Il mio incontro con Italo Calvino
Giovanni Falaschi ha recentemente pubblicato per Aguaplano editore il proprio carteggio (in parte inedito) con Italo Calvino. Su gentile concessione pubblichiamo parte dell’introduzione del volume.
Fu in uno di quei miei giorni torinesi della prima metà degli anni Sessanta che mi venne in mente di cercare per telefono Calvino in casa editrice, con la quale non avevo mai avuto rapporti e neppure con lui. Me lo passarono, gli spiegai chi ero e cosa stavo facendo; all’inizio non mi sembrò troppo entusiasta di incontrarmi dicendomi che non sapeva come aiutarmi; insistetti, e allora mi fissò un appuntamento per il giorno dopo. Più tardi ho capito il perché di questa resistenza: ero uno dei tanti studenti che gli si rivolgevano per tesi di laurea ma, come mi disse più tardi, anche per esercitazioni nella scuola media, e comunque per informarsi di ogni cosa che lo riguardasse. Per “levarseli di torno” (uso un’espressione sua, in cui condensò simpaticamente le ragioni che dovevano aver spinto Pavese, che se lo ritrovava spesso fra i piedi con un racconto nuovo, a consigliargli di scrivere un romanzo) si decise a scrivere nel 1970 la prefazione a Gli amori difficili in cui dà molte notizie autobiografiche e informazioni intorno alle proprie opere e alla critica che le riguardava.
Comunque, eccomi a Casa Einaudi, in uno studio con le pareti foderate di libri, e quasi subito da una scaletta di legno interna, scende un uomo ancora giovane, alto e asciutto (Calvino era allora sulla quarantina), vestito di calzoni bianchi e una camicia rosa con le maniche rimboccate. Ricordo anche che era molto abbronzato.
Quando si dice essere un ragazzo: la cosa che mi colpì a tutta prima fu la sua camicia rosa! Abitavo allora a Firenze, quindi non proprio in una cittadina di provincia quanto alla moda, ma non avevo mai visto un uomo con una camicia di questo colore, tranne, passeggiando sul lungarno, una volta uno straniero molto elegante, inconfondibilmente inglese, o un turista o uno della numerosa colonia allora di stanza a Firenze (i cosiddetti “anglobeceri”, che dagli anni Settanta hanno progressivamente abbandonato la città diventata meta di orde di “saccoapelisti”).
Del colloquio ricordo che mi dette indicazioni utilissime sulla sua collaborazione giornalistica dell’immediato dopoguerra a L’Unità torinese, cosa che io ignoravo del tutto, e dei racconti che vi pubblicò, delle recensioni e pezzi di costume (altri dettagli me li dette anni dopo a casa sua a Torino).
Allora gli studi di letteratura contemporanea in prosa si conducevano sui romanzi e sulle raccolte di racconti ovviamente editi, e sulle riviste. Nessuno si dava la briga di vedere sotto, o dietro, quello che c’era, tutti convinti che la produzione giornalistica o documenti di altro genere fossero di natura inferiore a quella letteraria raccolta in volume. Diciamo la verità: sfogliare giornali era un’operazione faticosa, non c’erano archivi di quotidiani su internet, tutto era cartaceo e in originale; era un lavoro da fare in biblioteca o negli archivi dei quotidiani, ci si impolverava, bisognava avere una santa pazienza perché nessuna bibliografia registrava gli articoli e le recensioni, e dunque occorreva guardare attentamente, e i numi della critica letteraria un lavoro così non lo facevano e non insegnavano a farlo ai loro allievi: sui giornali ci scrivevano, conservavano i ritagli dei propri articoli (ma forse non quelli degli altri) magari per raccoglierli in volume e passare alla storia. Io, che ero solo uno studente e che nella storia non ci sono mai stato troppo a mio agio, quel lavoro faticoso invece lo feci.
