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Fuori cornice: tra scrittura e immagine. Rousseau le Douanier, un fanciullo nella giungla.

 Mi hanno sempre affascinato le vite dei pittori.

Credo che dipenda soprattutto dall’immagine della dedizione che associo direttamente a certi artisti – una questione, non lo nego, viziata probabilmente da una personale visione dell’arte ancora tutta proiettata dentro il Novecento. È d’altronde lo stesso motivo per cui trovo spesso respingente l’arte contemporanea, soprattutto nella sua dimensione performante. Ad attrarmi è la questione del corpo fuori dall’opera (non nel suo operare); il corpo come resto, trattato quasi alla stregua di un avanzo e perciò sacrificabile per più nobili scopi – come non pensare, qui, al famoso taglio dell’orecchio di van Gogh?

Nei diari dei pittori si sente spesso questo fuoco sacro, questa necessità dettata dallo spirito di sacrificio e dalla dimensione imprescindibile del lavoro, che passa per la padronanza della tecnica e per la scoperta. Si tratta dunque della necessità di mostrare la propria visione del mondo, di difenderla fino alla fine essendo disposti a pagarla anche a caro prezzo – non soltanto la povertà, ma anche il destino beffardo di essere riconosciuti postumi.

È stato questo ad esempio il destino di Henri Rousseau, detto il Doganiere, dalla cui parabola vorrei iniziare questa passeggiata tra la vita scritta di quegli artisti che definirei recidivi.

L’uso della parola, in Rousseau, è quasi sempre didascalico – e le didascalie, a volte in forma di filastrocca, accompagnano alcuni dei suoi quadri. In un’intervista pubblicata in «Comœdia» nel 1910 afferma:

«Ci vuole una spiegazione per i quadri, no? La gente non capisce tutto quello che vede».

Effettivamente nei suoi quadri c’è qualcosa di perturbante, a maggior ragione per chi viveva negli anni a cavallo tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, dominati ancora dall’Impressionismo. In una pagina autobiografica egli si definisce come «uno dei nostri (francesi, N.d.A.) migliori pittori realisti». La cosa è curiosa per due motivi: il primo, di ordine stilistico, visto che il presunto realismo di Rousseau sarà d’ispirazione per una serie di movimenti (il Cubismo, il Surrealismo e la Metafisica) che apparentemente sembrerebbero agli antipodi del realismo; il secondo di ordine biografico, perché Rousseau passerà tutta la sua vita a cercare di essere riconosciuto ufficialmente dalla critica dell’epoca.

Nel 1871, all’età di ventisette anni, entrò a lavorare negli uffici comunali del dazio di Parigi, dove cominciò a sognare di fare il pittore – anche se dovette attendere quindici anni prima di prendere per la prima volta in mano un pennello. Quella del sogno, che è anche il titolo di una delle sue opere più famose, sarà un’atmosfera ricorrente nei suoi quadri, al punto che André Breton parlerà di lui come l’iniziatore del realismo magico.

«Io vedo sempre un quadro prima di dipingerlo […] Solo che, mentre lo sto facendo, trovo delle cose che mi sorprendono e mi danno un gran piacere.»

Rousseau è stato purtroppo dileggiato in vita per questa sua dimensione fiabesca, per una naïveté scambiata troppo grossolanamente per incapacità e infantilismo.

«Opera di un ragazzo di dieci anni che ha voluto fare gli omini,» ebbero il coraggio di scrivere di lui nel 1885. Picasso acquistò una sua tela per cinque franchi da un mercante che gli suggerì addirittura di usarla per dipingerci sul retro.

Nelle lettere di Rousseau è costantemente presente questo senso di ingiustizia, l’idea che sia stato derubato di qualcosa.

«Sembra che mi avessero proposto per una medaglia: nessuno mi diceva niente, volevano farmi una sorpresa. Ma c’era un altro Rousseau, che mi venne a trovare e mi disse: “Non siete voi che riceverete la medaglia, sono io. Io sono molto ricco e ho degli appoggi.»

