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diretto da Romano Luperini

 Stai per leggere l’ennesimo post o articolo sulla scuola a distanza al tempo del coronavirus. Oppure stai per guardare un’intervista, un tutorial o un podcast che illustrano i 10 modi migliori per fare lezione con la DaD. E’ uno strano momento storico questo, nel quale la concatenazione tra un virus aggressivo, le politiche di lockdown, il distanziamento sociale e la paura diffusa che tutto ciò ha provocato sembrano aver messo in crisi le società contemporanee globalizzate. Sono in molti ad interpretare questo momento come una frattura storicamente significativa. Nelle analisi ritorna spesso la frase: ‘niente sarà più come prima’. Ci dicono: ‘al lockdown seguirà una crisi economica da cui sarà difficile riprendersi’ o ‘sul piano politico, ci aspetta una fase nella quale crescerà il grado di controllo che i governi eserciteranno sulla sfera individuale’. E ancora: ‘il distanziamento provocherà una trasformazione del nostro modo di vivere le relazioni sociali’. A questo si aggiunge con sempre maggiore frequenza anche: ‘l’educazione, la scuola e l’università cambieranno radicalmente dopo l’esperienza della DaD’. Ecco, su quest’ultimo aspetto ti senti particolarmente coinvolta.

Sei un’insegnante ed hai appena fatto la tua lezione utilizzando una piattaforma per l’e-learning, un programma per videochiamate o magari Facebook o YouTube. Hai fatto un grande sforzo e la tua lezione è andata bene. Nella scelta dello strumento, hai seguito le indicazioni della tua istituzione, del MIUR, quelle di un editore, di un esperto, di un tutorial online, magari di un amico/a. Sei soddisfatta e sai che in questa fase è la cosa giusta da fare ed è difficile fare di meglio. Eppure, ci sono delle domande sulla tua esperienza come ‘insegnante a distanza’, sugli strumenti che utilizzi, sul tuo ruolo, sui risultati che riesci ad ottenere che non ti lasciano tranquilla. Sei disorientata e cerchi risposte.

La DaD e le tecnologie per l’apprendimento: tanta confusione concettuale!

Dunque, eccoti qui. Stai cercando di orientarti nel vivace dibattito pubblico sulla scuola al tempo del coronavirus: sui social, sulla stampa, in tv e negli altri spazi di informazione. Le posizioni sono tante e spesso in conflitto tra loro. Ti colpisce una cosa, che riguarda le tecnologie o, meglio, il modo in cui nel dibattito pubblico si parla dei software, delle piattaforme e degli strumenti tecnologici che stai utilizzando per le tue esperienze di insegnamento a distanza. In fondo riconosci che, in questa congiuntura storica eccezionale, le tecnologie hanno rappresentato per gli educatori, una risorsa fondamentale per garantire una qualche forma di continuità didattica ai nostri giovani. Sei stupita, però, che se ne parli come di un corpus indistinto. I titoli di ciò che hai letto o ascoltato spesso riportano dizioni come ‘Le tecnologie per l’e-learning’ o ‘Le piattaforme per la DaD’ e giù con elenchi, link, descrizioni e valutazioni (positive) sulla loro utilità ed efficacia. Lo stesso MIUR, del resto, si è impegnato a stanziare risorse ingenti per permettere alle istituzioni scolastiche di dotarsi di un insieme non meglio specificato di ‘necessarie piattaforme informatiche per la DaD’. Sembra dunque che, se usi la Google Suite, Microsoft Teams, Facebook, Zoom, Cisco Webex, Moodle o Edmodo, per citare alcuni tra i più utilizzati, la differenza non sia poi tanta. Nel calderone della DaD finiscono insieme l’e-learning, il blended learning, il web-learning, la open education: insomma, cose abbastanza diverse tra loro, che rispondono a bisogni educativi molto differenti. L’invito sembra essere: guardatevi intorno e scegliete cosa il mercato vi offre e che risponde meglio alle vostre esigenze. Gli unici a fare forti distinguo sono i produttori di piattaforme e contenuti, come Microsoft, Google, Apple, Blackboard, FutureLearn, Pearson, McGraw-Hill, Erikson, Mondadori e via dicendo. Tramite siti web, webinar, tutorial, post e e-mail provano, ovviamente, ad illustrare le caratteristiche distintive dei propri prodotti. Ancora, non riesci a non notare che trattare questi strumenti come un insieme indistinto implichi attribuire alle tecnologie, tacitamente, il ruolo di semplici conduttori neutri di materiali, conversazioni, contenuti ed esperienze educative on-line. Ti sembra infine che, al riconoscimento della loro necessità in questa difficile fase, si associ spesso una sorta di entusiasmo incondizionato verso il loro utilizzo, senza alcun discernimento.

