Fuori cornice: tra scrittura e immagine. Non solo d’arte si vive
Non è infrequente, leggendo le lettere e i diari degli artisti, incappare in periodi piuttosto lunghi che declinano in vari modi la questione della fame. Fa sicuramente parte dell’immaginario collettivo la figura del pittore che lavora ossessivamente alle proprie opere senza vedersi riconosciuto – lo abbiamo già visto con il caso emblematico di Henri Rousseau – anche se, in modo meno poetico, sono più spesso le scadenze pressanti dei debiti e il rancore verso chi ha la fortuna di conoscere il successo a infiammare le parole delle corrispondenze tra sodali.
A questo immaginario corrisponde perfettamente la figura di Ottone Rosai, che il 28 marzo 1923 scrive all’amico Ardengo Soffici:
Non c’è di peggio che esser poveri e non contar niente. Però, credi Soffici, chi mi à in qualche modo protetto non sarà tanto facilmente dimenticato da me. Tu anche nell’aiutarmi non disgiungi mai la stima e dal’affetto e se ài 50 lire da dare ad uno che disegni anziché darle a Bacci o Mugnai [i due pittori Baccio Maria Bacci e Giulio Mugnai, NdA] le dai a me.
Questo non contar niente, gli aveva fatto scrivere, appena otto giorni prima:
[…] tutto ciò (gli amici che non lo aiutano, NdA) mi dimostra l’inutilità della mia presenza in questo mondo e appena mi saprò decidere me ne andrò senza rumori e senza dar noia a nessuno.
In un’altra lettera del 30 maggio 1922 Rosai aveva confidato all’amico Soffici il pensiero ricorrente di ripetere il gesto già compiuto dal padre, che si era tolto la vita gettandosi nell’Arno il 18 febbraio di quello stesso anno.
Eppure Ardengo Soffici, già nel 1920, quando Rosai aveva appena venticinque anni, lo considerava uno dei tre o quattro pittori italiani su cui puntare per il futuro – per quella che doveva essere una “rinascita” italiana.
Nelle lettere, così come nelle sue opere, troviamo il nucleo lirico dell’arte di Rosai, che, come scrive Elena Pontiggia (si veda il Carteggio pubblicato da Abscondita nel 2010), «è tutto in quel contrasto inspiegabile tra miseria dell’esistere e nobiltà dell’essere».
Questa forma di nobiltà sembra un retaggio del secolo precedente, di quell’Ottocento che aveva visto affermarsi il movimento dei Macchiaioli, che dovettero combattere contro l’opinione diffusa che li voleva “impressionisti falliti”. Lo stesso nome venne ripreso da una critica negativa comparsa sulla Gazzetta del Popolo, in cui il termine Macchiaioli sottintendeva il fatto che le loro opere non fossero altro che schizzi (macchie) fatti da artisti che operavano al di fuori delle regole dell’arte – il “darsi alla macchia”, considerata anche la presenza ricorrente di certi paesaggi, è pratica da fuorilegge; da teppisti, come si considerava lo stesso Rosai, autore del diario di guerra Il libro di un teppista.
E da veri e propri briganti dell’arte, i Macchiaioli non le mandavano certo a dire, come dimostrano le parole pungenti su Parigi che Telemaco Signorini indirizza ad Augusto Cecioni il 18 giugno 1873:
Precisarti, da quel che si vede qua, l’arte dell’avvenire è assolutamente impossibile; quel che posso dirti certo si è che nessuno fra quanti esercitano anco oggi quest’arte di prostituzione, quanto fra coloro che l’acquistano e l’acclamano, ha coscienza di far cosa buona; la parola d’ordine per chi vende è «arricchiamoci» e per chi compra «divertiamoci e dopo di noi il diluvio» come diceva la principessa Matilde nelle sue serate parigine, negli ultimi giorni dell’impero.
Sul piatto non c’è soltanto la questione economica, ma anche la convinzione che, per quanto vitale, essa non debba inquinare l’aspetto artistico, che passa obbligatoriamente per il sacrificio e la convinzione di poter diventare più grandi degli altri – una convinzione che si matura confrontandoci con i maestri del passato, non con chi cavalchi la moda del momento per procacciarsi un po’ d’attenzione a buon mercato.
A tal proposito, il 22 aprile 1920 Soffici è molto esplicito nei confronti di Rosai:
Ti consiglio anche di abolire i quadri brutti precedenti. È bene non mettere in circolazione cose mediocri o cattive che poi danno dispiacere a vederle e turbano, e nuocciono alla riputazione.
