Pubblichiamo questo articolo di Simone Ghelli, una riscrittura di un suo racconto intitolato “L’ora migliore” e uscito nella raccolta omonima per Il foglio nel 2011 e ora fuori catalogo. In questo racconto Ghelli riflette sul senso della scrittura davanti all’ipertrofia del mercato editoriale.
***
Non di rado mi sveglio nel cuore della notte: alle tre, alle quattro. Resto immobile, nel buio della sala cinematografica allestita dietro le mie palpebre. M’immagino rannicchiato, in posizione fetale. Immagino di riavvolgere il film della mia vita, di prendere strade alternative. Se solo avessi detto no quella volta, se fossi stato più intraprendente quell’altra. Le storie s’intrecciano, si arricchiscono di particolari mentre i miei muscoli accennano timidamente una reazione. Istintivamente, mi porto una mano al torace.
Potrebbe essere il momento giusto. Il pensiero di farcela, di rompere con la routine – la passività dello spettatore solitario, rapito dalla visione – accende le propaggini. Le dita delle mani si agitano, vorrebbero afferrare. I piedi scalpitano. Potrei alzarmi per riversare il materiale – si dice così quando qualcosa passa da un supporto all’altro, in questo caso dalla mente allo schermo; che in un certo senso sono la stessa cosa: una lavagna su cui i dati possono essere trascritti e riscritti all’infinito.
Potrei alzarmi e invece preferisco mantenere l’atto in potenza. Preferisco lasciarmi cullare dalle tentazioni del tempo condizionale.
Ho paura d’invecchiare, non voglio guardare avanti. Mi rifiuto di sentire il rumore che faccio quando mi rompo. Quando inizierò a guastarmi, sarò arrivato a fare almeno un centesimo di quello che avrei voluto? Il rovello rimane lì, conficcato nella carne, che lavora in silenzio.
Non di rado mi sveglio nel cuore della notte, spesso è un sogno in un altro sogno. È come se un altro corpo fosse sopra il mio e mi schiacciasse. Forse sono proprio io, quello che mi rifiuto di vedere. Sono io che ho attraversato indenne i terremoti del sogno, che ho assistito al crollo della mia casa, tanto a lungo inseguita.
Gli spifferi d’aria passano ovunque, c’è poco da darsi pena, perché un pertugio la natura lo trova sempre. Viene a battermi le nocche in testa come a chiedere il conto. Toc, toc?
Da ragazzo ho letto tutti i racconti di Edgar Allan Poe, ovvio che mi venga da pensare a cosa possa nascondere un muro.
Tra me e il fuori non ci sono che pochi centimetri di malta e forati. Se poggio l’orecchio, sento il vuoto. Ha un sibilo, come dentro una conchiglia, ma più freddo. L’ultimo piano nel vuoto è come essere gettati nello spazio.
Capita che mi manchi l’equilibrio, da quando c’è stato il terremoto. Il letto si era spostato di almeno un metro. Mi ero risvegliato naufrago su una zattera alla deriva. Da allora, mentre sono seduto mi sento ondeggiare, odo l’onda propagarsi nello spazio, la sento contrarre e dilatare i muri.
Il cuore rallenta il suo battito sopra questa strada che puzza di urina e arance marce. Un solo colpo, un vibrato sordo, cupo. Tuuuumm. Sembra arrivare da lontano, un’onda lunga che s’infrange sul sogno.
L’acqua sta per ricoprire questo mondo ancora una volta, una spirale in cui nuoto più veloce di tutti. È un incubo che si ripete da tempo.
Il ritmo del respiro cerca inutilmente di riportarmi in superficie, mentre il cuore sprofonda in una tenebra dove tutto scricchiola.
La tachicardia è come un gatto rannicchiato che gioca col topo. Intravedi la libertà proprio dietro l’angolo in cui lei ti acchiappa. Zac! Devi farti piccolo piccolo prima di riuscire a passarle tra gli artigli. Una, due, tre volte lei t’acchiappa, e ogni volta è come tornare in superficie a prendere una boccata d’aria che ti riempia i polmoni. Ogni volta ti senti scoppiare qualcosa dentro, la stessa cosa che scoppia più volte sotto il peso della pressione che agita i fondali marini.
Al quarto tentativo mi adagio immobile sul fondo, dove la paura diventa soltanto una parola che si sbriciola in tante altre parole minuscole come coriandoli, in una fitta pioggia di soffice neve che mi copre fino ad attutire ogni rumore. Al quarto tentativo non so più dove sono, non so più chi sono.
Toc. Un rumore sinistro si perde nell’intercapedine tra il soffitto e i pannelli di polistirolo, dove una mosca ronza disperata da giorni. Com’è arrivata là dentro? Non appena accendo la luce cala il silenzio.
Mi succede anche quando scrivo. Io non ho nessuna lampadina in testa, nessun lampo di genio. La mia luce è a risparmio energetico, e quando si scalda m’illumina i pensieri a giorno, ma ormai si è già fatto tardi per scrivere. Sono per strada, sono sul tram, sto davanti al televisore. I pensieri mi passano davanti con una tale velocità che non riesco a fissarli.