Quali tecnologie per quale apprendimento?

Eppure, tu che hai già usato diverse di queste piattaforme hai maturato la consapevolezza che lo strumento che usi fa una bella differenza e rende ogni volta diversa l’esperienza di insegnamento. Ti sembra che molti di questi strumenti riproducano uno schema ibrido dove alla videolezione sincrona o asincrona si accompagna una logica modulare classica di organizzazione dei materiali didattici: testi da studiare organizzati per moduli, lezioni o unità di apprendimento e strumenti (standardizzati) di verifica degli apprendimenti. Intuitivamente capisci le grandi potenzialità che questi strumenti avrebbero rispetto all’ibridazione tra didattica frontale e cooperative learning, tra progettazione lineare/modulare e le possibilità moltiplicatrici della logica ipertestuale, tra valutazione gerarchica/standardizzata e valutazione intesa come valorizzazione delle intelligenze multiple. Ma nella tua esperienza, fatichi a capire come sfruttare queste opportunità. Ricordi, inoltre, di avere approfondito una volta un testo di Neil Selwyn sul rapporto tra educazione e tecnologia che collegava le tecnologie educative con alcune tra le principali teorie dell’apprendimento: il comportamentismo, il cognitivismo, il costruttivismo, il costruzionismo, le teorie dell’apprendimento situato ed il connettivismo. Leggendolo, realizzasti quanto fosse importante pensare al funzionamento ed agli effetti prodotti da software e piattaforme educative, concentrandosi su quali siano i meccanismi di apprendimento che esse favoriscono e rendono possibili. C’è una differenza significativa tra il favorire l’apprendimento privilegiando processi di condizionamento basati su stimoli discriminanti o di rinforzo, oppure l’organizzazione di attività di problem-solving, simulazione e learning-by-doing supportate da forme di tutoraggio on-line. E’ molto diverso proporre prevalentemente esperienze didattiche online che implichino esplorazione, ricerca, interpretazione e costruzione di senso, secondo la sequenza classica proposta dal costruttivismo. Altra cosa ancora è organizzare l’esperienza didattica in chiave cooperativa, individuando nella costituzione di comunità di pratica online la strategia chiave per promuovere un apprendimento situato e partecipante. Infine, ispirarsi alla logica emergente del connettivismo prefigurerebbe ancora un altro tipo di esperienza educativa on line, che pone enfasi sulla necessità di lavorare sull’abilità di identificare, raggiungere e rielaborare conoscenza esperta, navigando gli spazi reticolari e online del sapere contemporaneo. Le cose possono combinarsi, ma bisogna ragionarci su.

