitato intorno alla cultura e al dibattito (niente affatto accademici) della sinistra più radicale. Con il suo acume e con la sua chiarezza espositiva ha fornito contributi essenziali per la formazione di studenti universitari e giovani ricercatori, e più in generale è stato punto di riferimento di generazioni che si sono accalorate nello scoprire ribaltate tradizionali posizioni critiche e storico letterarie ancora dure a morire nelle aule scolastiche (e non solo) a  partire dal classicismo rivoluzionario che capovolge il luogo comune del classicismo come ricettacolo del conservatorismo (e della retorica reazionaria), fino al valore conoscitivo del pessimismo materialistico che scompagina lo stereotipo progressista dell’ottimismo idealistico.

Per restituire un po’ di sangue alla figura di Timpanaro che sta scolorendo e rischia di svanire, con grave danno , a mio parere, delle giovani (e meno giovani) generazioni, ho chiesto a Romano Luperini di recuperarne i connotati politici e culturali e umani. Anche in questo caso, come già per discutere di Fortini, mi rivolgo all’intellettuale capace di acume interpretativo e di lucidità critica che è anche colui il quale ha stretto una relazione umana, ha conosciuto direttamente l’uomo dei cui scritti si parla. A testimonianza dell’amicizia personale che li ha legati fra la fine degli anni sessanta e l’inizio degli anni ottanta, voglio qui ricordarne  il punto di partenza. Tra marzo  e maggio 1968 a Luperini, recluso nel carcere Don Bosco di Pisa, Timpanaro scrisse sei lettere che sono state pubblicate da Luperini su “Belfagor” (2, 2012) e che oggi risultano ancora più preziose di un decennio fa per il loro valore documentario e militante. Era un tempo in cui cultura e politica non erano in opposizione tra loro e servivano a cementare solidarietà e amicizia. Era il tempo di una «civiltà letteraria (oggi invece scomparsa)», in cui – come scrive Luperini su “Belfagor” –  «scrivere una lettera richiedeva la stessa cura che si dedicava alla pubblicazione di un saggio.» (‘Lettere a Romano Luperini in carcere’)

Alberto Bertino – Recentemente, proprio su questo blog, hai ricordato Sebastiano Timpanaro come maestro di scrittura, contrapponendolo a Fortini. Potresti spiegare come un filologo classico, uno specialista, addirittura un erudito, possa praticare una ‘scrittura democratica’?

Romano Luperini – Timpanaro era anche un critico e un saggista, forse, piuttosto che un erudito o un semplice filologo, era soprattutto un critico e un saggista. La forma-saggio era la misura della sua scrittura. Fra i suoi maestri non c’era solo Pasquali, c’erano anche De Sanctis e Gramsci. Maestri di impegno civile ma anche di scrittura.  Quella di Timpanaro è semplice, chiara, essenziale. Timpanaro è anzitutto un intellettuale militante, scrive per tutti e vuole essere inteso da tutti. Fa parte della sua passione politica la scelta di uno stile democratico. Era un grande specialista, un eccezionale filologo classico, ma non si dimenticava mai di essere anzitutto un intellettuale e un militante politico.

AB – La mia formazione letteraria mi ha fatto conoscere e apprezzare Timpanaro sulla scorta di alcuni libri che sono altrettanti filoni di ricerca.  Te li enuncio: ‘Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano’ (Pisa, 1965) ; ‘Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana (Pisa 1982); e ‘Il lapsus freudiano. Psicanalisi e critica testuale (Firenze 1974), quest’ultimo in relazione al fondamentale, non soltanto per me, ‘Per una teoria freudiana della letteratura’ (Torino, 1973) di Francesco Orlando. Potresti indicare i temi della riflessione di Timpanaro? E in particolare, è davvero impossibile conciliare marxismo e psicoanalisi freudiana?

RL – Timpanaro negava lo statuto di scienza alla psicoanalisi. Per lui, nella cui formazione il positivismo aveva avuto un rilievo fondamentale, era questa un’accusa seria e grave. Le interpretazioni freudiane gli sembrano fantasiose e tutte volte a dimostrare un assunto aprioristico. Così il lapsus che induce a dimenticare aliquis nel verso virgiliano Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor è spiegabile con banali ragioni linguistiche che ogni mediocre filologo intuisce, mentre la interpretazione freudiana, che lo riferisce al timore del giovane autore del lapsus di avere messo incinta una signora, appare in realtà cervellotica e “tirata per i capelli”. Timpanaro muoveva in realtà da una critica all’iperinterpretativismo freudiano fondata su presupposti biologici (la scienza avrebbe a che fare con il “palpabile”, osservò Jervis) e che semmai preludeva (è ancora Jervis a notarlo) alle neuroscienze d’oggidì. E in un certo senso Timpanaro aveva ragione: la psicoanalisi è una forma dell’ermeneutica non una scienza fondata su un metodo oggettivo. Ma riconoscerle questo statuto (che vale anche per la critica letteraria, per esempio) non significa affatto condannarla a una condizione di minorità come invece vorrebbe Timpanaro.  È questo limite che poi lo induce a vederne l’inconciliabilità con il marxismo, che tenderebbe invece a un rigore scientifico. Qui è il Timpanaro militante che parla: la sua critica, esatta e persino divertente, alla interpretazione freudiana del lapsus tende a invalidare tutto il pensiero di Freud, visto come un grande scrittore (così amava definirlo) piuttosto che come il fondatore di una ermeneutica dell’animo umano. Se Marx è stato un critico analitico della organizzazione sociale della borghesia, Freud lo è dell’anima dell’uomo borghese. Detto in breve e con l’accetta: i due studiosi non vanno considerati in radicale opposizione, ma si spartiscono i compiti della critica al mondo capitalistico.