Tu sei giovane e non devi avere furia. Quelle tre o quattro belle cose possono farti subito pigliare un bel posto fra gli artisti giovani (rari) e sarebbe un peccato dare argomenti ai critici malevoli col far circolare roba inferiore. Lavora piuttosto di più e di’ a Castelfranco che se vuole roba buona, aspetti.
Hai capito? Quando potrò venir, finalmente, a Firenze, ti darò altri buoni consigli: ti farò vedere belle cose e ti farò capire cosa devi fare per esser grande più degli altri, che credono d’esser chi sa che e non son che dei piccoli e mediocri ciarlatani. Sarei felice se potessi aiutarti a divenir un ottimo pittore. Ma bisogna che tu mi ascolti.
La fretta non aiuta, solo il duro lavoro paga. Sembra un mondo al contrario, se paragonato a quello bulimico in cui viviamo noi contemporanei.
Tra queste righe respiriamo inoltre un senso di solidarietà e un rispetto che oggi suonerebbero quasi sospetti, abituati come siamo a leggere sempre dietro a ogni azione, per quanto buona, l’ombra di un tornaconto personale. Eppure tra pittori dell’epoca sembra funzionare così: lo è nel caso di Rosai che si raccomanda spesso a Soffici e gli chiede consigli, così come in quello di Apollinaire che difende il lavoro di Rousseau il Doganiere.
Nel leggere certe lettere emerge chiaramente quest’attitudine a riconoscersi tra simili, questa mutua riconoscenza che diventa una forma di difesa contro un mondo che fatica a separare l’ottimo pittore dalla schiera dei piccoli e mediocri ciarlatani di cui parla Ardengo Soffici.
Il vero artista si scaglia contro il gusto del tempo, contro la moda che rende l’arte inoffensiva – e anche qua verrebbe da aprire una parentesi sull’attualità, che sembra sempre più polarizzata tra adeguamento al gusto comune e una tendenza a provocare uno shock fine a se stesso.
A proposito sempre di Parigi e del vizio di seguire le mode, Cecioni aveva scritto a Signorini il 24 luglio 1870:
Ti assicuro, caro mio, che non c’è niente di più nauseante e stomachevole di questa pittura; quadri leziosi per essere graziosi, pittura che ha messo il culo alla finestra con la pose del très-joli. Non c’è un artista sincero all’infuori di Courbet.
Cecioni se la prende con una città in cui tutto suona falso – la stessa che di lì a pochi anni diventerà la culla delle avanguardie – dove la sincerità è ritenuta come la più brutta fra tutte le qualità.
La questione della sincerità, d’altronde, è spesso causa di scontri, che possono inasprisi finanche all’interruzione di amicizie di lunga data – come avverrà proprio tra Rosai e Soffici – ma sono immancabilmente i soldi a tenere banco.
Sempre Cecioni, in una lettera datata 1879, scrive a Cristiano Banti:
Il tempo passa, arrivo alla sera, non ho lavorato, ho pensato, ho girato, procurato, domandato, ma inutilmente: dimmi ora che specie di tornare a casa deve essere il mio? Dimmi con qual cuore entrare in mezzo ad una famiglia che ti aspetta a braccia aperte, famiglia che ami, che adori, che senti in te stesso, che vorresti vedere contenta e che sei impotente a contentare nella più piccola cosa? Dimmi tu che ami tanto la tua, se tu dovessi provare una sola volta nella vita quello ch’io provo sempre? Se i tuoi cari e paterni pensieri verso i tuoi figli dovessero rimanere soffocati nella impotenza, o meglio, diciamolo francamente, nella miseria?! Se le speranze in essi concepite, l’affettuoso regalo, il loro avvenire, i cari studi, tutto dovesse essere annientato dalla stessa miseria?
Nelle lettere dei macchiaioli (si veda per un approfondimento il libro Lettere dei macchiaioli, a cura di Lorella Giudici, Abscondita 2008) a questa condizione di miseria fa spesso da controcanto la fiducia riposta nell’arte, che, pur tra le innumerevoli difficoltà, potrebbe sempre diventare strumento di redenzione, come possiamo evincere da queste righe estrapolate da una lettera che Federico Zandomeneghi indirizza a Diego Martelli nel 1894:
Dimmi se nella tua solitudine e in mezzo a tanti guai lavori un poco e se produci qualche cosa. Quanto avresti potuto fare caro Diego se avessi saputo scuotere di tanto in tanto il tuo infernale scetticismo o se avessi avuto accanto a te un amico che t’avesse infuso un po’ di coraggio. Se ti dassi la pena di seguitare come hai la facoltà di cominciare saresti ancora in tempo di far molte cose.