Per un dibattito pubblico sulla DaD

Vorresti che nel dibattito pubblico sulla DaD si parlasse di questo. Pur avendo le tue preferenze, ti chiedi: come decisori politici, educatori, studenti e famiglie, non dovremmo forse interrogarci su quali siano le idee di educazione incorporate in ognuna di queste tecnologie e, soprattutto, su che cosa diventi l’esperienza di insegnamento quando usiamo l’una o l’altra di esse? Qui le domande da farsi sono tante. Eccone alcune tra le più immediate. Che tipo di apprendimento stiamo promuovendo? E quale vorremmo promuovere? Cosa diventano un insegnante ed i suoi studenti quando funzionano come una classe online, un ‘team’, un forum, una chat oppure una community? Che cosa diventa l’interazione insegnante-alunno o alunno-alunno quando si sviluppa attraverso conversazioni sincrone ed asincrone come in una network community sempre connessa? Cosa diventa una lezione quando si svolge contemporaneamente su più canali mediali – il video, l’audio e la chat – in uno spazio virtuale dove ogni utente può connettersi e disconnettersi a proprio piacimento e tutto ciò che avviene può essere registrato e archiviato? O, ancora: cosa diventa la valutazione quando si pratica attraverso strumenti che moltiplicano le possibilità di tracciare, controllare e misurare le attività e performance dello studente?

Queste sono solo alcune delle tante domande che vorresti al centro del dibattito. E sono urgenti! Perché in alcuni casi sei contenta della tua esperienza di insegnamento on-line. In altri, quel che diventa l’insegnamento in seguito alla ‘mediazione’ di alcune di queste piattaforme proprio non ti piace. Non che nessuno si ponga queste domande, anzi. Ma nel gran rumore di sottofondo che caratterizza ogni dibattito in questi strani giorni, queste voci vengono spesso coperte da ondate di entusiasmo incondizionato per le ‘necessarie tecnologie per la DaD. Finiscono per diluirsi in un dibattito tutto proiettato verso il futuro, nel quale si da per scontato che la scuola, i suoi dirigenti ed insegnanti, dovranno fare tesoro dell’esperienza fatta nel corso di questa risposta emergenziale alla pandemia, per integrare in maniera più sistematica e continuativa le soluzioni tecnologiche utilizzate per la DaD nella pratica quotidiana del fare scuola. Del resto, come dirsi contraria all’idea di una scuola blended, dove si faccia un uso pedagogicamente intelligente delle tecnologie digitali per superare le limitazioni spaziali, temporali, cognitive ed emozionali imposte dal cosiddetto modello scolastico basato unicamente sulla classe? Però, allora, le tue domande ed i tuoi dubbi diventano davvero impellenti.

La DaD come esperimento: i dati, la governance e la politica della conoscenza educativa 

In merito a questo, per aggiungere altri dubbi, sei stata colpita da un’idea letta qualche giorno fa su un blog. L’autore di un post sosteneva che, agli occhi di un educatore, quello della DaD sembra configurarsi come un incredibile esperimento educativo  globale, che si starebbe sviluppando lungo due fili intrecciati. Un primo filo è quello dell’amplificazione delle voci ‘esperte’ che da più di un decennio sostengono la necessità di cambiare radicalmente la scuola attraverso l’introduzione di tecnologie digitali. Sono le voci di giganti globali dell’EdTech e dell’editoria digitale (come Blackboard, Pearson o FutureLearn), di alcuni organismi internazionali (come l’OCSE) e delle loro coalizioni di expertise. Portano con sé una messa in discussione radicale della forma scolare strutturata attorno allo spazio-classe, ai suoi tempi standardizzati ed alla figura dell’insegnante. Per contrasto, individuano nell’innovazione tecnologica la soluzione per trasformare l’educazione in un processo centrato sulla libertà del discente di decidere come strutturare la propria esperienza di apprendimento, imparando in spazi ibridi e tempi personalizzati. Fanno di questa trasformazione una questione di efficienza, efficacia ed equità. Questi attori hanno visto nell’emergenza provocata dal COVID-19 un’occasione per imprimere un’accelerazione a questo processo di trasformazione o, almeno, per porre le basi per una sua legittimazione per il futuro basata sui dati raccolti in questa fase. Compare qui il secondo filo di questo grande esperimento globale, quello della produzione di dati su ciò che sta succedendo nelle classi virtuali in questi giorni. Da questo punto di vista, la pandemia potrebbe essere letta come una opportunità senza precedenti di produrre una base dati sterminata (per mole e popolazione di riferimento) sul funzionamento della DaD, sui risultati di apprendimento, sul grado di soddisfazione di studenti, insegnanti e famiglie, al fine di dimostrare l’efficacia degli strumenti e dei metodi on-line (magari in comparazione con quelli della didattica faccia-a-faccia). Alle domande che già ti accompagnavano, se ne aggiungono altre: quali sono i dati prodotti dagli strumenti che stiamo utilizzando in questo periodo? Quali altri processi di ‘traduzione in dati’ dell’esperienza educativa sono in atto, in ognuna delle piattaforme/strumenti che stiamo utilizzando in questa fase? Chi progetta tale produzione di dati? Dove vengono archiviati? Chi ha accesso ad essi e come vengono analizzati? Per quali scopi? Quali autorità sono preposte al controllo del trattamento di questi dati? Ecco: sei più confusa di prima!

