Perché leggere La città sommersa di Marta Barone
Questa storia ha due inizi: almeno due, perché, come tutto quello che ha a che fare con la vita, è sempre difficile stabilire cosa cominci e quando, quale vertigine di casi fortuiti esista dietro ciò che sembra avvenire all’improvviso, o quale viso si è girato verso un altro in un momento del passato dando il via alla catena accidentale degli eventi e di creature che ci ha portato ad esistere. Innanzitutto – questo posso dirlo con discreta certezza – sono nata. Era marzo e nevicava, e l’anno era il 1987. I miei genitori si erano incontrati solo un paio di anni prima e si sarebbero separati definitivamente tre anni dopo.
Sono nata da una donna con un buco in testa. Mia madre aveva avuto un incidente tredici anni prima. Rimasi una settimana sotto osservazione perché ero in astinenza dagli antiepilettici che lei era ancora costretta a prendere. Dell’incidente, del coma, delle operazioni le è rimasto soltanto un lieve avvallamento nel punto in cui manca un frammento di cranio, sostituita da una rete di metallo coperta poi nel tempo dai suoi capelli fini, di piuma. Dorme sempre dall’altro lato, perché le fa ancora male la testa che non c’è.
Si può dire che da quel buco bene o male sono scaturita. La mia stessa esistenza dipende dalla ferita, porta aperta sul baratro delle possibilità. Quando mia madre è caduta da una motocicletta guidata da un altro, a ventitré anni era in viaggio con lui per ritirare dei documenti che sarebbero serviti per il loro matrimonio. Non è andata poi così. Ed ecco che in un certo senso la traiettoria di mia madre non ancora tale, della giovinetta dal viso appuntito delle foto dell’epoca, del suo corpo scagliato sull’asfalto di una strada provinciale, ha tracciato una nuova traiettoria irreversibile da cui poi sarebbe emersa la mia. (M. Barone, La città sommersa, Milano, Bompiani, 2020, pp. 13-14)
Per la coesistenza di sguardo dal basso e di consapevolezza metanarrativa
Marta Barone pubblica, con La città sommersa, il suo primo libro destinato a un pubblico adulto: nato dal ritrovamento fortuito di una memoria difensiva riguardante il padre, è stato costruito con una lunga ricerca sull’ambiente politico dell’uomo, coinvolto negli anni Ottanta in un processo per “Partecipazione a banda armata”.
Autrice di libri per l’infanzia, Barone sembra avvicinarsi a quel periodo della storia italiana con lo sguardo pulito – ma non ingenuo – di un bambino ritrovatosi per caso in una vicenda “da grandi”. La copertina è allusiva in questo senso: tra le imposte di una finestra si intravvede appena l’immagine di un bambino che scruta, all’esterno, uno scorcio urbano.
Con uno sguardo dal basso, dunque, l’autrice cerca di far luce sulla storia del padre ricomponendo una Torino a lei sconosciuta per l’oblio fatto calare sugli anni Settanta; quella vicenda la riguarda da vicino, ma è ideologicamente lontana anni luce dal suo mondo. Del resto lui stesso ha avvolto in un silenzio totale il suo passato, non ne ha mai fatto parola con la figlia, neppure da adulta, marcando così una distanza incolmabile tra i sogni politico-ideologici e la storia collettiva in cui si sono incarnati.
Pur assumendosi il compito di un’indagine familiare, Barone mostra nella disposizione degli eventi una consapevolezza narrativa matura. La figura del protagonista si sdoppia: ci sono le pagine memoriali in cui si rievoca la vita vissuta con il padre, un uomo sfuggente, dalla personalità complessa; ci sono le parti biografiche “riemerse” nelle quali L. B. diventa invece personaggio, diviene “il ragazzo” di cui l’autrice parla con una distanza da narratore eterodiegetico:
Il ragazzo corre nella notte. Corre attraverso la città, corre nella città senza fine. Domani compirà ventotto anni, è in pigiama, ha i piedi scalzi, ed è tutto coperto di sangue non suo. È la notte di Natale. La città dorme sotto la pioggia, ignara, immemore, le serrande abbassate e le imposte chiuse. Tutto è impossibile. […] Il ragazzo corre nella città di pietra. (p. 20)
Barone rappresenta se stessa come personaggio inconsapevole di cosa le riserverà il destino, incappando in quegli indizi che danno il via alla sua ricerca. Ne è riprova questo appello al lettore:
Tu che ben conosci i manuali di scrittura, smaliziato lettore, avrai già individuato il fucile appeso alla parete nel primo atto del dramma. Io, invece, personaggio neghittoso e involontario (ma anche, in modo molto appropriato, discretamente cagionevole di salute), vagavo per Milano del tutto ignara anche solo del fatto che da qualche parte ci potesse essere un fucile. (p. 34)
In questo duplice approccio – memoriale e narrativo – sta uno dei pregi di questo libro: il distacco necessario ad attraversare la parabola di vita del “ragazzo” – con le sue scelte, le contraddizioni, le separazioni, le sconfitte – si mescida al rimpianto per tutto ciò che l’autrice non ha conosciuto direttamente dalla voce del padre, per quello che non aveva capito dell’uomo ormai maturo che ha conosciuto, della sua inusuale biografia.