AB – Vorrei che spiegassi quale importanza avessero i saggi ‘Sul materialismo’ nel tempo in cui sono stati pubblicati, era il 1970, e quale possibile validità essi hanno oggi.

RL – I saggi Sul materialismo sono a mio avviso attualissimi. Il riconoscimento della priorità della natura sullo spirito, del livello fisico sul biologico e del biologico sull’economico-sociale e sul culturale mi pare fondamentale, sia nel senso di priorità cronologica (il lunghissimo tempo trascorso prima che la vita apparisse sulla terra, e dall’origine della vita all’origine dell’uomo), sia nel senso del condizionamento che tuttora la natura esercita e continuerà a esercitare sull’uomo. Insomma esiste un materialismo (per esempio, il marxismo storico) che considera unicamente due livelli ignorando la natura e considerando solo la organizzazione sociale e la struttura ideologica e uno che invece ne considera tre: la natura, la organizzazione economica e sociale, la cultura e le ideologie. Timpanaro difende insomma il materialismo cosiddetto “volgare” e invita a studiare, per esempio, come la malattia, la vecchiaia, il timore della morte condizionino, non meno della situazione storica e geografica, buona parte della letteratura dalle origini a oggi. Senza questo materialismo “volgare” il pensiero stesso del poeta da lui più amato e lungamente studiato, Leopardi, sarebbe incomprensibile. E di Leopardi Timpanaro mutua appunto il pensiero materialistico, facendolo senz’altro proprio (e la definizione di “leopardiano marxista” o di “marxista leopardiano” ha accompagnato tutta la sua vicenda di studioso).

AB – Nei tuoi romanzi appaiono sia Fortini che Timpanaro.  Potresti raccontarci com’era Timpanaro visto da vicino? Della sua “fobia del parlare in pubblico” e del suo garbo, dell’impegno politico e di partito, delle sue amarezze e delle sue aspirazioni?

RL – Ho frequentato Timpanaro dalla seconda metà degli anni sessanta alla fine degli ottanta. Era un uomo timido e riservato. Ti dava la mano per salutarti quasi con timore, lasciandola cadere inerte e rattrappita. Temeva la folla, non voleva parlare in pubblico, e infatti non ha mai insegnato all’università e ha vissuto facendo il correttore di bozze per la Nuova Italia (correggeva i testi latini e greci). Lo ho sentito parlare in pubblico solo una volta: per scagionare un compagno che rischiava il carcere. Aveva evidenti disturbi psicologici che troppo tardi, in vecchiaia, cercò di curare ricorrendo proprio alla aborrita psicoanalisi. Parlava come qualunque militante: senza nessun sussiego accademico, con forte cadenza toscana, e senza rinunciare a espressioni popolari molto colorite. Si riteneva un militante di base, faceva parte, quando lo conobbi, dello PSIUP e simpatizzava per il Potere operaio toscano (quello di Sofri e Cazzaniga) pur criticandone il volontarismo e il maoismo. Anche io facevo parte di quel Potere operaio e quando finii in carcere discutemmo accanitamente proprio sul maoismo (sulla critica al volontarismo eravamo d’accordo), come si può vedere dalle lettere che allora ci scambiammo, qualche anno fa pubblicate da “Belfagor”. Io avevo torto, ovviamente, e lui ragione. Il suo troskismo (Trotskj, che aveva criticato la burocratizzazione del processo rivoluzionario in URSS, era per lui un modello di intellettuale militante) lo rendeva immune dalle mie illusioni.

AB – La polemica Carpi – Timpanaro, che a lungo ha infiammato il dibattito accademico, aveva come posta in gioco soltanto una corretta collocazione del pensiero leopardiano oppure rientra anch’essa nella capacità di dividersi della sinistra?

RL – La polemica con Carpi riguardava in sostanza la valutazione del Romanticismo italiano. Timpanaro preferiva, con Leopardi, il filone illuminista, classicheggiante e anticattolico, mentre Carpi, che allora stava avvicinandosi al PCI dopo aver fatto parte anche lui di Potere operaio, intendeva rivalutare Vieusseux e gli intellettuali della “Antologia” (romantica e cattolica) che avevano tentato di inserire la popolazione contadina all’interno dello sviluppo borghese. Sullo sfondo c’erano poi la discussione di quegli anni sul “compromesso storico” e la valutazione positiva di Giolitti data da Togliatti e quella negativa data invece da Gramsci. Insomma il contrasto fra i due solo in parte si riferiva a Leopardi: in realtà era sì per un verso un contrasto letterario ma per un altro era soprattutto politico e riguardava la strategia della sinistra nel corso del Novecento.

AB – Perché i libri di Timpanaro e il suo appartato insegnamento ci riguardano ancora? Che cosa, a tuo parere, sarebbe giusto conservare come prezioso lascito?

RL – Il lascito di Timpanaro riguarda il modello di intellettuale impegnato e rigoroso che egli impersonò. Il suo stile democratico e il suo materialismo teorico costituiscono una lezione ancora vitale, e per me indimenticabile.

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