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Presunzione di colpa

 Abbiamo chiesto a Silvia Pareschi che da anni divide la sua vita tra USA e Italia e che lavora come traduttrice di autori tra cui Colson Whitehead, Jonathan Franzen, Don DeLillo, Cormac McCarthy, Zadie Smith, Shirley Jackson, Annie Proulx, di scrivere un pezzo a caldo sugli Stati Uniti, oggi. 

***

Vivo negli Stati Uniti ormai da dodici anni, e nello stesso tempo non posso dire di viverci veramente, perché ci passo un po’ meno di sei mesi all’anno – tre mesi di qua, tre mesi di là, in uno scomodo pendolarismo intercontinentale dettato da diversi motivi ma fondamentalmente dal fatto che non mi sento e non mi sentirò mai minimamente americana. Ma proprio per niente. Anzi, non mi sono mai sentita così italiana come da quando ho cominciato a passare tanto tempo negli Stati Uniti. Il paese di mio marito, il paese di tanti degli autori che traduco e di una letteratura che amo profondamente, il paese di tanti miei cari amici e di tante persone meravigliose. Un paese dalle bellezze naturali mozzafiato, un paese di cui è molto facile innamorarsi e di cui ero innamorata anch’io, prima di abitarci. Poi l’amore si è trasformato in un sentimento ambivalente e complesso, che ho raccontato anche nel mio libro, I jeans di Bruce Springsteen e altri sogni americani, uscito per Giunti nel 2016.

La città dove vivo è San Francisco. Non credo che ci sia più nessuno che pensa a San Francisco come a una città di artisti e di pazzerelloni alternativi, ma se ancora ci fosse, be’, devo dargli una brutta notizia. Grazie alla vicinanza con Silicon Valley, San Francisco è oggi la città più ricca degli Usa. Il mercato immobiliare è fuori controllo – per affittare un bilocale ci vogliono in media 3500 dollari al mese – e questo ha rapidamente allontanato dalla città non solo gli artisti e i pazzerelloni alternativi, ma anche semplicemente la classe media. Infermieri, insegnanti, pompieri, per non parlare di chi fa lavori meno specializzati di questi, sono costretti a vivere in sobborghi lontanissimi e affrontare viaggi lunghissimi per andare a lavorare ogni giorno (di solito in macchina, perché in California i trasporti pubblici sono quasi inesistenti. Alla faccia dello stato ecologista). Gli autisti di Uber spesso dormono nelle loro auto. La città è popolata in prevalenza da giovani techies che guadagnano stipendi strabilianti a vent’anni e hanno completamente cambiato il volto della città.

Quando pensiamo alla città più ricca degli Usa, probabilmente immaginiamo un posto simile ad altre città ricchissime, che so, tipo Lugano, dove tutto funziona alla perfezione e non sembra esistere la povertà. Invece no. Ogni tanto incontro qualche turista italiano che per prima cosa mi dice: “Ma quanti senzatetto ci sono?!” E per seconda: “Ma com’è sporca questa città!”

A San Francisco, secondo gli ultimi conteggi, nel 2019 c’erano 17595 senzatetto (con un aumento del 30% rispetto all’anno precedente), su una popolazione di circa 880000 abitanti. La maggior parte di questi senzatetto sono persone di colore. A differenza di città più, diciamo così, “integrate”, a San Francisco quasi gli unici neri che vedrete sono senzatetto. Quelli che appartengono alla classe media sono rarissimi, quasi inesistenti. Tutti quelli che hanno potuto se ne sono andati, per la maggior parte nella vicina Oakland. I senzatetto di San Francisco sono spesso disabili psichici (di cui lo Stato della California non si occupa più fin dagli anni Settanta, all’epoca della deospedalizzazione selvaggia realizzata dal governatore Reagan), tossicodipendenti o entrambe le cose (spesso i disabili psichici si automedicano come possono, cioè drogandosi). Ma non solo: in un paese dove non esiste una rete di protezione sociale, dove la sanità è privata e costosissima e solo chi ha un buon impiego può avere una buona assistenza medica, basta un momento di sfortuna (la perdita del lavoro, una malattia che richiede cure costose) per finire dritti in mezzo alla strada.

E sto parlando di una città considerata progressista.

Ora pensate di vivere in una città dove nel tragitto per andare al lavoro passate accanto a vere e proprie tendopoli di gente che vive per la strada. Pensate di vedere ogni giorno questa massa di gente poverissima, sporca, malata, folle, nella città più ricca degli Stati Uniti. E questa gente è quasi tutta nera. E gli altri, i bianchi che vanno in ufficio o al corso di yoga, li scansano senza nemmeno guardarli, perché ci sono abituati. E voi pensate, io non voglio abituarmi a tutto questo, io non faccio parte di tutto questo, io non sono come voi, io non voglio essere come voi. Eppure in qualche modo lo sono. Anch’io faccio parte della classe privilegiata. Non del tutto, perché non sono una cittadina americana. Però sono bianca. E quando sono lì non posso farci niente, lo sento cosa vuol dire essere bianca. Vuol dire presunzione di innocenza. È un diritto che qui diventa un privilegio legato al colore della pelle. Quando sei nero devi essere tu a dimostrare la tua innocenza, non sono gli altri a dover provare la tua colpevolezza.

Ma come fanno a subire tutto questo, pensavo. Sono davvero riusciti a spezzarli fino a questo punto? La risposta, per fortuna, è no. Non ci sono riusciti.

È un momento difficile per gli Stati Uniti, uno dei più difficili della loro storia. Quel paese è riuscito a deludermi profondamente e dolosamente, ma a volte mi ha riservato anche delle belle sorprese. Forse è proprio questo che ci piace degli Stati Uniti, il fatto che a volte riescano ancora a sorprenderci. D’altronde nessuno si aspettava un presidente nero, no? Non ero là per l’elezione di Obama e non sono là per le proteste di questi giorni. Spero di essere là quando in novembre verrà eletto un nuovo presidente. Ma se succederà, sarà solo l’inizio. Ne hanno tanta di strada da fare, per diventare un paese dove la giustizia è uguale per tutti.

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