Lavorare con i concetti, ragionare sulla politica dell’apprendimento e ripensare la governance dell’educazione nell’era del digitale

A rifletterci bene, ti sembra però di essere arrivata ad individuare una serie di questioni aperte su cui senti sarebbe necessario un forte dibattito pubblico e che connette i tre filoni lungo i quali si è sviluppata la tua riflessione fino ad ora:

  • è necessario iniziare a distinguere tra le tecnologie per l’apprendimento a distanza. Le diverse scelte di design che sono alla loro base, le teorie dell’apprendimento che sono incorporate nelle loro interfacce e nelle operazioni che esse rendono possibili vanno discusse con attenzione e bisognerebbe ragionare su quali sono le opzioni preferibili verso cui il sistema pubblico di istruzione di un Paese dovrebbe orientarsi. Insomma, posto che vogliamo imparare da questa esperienza e che riteniamo auspicabile una scuola blended in futuro, di quale scuola blended stiamo parlando? Che insegua quali obiettivi formativi? Le tecnologie che sceglieremo conteranno e faranno la differenza! Bisognerebbe analizzarle nella loro socio-materialità, direbbero oggi alcuni sociologi dell’educazione, per capire quale riconfigurazione delle coordinate spaziali, temporali e valoriali del fare scuola esse contribuiscono a creare. E scegliere quali direzioni ci sembrano auspicabili e quali no. Insomma, c’è urgente bisogno di ragionare sulla politica dell’apprendimento a distanza;
  • questo significa anche portare al centro del dibattito pubblico la questione dei dati e della politica della conoscenza sull’apprendimento a distanza. Chi, dove ed in che modo si genera, oggi, la conoscenza esperta sull’esperienza educativa a distanza? Chi controlla e quali sono le forme di accountability cui si sottopongono i vari soggetti (privati) come Google, Microsoft, Cisco, Apple che ci stanno mettendo a disposizione gli strumenti tecnologici e che, domani, saranno proprietari dei dati da essi prodotti? Si stanno raccogliendo dati che saranno utilizzati per dire che alcune delle tecnologie adottate per far fronte all’emergenza sono più efficaci di altre e per sostenere un loro uso e sviluppo anche quando l’emergenza passerà. Facciamo attenzione al tema della autorialità di questi spazi di produzione della conoscenza, ai tipi di dati prodotti, al loro utilizzo, alle forme di controllo che è possibile esercitare sul modo nel quale sono processati, al fatto che sono raccolti in una situazione di eccezionalità che apre molti dubbi metodologici sulla possibilità di fare generalizzazioni (si pensi soltanto al bias introdotto dalla particolare condizione emotiva che tutti noi stiamo vivendo e che rende importanti e gratificanti i momenti di socialità a distanza);
  • bisognerebbe inevitabilmente discutere di questioni di governance della scuola, del rapporto auspicabile tra sistema pubblico di istruzione (nazionale), autorità pubblica, tecnologie educative di proprietà di attori privati che operano su scala globale ed interessi legittimi di questi global players del mercato di prodotti e contenuti edTech. Rendere una o più piattaforme private uno snodo centrale ed irrinunciabile di un sistema pubblico di istruzione significa, in fondo, attribuire a chi ne detiene la proprietà un ruolo di rilievo nella definizione della politica educativa di quel sistema, dei suoi programmi, dei suoi strumenti di valutazione, della sua politica della conoscenza.