Una fiducia nell’arte che è anche mondo ideale – parola oggi forse passata un po’ in cavalleria – per il quale vengono spese parole infuocate, anche contro il proprio tornaconto, perché se è vero che per vivere bisogna pur sempre guadagnare, non è detto che ci si debba svendere a tutti i costi.
È lo stesso Zandomeneghi a ricordarlo al suo amico Martelli, il 7 agosto 1895:
Tu mi parli di questa famosa pagliacciata che s’intitola l’esposizione di Venezia. Lessi in proposito delle critiche e delle relazioni pubblicate nei giornali italiani e che m’hanno confermato nell’idea che me n’ero fatta prima della sua apertura. È una speculazione – forse cattiva – per far guadagnare i locandieri e le compagnie delle strade ferrate e una riproduzione imbecille di tutti i Salons mondiali a base di giuri di medaglie e di acquisti officiali.
Fa un certo effetto leggere oggi queste parole al vetriolo contro quella che è diventata una vera e propria istituzione; si può pensare a un abbaglio, a un giudizio affrettato, eppure in questa parola – speculazione – si nasconde il senso di tanta arte, e della cultura in generale, contemporanea.
Se riflettiamo ad esempio sulla tendenza a far passare ogni nuovo romanzo per l’ennesimo capolavoro, avvalorato con tanto di fascetta, non ci troviamo forse di fronte a una forma di speculazione per accaparrarsi i pochi lettori rimasti? Lo spreco di aggettivi è diventata una consuetudine per cercare di vendere qualche copia in più, col bel risultato che l’inganno – perché di questo si tratta – finisce col tempo con l’ottenere l’effetto opposto.
L’avvento di una sorta di plusvalore culturale – la differenza, cioè, tra il valore dell’opera e la percezione che se ne vuole veicolare – è colto con amarezza già sul finire del XIX secolo dagli stessi artisti che se non sono celebri faranno di tutto per diventar celebri […] e metteranno tutto il loro amor proprio nell’aumento dei prezzi dei loro quadri o statue o nell’ottenere una medaglia o una croce.
Anche se con le dovute proporzioni, si potrebbe quindi azzardare un paragone con il presente? Che certe questioni emergano ancora oggi sui profili social di alcuni scrittori, che lamentano una scarsa visibilità o una mancanza di attenzioni da parte del proprio editore, fa quasi sorridere dopo le parole che abbiamo letto. Certo, potremmo sempre obiettare che trattasi comunque della fame di apparire e ricevere riscontri, ma con la differenza che dietro a questa non c’è quasi mai l’altra fame – quella che solo il denaro (le 50 lire di Rosai) può in qualche modo placare. Anzi, spesso sembra che oggi la questione economica debba rimanere nascosta, come se fosse una vergogna – ma è percepita come tale, aggiungo io, laddove non si tratti di reale necessità.
La soluzione a questo problema di ordine materiale non passa obbligatoriamente per la svendita del proprio lavoro, che in questo modo si adegua a ciò che richiede il mercato – e sarebbe paradossale se a farlo fossero coloro che nemmeno vivono della propria arte.
Le parole indirizzate da Soffici a Rosai, così come quelle di Zandomeneghi, vorrebbero insegnarci tutt’altro. Esse non ci negano che sia dura, né ci risparmiano il fatto che la disciplina, nell’arte, non sia affar di tutti. E forse, oggi, è proprio questo il punto: che ci crediamo tutti quanti artisti o scrittori, senza nemmeno sapere da dove si debba cominciare né dove si voglia andare. Abituati a stare tutto il giorno in vetrina, per quanto virtuale essa sia, conosciamo soltanto ciò che cerchiamo: un po’ di attenzione, per elemosinare la quale non facciamo neanche più la fatica di scrivere qualche lettera perché forse non abbiamo veri amici.
Citando un’ultima volta Rosai, si può dire che non c’è di peggio che esser poveri e non contar niente, che potremmo anche parafrasare così: non c’è di peggio che avere pochi follower e non contar niente.
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