Per la rappresentazione della lotta politica negli anni Settanta
La stagione politica degli anni Settanta e la sua involuzione nella lotta armata resta in Italia – a decenni di distanza – un periodo storico ancora da metabolizzare. Anche la rappresentazione letteraria che se ne è fatta ha risentito, complessivamente, di posture contraddittore: “formazioni di compromesso […] tra bisogno di raccontare, capire, giudicare e resistenza al racconto esteso, alla comprensione piena, al giudizio profondo” (R. Donnarumma).
La città sommersa costituisce forse il primo libro che non mostra strategie di resistenza verso un momento così cruciale dell’Italia repubblicana: anzi lo ricostruisce con acribia smascherando tanto i dogmatismi dei marxisti leninisti di Servire il popolo e la deriva sanguinaria di Prima Linea quanto le pratiche padronali di schedatura delle “qualità morali” dei dipendenti della FIAT. Inoltre la retrospettiva storica di Barone supera l’ambito torinese, intersecando le vicende della città con quelle nazionali e andando anche oltre il decennio 1968-1978, “l’ultima età in cui i destini personali si potevano identificare con quelli collettivi” (Donnarumma).
La vicenda politica del padre, studente universitario in Medicina, prende avvio, infatti, a Roma, con i fatti di Valle Giulia e si intreccia, in seguito, con quella collettiva dell’estrema sinistra torinese, della quale il giovane condivide le utopie rivoluzionarie e ne accetta, almeno fino a un certo punto, la loro irreggimentazione sotto la guida di Brandirali. Tuttavia la sua libertà intellettuale, a mano a mano che la lotta si estremizza e che certe posizioni divengono personalistiche e impositive, gli permette di vederne i limiti e di prenderne progressivamente le distanze.
L’autrice apprende a poco a poco le scelte del padre, le occasioni colte e quelle perdute, le scelte perseguite e quelle imposte, le decisioni prese senza indugi né ripensamenti, come quella cruciale di non approdare alla lotta armata quando in Prima Linea, a seguito del rapimento Moro, vengono decisi l’estensione della “pratica armata e il combattimento diffuso a tutti i soggetti sociali” (p. 247). Il libro ricompone, per aggiunte progressive e con continui andirivieni temporali, il percorso ideologico e morale di L.B. grazie ai molti incontri intessuti dall’autrice – dal legale ai compagni politici, dai parenti pugliesi agli amici di famiglia, alla prima moglie Agata –, ai numerosi viaggi, ai documenti rinvenuti, alla frequentazione del Centro Studi Piero Gobetti, alle foto personali raccolte nel tempo.
Per la duplice lettura suggerita dal titolo
Del titolo è possibile dare una duplice lettura: quella più evidente e “letterale” induce a identificare nella città sommersa la Torino degli anni Settanta, con le contraddizioni politiche, le rivendicazioni operaie, le condizioni di estrema miseria e di ghettizzazione di molti lavoratori, soprattutto meridionali, nonostante l’emanazione dello Statuto dei lavoratori.
L’altra interpretazione è suggerita dalla leggenda della città nordica di Kitež, che dà il titolo alla prima parte del libro: sprofondata nel lago Svetlojar per sfuggire al saccheggio degli invasori, si narra che “Kitež viva ancora, sott’acqua, segreta, con tutti i suoi abitanti”. Sta ai viandanti fortunati riuscire “a intravederne i contorni bianchi e oro sotto la superficie del lago, e di udire il suono sordo delle sue campane” (p.104). La Kitež che Marta Barone riporta a galla rimanda all’esistenza fino a allora ambigua e a tratti incomprensibile di suo padre: la figlia sente di averlo considerato a lungo uno sconfitto per l’aspetto spesso “strano, triste e fuori posto” (p.23), per il lavoro dimesso in una cooperativa di aiuto al disagio sociale o psichico, per la ripresa tardiva degli studi; ma dopo la sua esplorazione Barone deve ricredersi. Il ritratto del ragazzo, una volta messo a fuoco, è quello di un giovane vitale, generoso, appassionato, colto, di una persona che ha avuto molti amici, molte relazioni, non sempre fruttuose. Soprattutto quello che le appare finalmente chiaro è che stato un uomo che ha fatto dell’equità sociale la sola idea a cui dedicare la sua vita e che la sua storia non è stata quella di una caduta come aveva inizialmente pensato ma il frutto di una serie di scelte coerenti:
Tutto fluiva in un disegno perfettamente coerente. […] Quindi persino l’L.B. che non avevo mai calcolato, quello dopo, quello che aveva fatto parte della mia vita e che in un certo senso consideravo disordinato e disfatto, aveva proseguito la sua azione anonima e pacata, ancora e ancora in metaforica contrapposizione all’ormai defunta Prima Linea e alla sua “prassi rivoluzionaria”, alle vendette prêt-à-porter che non salvavano nessuno, non aiutavano nessuno […]. Quel pezzo della sua esistenza non era dunque una parte di troppo; era il ritorno e l’evoluzione di un tema, uno dei più importanti, se non il principale, della sua eccentrica biografia. Talvolta la vita degli umani rivela un insospettato quanto mirabile estro contrappuntistico. (p. 245)
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