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diretto da Romano Luperini

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Su Neogeografia di Matteo Meschiari

 

 Oggi l’insegnamento della geografia nelle scuole secondarie pone alcuni problemi legati a una percezione falsata della disciplina, che da tempo viene intesa come di importanza secondaria rispetto alle materie letterarie. Una delle cause della sua svalutazione è l’idea sempre più diffusa che sia possibile accontentarsi di conoscere la forma del mondo attraverso le nuove tecnologie e che quindi non sia più necessario insegnarla. Negli ultimi anni ha prevalso infatti la convinzione che la geografia sia da intendere in senso strettamente letterale, ovvero come descrizione della Terra, e che quindi sia sufficiente affidarsi alle applicazioni di largo uso per sapere “dove” sono i luoghi.

Questa concezione nozionistica e riduttiva della geografia come materia la cui esistenza è giustificata dalla necessità di fornire una conoscenza della posizione dei luoghi è alla radice di una serie di fraintendimenti, il più grave dei quali è che insegnare geografia consista nel far memorizzare nomi di luoghi e coordinate. Sebbene in alcuni istituti tecnici la disciplina sia declinata nella sua variante di geografia economica e collegata ad altri ambiti di ordine socio-economico, questa normatività chiarisce che la geografia deve servire a qualcosa: si pone l’accento sulla sua utilità immediata e specifica, cioè imparare l’ampiezza delle regioni del mondo, i loro confini, i nomi, la rete idrografica, un elenco di dati che dello spazio geografico non individua se non caratteristiche legate al suo essere funzionale al consumo umano.

Tuttavia, oltre che come descrizione della Terra, la geografia può essere intesa anche come scrittura del mondo, ovvero come disciplina intersezionale che può diventare, a scuola come nel vivere quotidiano, la chiave di lettura dei fenomeni che più caratterizzano la permanenza dell’uomo sul pianeta in questo momento storico. La grave crisi climatica ha scatenato l’urgenza di ripensare il senso della nostra presenza e delle nostre esplorazioni. Sarà quindi necessaria una pratica di insegnamento sempre meno ancorata alla trasmissione dei meri dati e sempre più orientata alla comprensione dei limiti dello spazio geografico e della sua percezione.

In Neogeografia (Milieu 2019), Matteo Meschiari apre una questione fondamentale a partire da premesse necessarie: se la geografia nasce come scienza militare, come mappatura del mondo allo scopo di conquistarlo, e presto si trasforma in antropologia attraverso la fusione con la storia, chi è oggi in grado di fare geografia, cioè di narrare il mondo cogliendone gli aspetti contemporanei? Se le mappe non corrispondono più alla nostra conoscenza del mondo, in quale modo si possono aggiornare, e con quale obiettivo?

 

I docenti italiani hanno assistito alla proliferazione di manuali di geostoria, alcuni dei quali davvero encomiabili nello sforzo di creare un discorso diacronico che, a partire dagli eventi, si sposti sui fenomeni di lunga durata necessariamente legati agli ambiti geografici e alle mutazioni subite da essi nel corso dei secoli. Si tratta di una relativa novità nel panorama editoriale che ha permesso di creare collegamenti, di aprirsi a uno sguardo più ampio e più lucido sulla natura delle discipline e sulla relazione che intrattengono fra di loro. Ciò nonostante la geografia rimane ancorata a un ruolo secondario, il suo legame con la storia e soprattutto con la letteratura rimane ancora territorio poco esplorato a scuola.

Come spesso accade, e come sostiene Meschiari, “la letteratura intercetta inquietudini larghe, si fa cartina al tornasole di perturbazioni atmosferiche delle idee e dei tempi” (p. 20). Mentre alla geografia affidiamo il compito di concentrarsi su limiti e su margini dell’esplorazione, poiché il mondo è ora impegnato a ragionare sul futuro dell’umanità su questo pianeta, e non sulle sue potenzialità di sviluppo attraverso lo sfruttamento di nuovi territori, è alla letteratura che bisogna guardare per comprendere in quale modo l’uomo ha inteso lo spazio leggendone e interpretandone i segni nel corso della sua storia. Attraverso uno studio dell’immaginario geografico a partire dall’alto medioevo fino al Novecento, Meschiari offre una panoramica esaustiva dei significati dell’esplorazione, collegandoli alla forma mentis di chi ha prodotto le opere di cui si occupa. La rappresentazione dello spazio non è infatti prerogativa assoluta dei geografi, ma un tema e un motivo letterario che ritroviamo nelle opere letterarie più influenti di tutti i tempi.

