Parlar chiaro e sette tuo! Recensione a Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia
“In principio era l’azione”, scrive animosamente Faust, traducendo l’incipit del Vangelo di Giovanni. «La storia, Elettra, comincia col nome» gli fa il controcanto Alberto Prunetti, in Nel girone dei bestemmiatori. Una commedia operaia (Laterza, Bari-Roma 2020, pp. 110), opera con cui lo scrittore chiude la trilogia iniziata con Amianto e proseguita con 108 metri. The new working class hero, e che ripercorre l’intreccio generazionale, politico e storico tra un operaio delle acciaierie piombinesi, ex Ilva, poi trasfertista, morto per le conseguenze di un lavoro letale per i polmoni, e il figlio scrittore, traduttore, apicultore, prima cervello in fuga verso il Regno Unito laboratorio della disumanizzazione del lavoro poi braccia di ritorno verso una terra dell’abbandono, di oblio e turismo di massa.
Un’epopea maremmano-labronica, fatta di ferro, acciaio, elettrodi, sale e amianto. Un mondo di acciaierie e domeniche nei campetti di periferia, di sanguinose economie domestiche e, soprattutto, lotta di classe. Un racconto di padri e figli(e), intimo e allo stesso tempo prosaico come Turgenev ci ha insegnato.
I loppi
Ma andiamo con ordine. Nel girone dei bestemmiatori è prima di tutto un canto, una narrazione orale di un mondo impercettibilmente tramontato rivolto a chi ne eredita l’ombra, la ripetutamente invocata Elettra, figlia di Alberto. Un canto difficile, perché manca la lingua che renda giustizia dei lavoratori ingoiati dall’acciaieria. Restano leggende familiari, lontana eco che si leva da tombe etrusche, frammenti di scarto: «Vedi quei sassi lucidi? Sono loppi. Prendili in mano. Senti come sono leggeri, per il volume che hanno? Dentro c’è ossigeno. Aria soffiata nella combustione di minerale e carbone. Con l’ossigeno ottieni la ghisa. Quel che non brucia bene, torna a prendere forma solida raffreddandosi. Come quei loppi neri che tieni in mano» (p. 91).
Prunetti si fa carico di questa responsabilità: raccogliere i loppi del mondo operaio, ciò che non è bruciato nell’altoforno, per consegnarlo a noi lettori. E così che il canto scorre di storia in storia, di loppo in loppo, dalle fatiche di un Ercole in tuta blu e saldatrice, alla vecchia Audi 80 con più vite di un gatto, dal giacobino nero che contribuì alla costruzione del Forno San Ferdinando delle acciaierie granducali di Follonica (sulla storia dei giacobini neri tra Elba e Piombino si vedano le preziose ricerche di Isabella Dolfino), alla macchina da scrivere di mamma Francesca, scrivana come Bartleby ma guai a chiamarla segretaria, cherubino implacabile della macchina aziendale, come le abitanti del Pirellone cantate da Bianciardi. E poi ancora c’è la storia del parente prete che tifa la squadra degli Agnelli, ispiratore di un sinistro rispetto, ma non alla palla che rotola tra strade e quartieri che ormai solo d’estate si riempiono di «quattrinai», padroni di un mondo che non ha bisogno di storie se queste non producono profitto per chi le racconta.
Ed è qui che la responsabilità assunta da Prunetti si fa più pesante, tocca la carne viva del suo rapporto con i padri e di quello con la figlia: quale lingua? Quali sono le parole, i nomi, i verbi con i quali raccontare la commedia operaia? Cosa abbiamo rimosso di quel mondo se oggi sentiamo il bisogno di raccontarlo?
Parole e cose
Bisogna attingere alla cassetta degli attrezzi di un linguaggio figurato, perfino iperbolico nella sfacciata ostentazione di materialismo (“brodo”, “questo ‘un monda nespole”, “qui ci sciagattano”, “vedrai che orzo”, “ora lo sganghero”, “so’ imbenzinato”) che nell’azione diventa preciso, esatto, concreto: «Gli intellettuali si gloriano di usare migliaia e migliaia di parole, ma quando vanno in ferramenta è tutto un cosare di cose che cosando cosano. Oppure si presentano davanti a uno che ha fatto l’Ipsia o il professionale a testa bassa, con la cenere in capo, con un pezzo rotto in mano, e supplicano: Per cortesia, gentilmente, potrebbe darmene uno uguale? E dall’altro lato del bancone c’è un tipo che ha fatto solo l’Ipsia e non c’ha il dottorato, ma è un traduttore, un semiologo capace di legge’ il ferro, uno che con pochi indizi sa dare un nome alla cosa: ti toglie il pezzo di mano, lo misura col calibro, sbuffa, ti qualifica come brodo senza speranza e ti dà quel che ti serve per sentirti un eroe del bricolage» (p. 28). Una parola per ogni cosa, una semiologia del ferro, dell’acciaio, di ciò che è fondamentale. È questo che i loppi ancora raccontano a noi che assembliamo mobili-giocattolo di una multinazionale nordica appagandoci dell’illusione di essere homines fabri in sedicesimo, rifugiandoci in un linguaggio figurato al punto tale di essere fatto da immagini e tormentoni: viviamo nell’inganno di un lavoro smart, immateriale, cognitivo raccontato con una lingua che non aderisce più alle cose. Ci manca la competenza di riconoscere i segni delle contraddizioni, quella semiologia del reale che rifiuta la retorica gentiliana dell’atto puro, un tempo funzionale a separare Renato da Alberto, il lavoro manuale da quello intellettuale, chi ha fatto l’Ipsia “a capo basso” da chi si è cinto il capo di alloro. È per questo che l’ultimo tassello della trilogia working class è fatto di una lingua a tratti viscerale, ma che non rinuncia alla metafora, ad una figuratività concreta.
Dante e Renato
I loppi, le storie, non sono disiecta membra inconciliabili. Li tiene insieme la parodia di una cornice epica, il Cerchio VII dell’Inferno dantesco raccontato al suono dell’armonica degli eroi crepuscolari dei western di Sergio Leone. Da una storia all’altra scendiamo tra chi «spregiando Dio col cor, favella» per incontrare l’incontestabile protagonista della trilogia, Renato Prunetti, saldatore trasfertista, working class hero, del quale abbiamo conosciuto la vicenda esistenziale in Amianto e la leggenda a fare da sfondo in 108 metri. È lui, di loppo in loppo, a progettare e mettere in atto un piano di fuga da questa oscurità senza fine, un sabotaggio della volontà divina, con l’aiuto di Steve McQueen e quello involontario del padre della lingua, quel fiorentino dall’eloquio forbito e caustico che si aggira tra dannati e anime senza mai sporcarsi veramente le mani. Dante che, nella sua opera imbellettata dalla qualifica aziendale di “divina”, almeno un errore di punteggiatura lo ha fatto, dal momento che quel bestemmiatore con la saldatrice in mano «spregiando Dio, col cor favella».
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