I suoi appelli alle autorità erano costanti, egli sentiva il bisogno di essere riconosciuto ufficialmente.

Il 16 ottobre del 1905 scrive al Sottosegretario di Stato alle Belle Arti:

«[…] mi hanno detto i miei colleghi che il vostro giudizio sul mio quadro Leone che ha fame non era negativo. Vi ringrazio: ma sarei felicissimo se lo Stato volesse acquistarmelo, perché ho avuto molte dure vicissitudini, avrei tanto bisogno di risollevarmi e realizzare ancora tele importanti: ho sempre intenzione di rendermi un degno Francese che vuole fare onore al suo paese.»

Si potrebbe insomma dire che Rousseau sia un rivoluzionario suo malgrado, difatti si riferisce spesso all’amico Apollinaire – nume tutelare delle avanguardie francesi – per chiedergli di aiutarlo ad essere riabilitato.

«Tu mi vendicherai del male che mi hanno fatto, vero?» gli chiede in una lettera datata  20 gennaio 1909.

E ancora, l’11 ottobre del 1910 gli scrive:

«[…] spero che sfrutterai il tuo talento letterario e mi vendicherai di tutti gli insulti e gli affronti ricevuti.»

La giungla, per Rousseau, sembra essere insomma una metafora della società, che da sempre lo dileggia e lo truffa, come nel caso del raggiro ai danni della Banque de France in cui era stato coinvolto. Il 2 dicembre 1907 venne incarcerato e nel corso dello stesso mese indirizzò molte lettere al giudice per ottenere clemenza.

«Mi hanno sempre rimproverato di essere troppo debole di carattere e troppo buono,» scrive a propria discolpa il 5 dicembre, «è successo più di una volta; certo, se non avessi sostenuto i poveri come ho fatto oggi sarei ricco.»

E ancora, il 19 dicembre:

«Se i miei genitori avessero saputo che ero portato per la pittura, […] oggi sarei il pittore più grande e più ricco di Francia.»

Invece, come scrisse Ardengo Soffici, che per primo si occupò di lui in Italia:

«[…] passa la vita nel lavoro ignorato, raccolto e paziente, salutato da risa e da scherni ogni volta che esce dalla sua solitudine per mostrare al mondo il frutto delle sue fatiche».

È forse questo il motivo che spinge Rousseau a inserire frequentemente nelle sue tele il motivo della lotta per la sopravvivenza? Viene da pensare che i leoni e le tigri che si avventano sulle loro prede siano proprio quegli stessi critici che lo hanno tanto deriso, incapaci di rendersi conto che il Doganiere avrebbe rivoluzionato l’arte al pari di Cézanne e Van Gogh.

A spaventarlo non è la natura, bensì la comunità degli uomini:

«Ormai scoraggiato, avendo perduto il mio affetto più puro, e non essendo un materialista, conducevo una vita da filosofo: amavo solo la natura, la bella e grande natura che ogni artista deve venerare.»

Eppure Rousseau rimase fondamentalmente un entusiasta – uno che sembra non conoscere le regole né della pittura né della vita – anche se la sua tragica morte, avvenuta nel 1910 per una ferita non curata a una gamba, ha tutta l’aria di preannunciare gli incubi novecenteschi che di lì a pochi anni inizieranno a infestare l’Europa.

Al suo funerale si presentarono in sette, nonostante l’amico Apollinaire avesse scritto pochi mesi prima, in occasione dell’esposizione del quadro intitolato Il sogno al Salon des Indépendants:

«Credo che quest’anno nessuno oserà ridere… Domandate ai pittori. Sono tutti unanimi: lo ammirano. Ammirano tutto, vi dico, anche il canapé Luigi Filippo perduto nella foresta vergine, e hanno proprio ragione.»


*Le citazioni sono prese dal libro Henri Rousseau. Lettere e scritti (a cura di Elena Pontiggia), Abscondita, 2009.

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