L’autore inizia il suo discorso dalla più nota delle navigazioni alto medievali, cioè il periplo del monaco Brandano narrato nel testo in latino isperico noto come la Navigatio sancti Brendani. Divenuto fonte di molte opere medievali e moderne, in questo breve testo si racconta come un piccolo gruppo di monaci affronta un viaggio per mare affidandosi a una piccola imbarcazione su cui si espongono a diversi pericoli, ma anche alla prospettiva di essere ricompensati trovando il paradiso terrestre. Attraverso una lettura antropologica della Navigatio Meschiari afferma che non vi è dubbio che il paesaggio brendaniano nasconda un’antropologia. Se questo testo ha potuto ispirare la cosmologia di Dante, ciò è stato perché “proponeva un’immagine del mondo più plurale che universale, più topologica che filosofica” (p. 49). Un testo quindi che, attraverso l’interpretazione dei segni del paesaggio, propone una diversa visione del mondo, quello che dovrebbe fare oggi una geografia antropologica, cioè suggerire una lettura dei segnali che manda il paesaggio e che aiutino a recuperare il senso della presenza dell’uomo nel mondo.

È ciò che avviene anche negli altri esempi letterari scelti dall’autore. Nel secondo capitolo, Meschiari affronta l’dea di spazio nella chanson de geste, prospettiva molto interessante in quanto individua da un lato i limiti dell’epica medievale, da un altro lato la capacità di questo genere di cogliere nel paesaggio segnali inequivocabili di una possibile lettura del mondo. Nell’epica medievale la rappresentazione del paesaggio è stereotipata e stilizzata, si riduce a pochi elementi che forniscono indicazioni sommarie sull’ambientazione. Tuttavia, l’estrema sintesi della descrizione dei luoghi è compensata dalla tecnica narrativa della vue de la fenêtre, attraverso cui lo spazio è circoscritto da uno sguardo che non solo lo misura, ma gli conferisce profondità e coesione (p. 57). Meschiari si chiede se un fenomeno stilistico come quello dello sguardo da un punto alto, da una finestra o da un pertugio delle mura di un castello abbia una precisa genesi temporale, in quanto, sulla scorta di Augé, il luogo antropologico è luogo identitario, ovvero è luogo simbolico di un modo di relazionarsi. Si può fissare alla fine dell’XI secolo la genesi del motivo del panorama epico, momento in cui la rappresentazione del paesaggio diviene di maniera, si cristallizza, coincide con l’emergere della classe borghese precapitalista, come sottolinea Paul Zumthor, citato da Meschiari: nell’introduzione del motivo della vue de la fenêtre, quindi, si percepisce il peso della una preoccupazione di fare luogo e di dare visibilità a un nuovo punto di vista sul paesaggio, cioè a una prospettiva più ampia che coincide con quella borghese. Possiamo arguire, sostiene Meschiari, che il paesaggio stilizzato nell’epica medievale sia il riflesso di un modo di vedere il mondo che non necessitava dello spazio ampio del commercio, punto di vista che entra nell’epica in un momento in cui essa inizia a rappresentare in certa misura anche la prospettiva borghese.

L’ampliamento della prospettiva sul mondo conosce un momento decisivo nell’epoca delle grandi esplorazioni geografiche e i racconti di viaggio del XVI secolo, in cui entra in gioco la lettura dell’Altro e dell’Altrove. In particolare, l’autore prende in esame i viaggi di Jacques Cartier, e il modo in cui assegna nomi ai luoghi per esemplificare un processo di addomesticamento che si riscontra anche in altri testi più recenti. In Montale, invece, Meschiari individua un processo cognitivo nuovo che problematizza la lettura e la scrittura del paesaggio, soprattutto nella sua fase inziale, quella di Ossi di seppia, in cui legge una preoccupazione del poeta per lo “smateriarsi delle cose” (p. 91). Il paesaggio incorpora il dubbio sulla natura degli oggetti per rispondere alle nuove questioni poste dalla fisica e alla crisi epistemologica della disciplina che ne è seguita, fino a creare una metafisica del paesaggio. Nelle descrizioni dell’India di Pasolini e Moravia, l’autore scorge una retorica del meraviglioso e, in particolare in Pasolini, il bisogno di capire l’India attraverso l’Italia, cioè di “riconoscere il noto nell’ignoto per esorcizzarlo” (p. 117). Si tratta quindi di nuovo di un processo di addomesticamento del paesaggio, che avviene proiettando la mappa del proprio territorio su un paese nuovo. Come ultimo autore, Meschiari prende in esame lo scozzese Kenneth White, fondatore della geopoetica e autore di diverse opere di successo anche se poco noto in Italia. Interprete dello Spatial Turn delle scienze sociali europee tardo novecentesche, White rilegge il rapporto fra letteratura e spazio geografico. L’analisi dell’opera di White conclude il saggio di Meschiari non a caso, in quanto l’autore vi intravede la possibilità di affidare alla poesia la scrittura del mondo, perché se il luogo muta deve mutare anche la mappa, e se il rapporto con i luoghi cambia come si è di fatto trasformato nel corso del Novecento, inevitabilmente sarà necessario un nuovo linguaggio per rappresentarlo.

Non viviamo più in un’epoca di esplorazioni, ma dobbiamo fare i conti con lo spazio finito, con il limite. In questo senso, la geografia nelle sue declinazioni che chiamano in causa antropologia e letteratura può essere ancora uno strumento valido per comprendere il nostro rapporto con il mondo, per scriverne allo scopo di costruire un senso comune delle mutazioni in corso che inevitabilmente e sempre di più trasformeranno la nostra vita sul pianeta Terra.

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