Le parole che scrivo non hanno peso, restano imprigionate sullo schermo opaco che m’ipnotizza le pupille.
Il ronzio del computer è lo stesso di quella dannata mosca che tormenta le mie notti. Forse dentro questa scatola ci hanno fatto le uova le sue compagne e ora non sanno più come uscirne.
Mi preoccupa questa secchezza della materia cerebrale, questo atrofizzarsi del pensiero delegato alle macchine.
Viviamo d’impressioni. Ogni colore o suono ci riporta a qualcosa di già visto, di già detto, ma noi lo stesso continuiamo a immagazzinare le informazioni.
Ci siete mai entrati voi in una di queste grandi librerie del centro? C’è da diventarci matti! Ma chi la legge tutta quella roba? Pareti di carta martoriata dai colpi delle instancabili dita. Tac tac, tac tac. Autostrade lastricate di parole, dove i pensieri sfrecciano senza rispettare i limiti di velocità.
D’altronde, chi non ha una sua idea di letteratura? Saremo sempre di più, sempre di più, non c’è scampo. Credo sia questo che mi frena; l”idea di darmi tanto da fare per poi ritrovarmi in una stanza affollata con quelli della mia stessa specie, gente che quelle stesse dita te le infilerebbe negli occhi pur di farsi un po’ di spazio.
Gli editori sono come dei geometri che ti accolgono tra le loro rendite catastali. S’inventano degli spazi ovunque, quelli! Basta pagare e avrai il tuo appezzamento di terreno su cui arare e inseminare il verbo. Di cui nessuno coglierà i frutti, questo è ovvio.
Tutti questi pensieri mi sfiniscono. Sono un peso che mi porto dietro ora dopo ora, finché non arriva la sera e loro mi crollano addosso senza pietà. Perché non succede come con quei sogni che ci si dimenticano al risveglio?
Di tutte le strade, è sicuro che sto percorrendo la più tortuosa. Che strana malattia quella di dover trascrivere le proprie fantasie! Bisognerebbe inventare un macchinario collegato al nostro cervello per visualizzare le storie che vi passano attraverso. Perché in fondo noi scrittori non facciamo altro che annusare l’aria e captare queste strane sostanze che essa si porta dietro.
Scrivere aiuta a difendersi dalla dittatura del Soggetto. Questa frase l’ho scritta tempo fa, e forse è l’unica cosa veramente sensata che io abbia mai detto.
Proprio non ci riesco. A scrivere di notte, dico. Anche se la mia testa gira bene, c’è questo piccolo problema delle palpebre, di queste pieghe di carne che apriamo e chiudiamo come delle tende. Dopo una certa ora vengono giù. Si fanno pesanti come asciugamani bagnati.
Ecco che ricomincia. C’è la mosca, e c’è anche il mistero della temperatura. Per via dei suoi continui sbalzi, il materiale del controsoffitto si contrae e si allarga. Caldo, freddo. Freddo, caldo. Sembra che se ne venga giù tutto quanto il tetto. Continuo a immaginarmi queste piccole crepe che si formano ovunque, le ferite che affiorano da questo profondo lago chiamato inconscio.
Ho il terrore di vedere cosa possa esserci oltre quella barriera di polistirolo traforato. Avrei dovuto farlo subito, ma ormai sono passati troppi anni. Questa paura di guardare è diventata come un’abitudine.
Ho nascosto tutti i miei quaderni in un cassetto. Sono i diari di un naufrago.
Per quanti viaggi immaginari io possa tracciare, alla fine non troverò che un punto. Un misero punto, uno schizzo d’inchiostro.
In fondo credo di aver cominciato a scrivere per districare la complessità, questa giungla che mi ritrovo nella testa e intorno a me, che negli anni non ha fatto che estendersi, aumentare le specie animali e vegetali.
All’inizio era divertente giocare, fingere che la contaminazione fosse un fenomeno nuovo, lasciarsi galleggiare nel mare infinito che avremmo poi chiamato internet. All’inizio non c’era la paura di annegare, l’ansia di trovarsi in tutti questi spazi già affollati, troppo presi com’eravamo dalla necessità di spintonare, di farci largo, di dire la nostra – anch’io ho detto fin troppo, in alcuni casi; lo abbiamo fatto tutti.
All’inizio la giungla ci ha fatto sentire forti – gridavamo, era il nostro momento: la rivoluzione – ci ha fatto sentire la presa sul tempo, come artigli, quella sensazione che ci sfuggiva da troppo. All’inizio c’era dell’energia, che si è presto dispersa – pochi anni, in certi casi mesi – ed ha lasciato un vuoto, un gorgo che continua a risucchiare con la stessa potenza, anche se c’è rimasto ben poco.
Esco consumato da tutti questi anni di asserragliamento sul presente, desideroso di un paesaggio brullo, di bassi arbusti, dove lo sguardo possa abbracciare tutt’intero l’orizzonte. Negli ultimi mesi ho estirpato molto, ho tolto un sacco di radici e sfoltito le fronde. Oggi mi sento decisamente più leggero.
Credo che la mia scrittura voglia questo da sempre: portarmi verso qualcosa che somigli a una tundra dell’anima.
Ecco che ricomincia.
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