Naturalmente sai che altri temi potrebbero essere aggiunti a questo elenco e che probabilmente li scoprirai a mano a mano che ti confronterai con i tuoi colleghi, che apprenderai l’uso di nuovi dispositivi, lavorando con i ‘tuoi’ studenti.


Alla fine di una lunga riflessione come questa, caratterizzata da tanti dubbi e domande, si può forse convenire sul fatto che è possibile imparare qualcosa da ciò che stiamo vivendo. Allora, sottraendoci all’accusa di essere ‘laudator temporis acti’, proponiamo un contributo al dibattito pubblico invocato dalla nostra insegnante:

  1. E’ sicuramente auspicabile aprire una fase costituente nelle scuole e nelle università, al fine di ragionare su cosa possiamo imparare da questo momento emergenziale, per rendere più technological rich e augmented la didattica in chiave blended. Ma sempre a partire dal riconoscimento dell’imprescindibilità e della specificità della didattica in presenza, e quindi interrogandoci su come continuare ad usare questi strumenti come suo funzionale complemento.
  2. Perché ciò accada, abbiamo bisogno di ricerca scientifica, auspicabilmente pubblica, multidisciplinare e indipendente rispetto agli interessi dei grandi produttori del mercato dell’edTech, che ci aiuti a capire le differenze tra le diverse soluzioni tecnologiche, gli strumenti, gli approcci e le metodologie per la DaD. In questo quadro, un aspetto fondamentale da approfondire riguarda i diversi effetti che queste soluzioni producono in contesti diversi ed in relazione a pubblici ed obiettivi formativi differenti. E’ disponibile già tanta letteratura su questo, ma è indubbio che le esperienze condotte durante la pandemia potranno essere oggetto di analisi nell’immediato futuro.
  3. Non ci sembra affatto difficile sostenere l’idea che lo Stato non dovrebbe occupare, in chiave monopolistica, questo spazio di governance: è certamente l’opzione più irrealistica da auspicare, oggi. Piuttosto riteniamo che il pubblico dovrebbe esercitare un ruolo di guida rispetto alla politica dell’educazione (anche a distanza). In altre parole, ci sembra necessario che l’attore pubblico coordini ed orchestri con maggiore protagonismo l’apertura del mondo della scuola ai mercati dell’edTech e che dica la propria rispetto alla configurazione ed al design degli strumenti, veicolando una chiara e trasparente politics dell’educazione blended e che, auspicabilmente, preveda anche un rafforzamento dell’offerta di piattaforme e strumenti pubblici.

E’ uno scenario realistico quello che prefiguriamo? Assisteremo ad un ritorno al passato e alla normalizzazione della DaD? Oppure ad una fuga in avanti dove il mercato globale dell’edTech diverrà lo spazio privilegiato dove si immagina l’educazione di domani? Sappiamo che entrambe le cose potrebbero accadere. Incominciamo a pensare, però, che potrebbe svilupparsi un’offerta pubblica di soluzioni per la trasformazione della scuola in un’ottica blended, disegnate grazie al contributo di diversi saperi esperti e professionali, in base ad un’idea chiara di quale vogliamo sia la scuola che verrà. Una politics dell’educazione pubblica digitally enriched che tracci la via. Anche per il mercato.

E tu, cara insegnante, che ne pensi?

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