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diretto da Romano Luperini

bayard

Al posto di un altro. Un libro sul viaggio nel tempo, e sulla scoperta di se stessi

 Geometrie dell’inconscio 

Nel saggio “Sarei stato carnefice o ribelle?” lo storico e psicanalista francese Pierre Bayard, nato nel 1954, prova a mettersi nei panni di suo padre: immagina quindi come si sarebbe comportato se, nato qualche decennio prima, si fosse trovato a dover scegliere da che parte stare nella Francia di Vichy.

Costruisce la sua riflessione con gli strumenti del suo lavoro: categorie e processi psicologici, conoscenze e competenze storiche e storiografiche, passione intellettuale e letteraria.

Al centro del discorso, colloca la nozione di “personalità potenziale”, illustrata nel primo capitolo:

(…) l’essere umano non è fatto soltanto di quel che è nel contesto storico e geografico in cui è nato, ma si compone anche di quel che avrebbe potuto essere se si fosse trovato in una situazione diversa, e in particolare in una situazione di crisi violenta, la più adatta a rivelare – conducendolo fino ai suoi limiti – quel che è veramente.

Questa personalità potenziale – che altro non è se non un’altra forma dell’inconscio – può rimanerci ignota per tutta la vita (…) È però possibile, in alcuni momenti di crisi individuale, vederla apparire in filigrana in noi o negli altri, e provare a indovinare come si sarebbe fatta valere in altre circostanze.

Bayard ritiene di poter attribuire alla personalità potenziale un autentico fondamento scientifico, e ne definisce le caratteristiche in base a tre fattori.

Il primo è costituito dalle “leggi scientifiche del comportamento”, formulate in famosi esperimenti: ad esempio, quello condotto fra il 1960 e il ‘63 da Milgram sull’obbedienza; oppure il lavoro dei ricercatori americani Samuel e Pearl Oliner, del 1988, sulla “personalità altruistica”.

Il secondo è costituito dall’eredità etica e valoriale della sua famiglia, ovviamente centrale in un lavoro strutturato come confronto fra le idee e le decisioni del padre e quelle che lui stesso avrebbe potuto assumere, se si fosse trovato al posto del genitore.

Infine, il ragionamento su “situazioni paragonabili”: l’autore non ha mai affrontato l’alternativa fra Pétain e De Gaulle, ma può recuperare dalla sua esperienza indicazioni ed indizi utili a proiettare un altro se stesso – che chiama “io delegato” – in quello scenario.

Il complesso patrimonio di valori, idee, processi e inclinazioni, che ci costituisce come persone, è considerato il substrato dal quale nascono le scelte, secondo una logica che si può indagare senza risolverla in termini deterministici:

(…) ogni vita è quindi una successione di biforcazioni, più o meno chiaramente visibili, che disegnano davanti a noi una moltitudine di itinerari virtuali: ognuno di essi conduce a esistenze parallele che non conosceremo mai, esistenze nelle quali avremmo potuto vivere altre esperienza, fare altri incontri, amare o odiare altre persone.  Esistenze che avrebbero forse rivelato altre personalità potenziali che portiamo dentro di noi e che nondimeno ci rimarranno per sempre nascoste.

Nello sviluppo del saggio, Bayard analizza con acume il meccanismo della scelta, studiando la complessa interazione che si svolge – nel profondo della psiche – fra elementi di “obbligo interiore” e “reticenza interiore”; con queste categorie, lo studioso indica rispettivamente le forze che ci spingono ad assecondare la spinta morale di ribellione ad una situazione che opprime la libertà e mette gli uni contro gli altri, o al contrario a reprimerla e negarla, scegliendo il conformismo e addirittura la complicità con l’oppressore.

L’azione di elementi come il disaccordo ideologico, l’empatia, la paura, l’obbedienza all’autorità, viene analizzata a partire da esempi storici e culturali concreti, alcuni dei quali molto noti. Il libro spazia attraverso decenni di storia contemporanea e intreccia narrazioni legate a diversi avvenimenti.

Da una parte, quelli legati al totalitarismo nazifascista: la vicenda del Battaglione 101 della polizia tedesca, studiata da C. Browning in “Uomini comuni”; quella del villaggio di Chambon-sur Lignon, in cui la comunità protestante accolse e salvò centinaia di ebrei; la vicenda di Hans e Sophie Scholl e della “Rosa Bianca”. Esempi, questi, più direttamente paragonabili, secondo il modello generale di “personalità potenziale”, al suo personale dilemma di fronte all’occupazione nazista della Francia.

Dall’altra, avvenimenti più recenti, in cui si è ripresentata, per chi ne è stato protagonista, una biforcazione esistenziale in grado di fare emergere prepotentemente la personalità potenziale di ciascuno: il genocidio attuato dai Khmer rossi in Cambogia fra il 1975 e il ’79; la storia del generale serbo Jovan Djviac, che nel 1992 decise di rimanere a Sarajevo nell’esercito bosniaco del quale faceva parte; quella del genocidio dei Tutsi, avvenuto in Ruanda nel 1994.

Alle descrizioni e alle storie, narrate con semplicità e piglio letterario, succede in chiusura di ogni capitolo una breve riflessione teorica, che riconduce elementi che potrebbero apparire frammentari ad un’unica ragion d’essere: fornire elementi di giudizio allo psicanalista e allo storico, nel tentativo di rendere visibile la presenza di un “sé potenziale” che avrebbe agito, se l’autore fosse stato un altro se stesso, nato qualche decennio prima al posto di suo padre.

Leggere, comprendere, interpretare

Nelle ultime pagine, si scopre quale sarà la sentenza dell’autore si di sé: il suo giovane alter ego sarà stato un timido oppositore, o avrà trovato nel proprio inconscio la forza per ribellarsi apertamente ai carnefici che si sono impadroniti del suo mondo?

Indipendentemente dalla sua conclusione (e dal giudizio di ciascun lettore su di essa), il percorso di costruzione di questo “io intermedio” è assolutamente affascinante, e si basa su due “sottrazioni” intellettuali:

Il primo elemento da sottrarre è la conoscenza della Storia. Se sapessi fin dal 1940 che gli Alleati vinceranno la guerra, sarei portato più naturalmente ad adottare una condotta di resistenza che se pensassi il contrario. (…)

 Il secondo elemento di cui mi devo liberare è l’insieme dei miei presupposti intellettuali di oggi. Se mi traspongo tale e quale nel passato, la dimensione ideologica della scelta con cui si sono dovuti confrontare i francesi dell’epoca si cancellerà completamente, in particolare per quanto riguarda l’atteggiamento verso le forme di governo e l’antisemitismo. Per un intellettuale di oggi, la democrazia è indiscutibile e l’antisemitismo è una patologia. Non era affatto così all’epoca, quando intellettuali rinomati potevano criticare la prima e difendere il secondo.

In questa costante dialettica fra identificazione ed estraneità (con gli altri, con se stessi, con la Storia), consiste a mio parere il pregio principale e il profondo valore del libro di Bayard.

È un tratto che tocca profondamente chi nutre una passione per il libero pensiero e per l’’immaginario letterario. Disegna infatti lo scenario quotidiano di chi legge ed insegna letteratura: adottare sentimenti ed idee che spesso non gli appartengono, farli “entrare dentro di sé”, liberandosi (momentaneamente) delle proprie convinzioni e dei propri stati d’animo. Fino all’estremo: “fingere” la morte, l’angoscia, l’amore di un’altra o di un altro, con un atto di immaginazione assoluta, che solo consente l’immedesimazione.

Di questa dimensione sottolinea l’importanza l’autore stesso, quando nelle prime pagine afferma:

Ci sono molti modi di leggere questo saggio. Il primo consiste nel vederci una riflessione sulla lettura. Di fronte ai numerosi testi in cui sono presenti scene legate a situazioni storiche violente, ci troviamo a formulare più o meno chiaramente dei giudizi sugli attori o sui personaggi senza tuttavia chiederci quel che avremmo fatto se ci fossimo trovati al loro posto. Una simile rinuncia falsa la nostra percezione del testo. Questo libro prova, nel modo più onesto possibile, a rispondere a un tale interrogativo.

Un altro modo di leggere questo libro è considerarlo un libro sulla resistenza. Gli esempi storici su cui rifletterò saranno per lo più presi a prestito da figure di opposizione alla tirannia. La ragione principale di questa scelta è legata al fatto che ai miei occhi il divenire ribelle è un fenomeno più impenetrabile del divenire carnefice. Per un freudiano, lo scivolamento verso le tenebre non ha nulla di enigmatico, e lasciare libero corso alle pulsioni violente quando le barriere della società crollano rientra nella logica del funzionamento psichico.

Molto più misterioso è il divenire ribelle, ovvero quella capacità di dire no che alcuni esseri umani manifestano in certi momenti della storia, andando contro non solo a ciò che si impone loro di fare e al loro interesse oggettivo, ma anche a quella che talvolta è, almeno in apparenza, la loro personalità.

Nell’epoca della spettacolarizzazione e dell’eterno presente, queste parole rimandano ad un aspetto fondamentale dell’insegnamento: la capacità di storicizzare e attualizzare problemi, documenti, fatti, testi. Una capacità che ha a che fare con l’identità individuale e sociale di ciascuna e ciascuno di noi, e in larga misura definisce il ruolo che decideremo di giocare nella microstoria di cui saremo certamente protagonisti, o – se dovesse capitarci di incontrarla da vicino – con la Storia.

Anche nella scuola (per molti, solo nella scuola) leggere cercando di comprendere ci spinge a prendere coscienza delle distanze che ci separano dalle storie che altre persone raccontano. Nello stesso tempo, però, attraverso un ascolto profondo delle loro voci, ci impegna a percorrere idealmente la distanza che ci separa da loro (da noi stessi?), immedesimandoci, rendendo presente il passato, facendo nostra l’alterità..

Bayard mostra di considerare vitale questa capacità di comprensione, rispecchiamento, immedesimazione, lettura profonda. Nelle sue parole, sembra di risentire Erich
Fromm
, quando distingue due modi di ricordare ed apprendere: il primo legato all’idea di avere, che vede la conoscenza come pura nozione/ dato, e definisce il compito di chi apprende come ripetizione, obbedienza, conferma; il secondo inteso invece come essere, al cui interno la conoscenza è fondamento di un’interpretazione soggettiva, e il sapere si costruisce attraverso domande sempre nuove ed imprevedibili rivolte alla realtà.

Il percorso di “apprendimento” e “comprensione” di cui scrive Bayard riflette quella che Fromm definisce “modalità dell’essere”, ed implica da parte del lettore/ analista un moto deciso verso e dentro di sé, in cui l’oggetto da conoscere (la Storia) diventa il soggetto che conosce (la propria storia).

In questa prospettiva si incontrano naturalmente sapere e vivere (se mi è consentito, conoscenza e competenza): non si può infatti fare a meno di conoscere (fatti, documenti, testi, esperienze) per giudicare, confrontare, scegliere; ma la conoscenza diventa vitale solo quando si misura con un qui e ora in cui non viene ripetuta ma interpretata, non viene imitata ma vissuta.

Bayard sottolinea l’esigenza di nutrire la conoscenza e il senso della storia (la propria, quella degli altri e quella degli avvenimenti), anche attraverso “la pratica del viaggio nel tempo che ho tentato di inaugurare in questo libro” (per quanto la definisca “incerta nella realizzazione e nei risultati”), fino ad estenderla ad altri contesti storici.

Questa variabilità della persona, sottomessa in modo sperimentale a situazioni inedite che mirano a rivelarla a se stessa, non va sottovalutata sul piano scientifico, perché permette di comprendere meglio, immergendoci nella storia ed estraendoci dal contesto riduttivo del presente, ciò che, al di là della patina delle contingenze, siamo in realtà.

Al di là degli stereotipi

Un altro aspetto del libro di grande rilevanza, per chi si occupi di storie e di insegnamento, è l’originalità della descrizione della figura del “ribelle” e del racconto delle sue azioni, lontano dalle rappresentazioni sociali stereotipate nelle quali siamo letteralmente immersi.

Questo lavoro di decostruzione degli stereotipi tocca soprattutto due punti: l’antitesi fra bene e male, legata all’idea già analizzata di “biforcazione” e scelta etica, e la concezione dell’eroismo individuale, su cui mai come negli ultimi mesi sono state spese parole vuote.

Bayard riflette sul fatto che molti “eroi” sono diventati tali loro malgrado, come nella storia incredibile dell’ambasciatore portoghese a Bordeaux, de Sousa Mendes.

In modo complementare, analizza il ruolo giocato dal caso nella scelta di “essere carnefice”, nelle pagine bellissime dedicate all’analisi del film di Louis Malle “Lacombe Lucien”, e alle polemiche che suscitò.

Riprende la distinzione operata da Todorov (in “Di fronte all’estremo”) fra “eroi” e “Giusti”, e l’identificazione dei secondi nei “soccorritori” che, secondo Todorov,

non si riconoscono nel modello eroico. Molto dopo la guerra, quando qualcuno si rallegra perché si sono comportati da eroi, negano accanitamente. Perché? In primo luogo perché, contrariamente agli eroi, considerano la vita dell’individuo come un valore insuperabile e non nutrono nessuna venerazione per la morte. (…) In effetti non cercano mai di sacrificarsi e i rischi che assumono sono calcolati.

In molti soccorritori, sottolinea proprio il rifiuto di una dimensione pubblica del riconoscimento, a vantaggio di una diversa intimità/ vicinanza con la propria anima. Parla, per alcune di queste situazioni, della “sensazione di non essere soli” (anche contro ogni evidenza reale), o di “presenza a se stessi”. Parla, soprattutto, della capacità di non lasciarsi intrappolare dai quadri di riferimento esistenti e, addirittura, di saper creare da sé nuove regole, esaltando il ruolo del pensiero autonomo.

Questa dote emerge con particolar rilievo nella storia di Milena Jesenska Pollack, che molti conoscono di nome per la sua relazione con Kafka. Reclusa in un campo di concentramento

Milena prova a mettere la sua capacità di vivere al di fuori di ogni quadro di riferimento a servizio delle compagne di prigionia, facendo di tutto per aiutarle, per proteggerle dall’arbitrio delle guardie, per salvarle dalla morte quando il campo di concentramento si trasforma a poco a poco in campo di sterminio. (…) Il comportamento di Milena non si caratterizza soltanto per un’eccezionale capacità di liberarsi dagli obblighi amministrativi o dai quadri di pensiero abituali. La sua attività a Ravensbruck (…) è ascrivibile a una dimensione di ordine diverso: a qualcosa che non soltanto si avvicina al rifiuto di ciò che esiste imponendosi a noi come regola, ma a una forma di creazione.

Eroi nascosti, disobbedienti silenziosi, creatori di quadri di pensiero: un vocabolario e dei comportamenti di cui abbiamo un grande bisogno.

Al posto di un altro

Il saggio di Bayard argomenta il suo disaccordo rispetto a quanto Primo Levi afferma nel libro “I sommersi e i salvati”, di cui in esergo si cita un passo famoso:

Accade spesso a noi reduci, quando raccontiamo le nostre vicende, che l’interlocutore dica: ‹‹Io, al tuo posto, non avrei resistito un giorno››. L’affermazione non ha un senso preciso: non si è mai al posto di un altro. Ogni individuo è un oggetto talmente complesso che è vano pretendere di prevederne il comportamento, tanto più se in situazioni estreme; neppure è possibile antivedere il comportamento proprio.

La sapiente costruzione del meccanismo narrativo – tutto giocato su uno schema di simmetrie e richiami interni, in cui ha una posizione centrale il numero 3 – spinge il lettore ad interrogarsi seriamente su questa presunta impossibilità. Il garbato ed onesto narratore onnisciente ci convince con intelligenza che sia possibile “mettersi al posto di un altro”.

E che si possa farlo attraverso un faticoso e affascinante percorso di conoscenza e studio di se stessi, della storia, dei testi, in una costante crescita di consapevolezza culturale e psicologica.

Nell’epoca del trionfo della psicometria e degli algoritmi decisionali, non è davvero poco.

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