Oggi la ricerca della totalità della documentazione anche non creativa di un autore è un dato scontato nella prassi scientifica, allora era una novità: dalle lettere che Calvino mi scrisse trapela proprio il riconoscimento di questa strada diversa che avevo già intrapreso almeno dal 1963 per conto mio. Bisogna anche considerare che Firenze era allora, come oggi, piuttosto passatista, che gli studi di letteratura contemporanea erano abbastanza snobbati (se si eccettuano i fulminanti contributi degli esercizi di lettura di Contini, che però toccavano pochissimi fiorentini) e che per l’accademia contavano soprattutto argomenti del passato non recente; se si affrontavano i contemporanei lo si faceva per la linea toscana (Papini in particolare, gli ermetici, Pratolini ecc.) o per grandi intellettuali che avevano forti implicazioni con Firenze (penso a Montale). Baldacci, fiorentino, che controllava benissimo la produzione contemporanea, era invece molto più aperto e comunque era allora fuori dall’Università dove ritornerà come incaricato intorno al 1968 (ma moralmente e psicologicamente ne rimase sempre “fuori”: un’eccezione). Il clima fiorentino era quello: occorrerà arrivare al 1996 perché una giovane studiosa fiorentina, di intelligenza acuta e di penna scaltra: Francesca Serra, dia il suo primo contributo calviniano in quella Università troppo chiusa (più tardi, insegnando a Perugia, sollecitai Anna Mario a scrivere un libro su di lui, e così fece, e anche molto bene).
Certo, per quanto mi riguarda bisognava credere che conducendo una ricerca sui periodici e sui quotidiani si potessero fare delle scoperte, e in effetti – ancorché piccole – erano tali, e l’insieme delle cose piccole costituiva un bel corpus. Questo mi fu possibile perché i vari Istituti resistenziali, comunque denominati, disseminati in molte città del centro-nord, avevano molti documenti su quel tragico quinquennio della guerra e sul dopoguerra immediato, stampati o meno che fossero e, tornando a Calvino, la Biblioteca Nazionale di Firenze aveva tutto quanto giornalisticamente lo riguardava: per esempio tutte e quattro le edizioni de “L’Unità” su cui lui aveva pubblicato (diciamo che le sue recensioni e i pezzi ideologici uscivano su quella piemontese, i racconti anche e poi trasmigravano nelle edizioni delle altre città: i lettori non rischiavano il ‘già letto’ perché in una città arrivava solo una delle quattro edizioni), le riviste e i settimanali. Questa disponibilità piena dei fondi durò fino all’alluvione fiorentina del 4 novembre 1966, nella quale andarono perduti milioni di pezzi, fra quotidiani, riviste, volumi ed estratti. Dopo, la ricerca fu per me, mantenendo io l’attenzione al vasto campo largo resistenziale, molto più faticosa e lunga. Se non per tutti i quotidiani che mi interessavano, nei primi anni Sessanta e poi nei primi Settanta trovai però un buon sostegno nella bella biblioteca fiorentina dell’Istituto Storico della Resistenza in Toscana, che aveva molte pubblicazioni minori e occasionali, di memorie e diari, ed era molto ben organizzata. Per anni fui di casa anche lì.
Discussi la tesi nel dicembre 1965 e poi la misi da parte. Ebbi come un rigetto. Avevo letto fra le altre cose – talora belle e drammatiche, non direttamente propagandistiche – anche un’infinità di “roba” dell’immediato dopoguerra, di diversa estrazione politica, molta devo dire di provenienza comunista (era quello comunque il partito al quale, con un percorso tutto mio e faticoso, antitetico a quello della famiglia paterna, mi ero iscritto da poco), francamente assai retorica che mise a dura prova il mio stomaco. Uniche decisive scoperte, gli esemplari della stampa clandestina, molti memorialisti di un’Italia intellettualmente e/o moralmente degna che si era messa a raccontare, molti autori di racconti quindi, uomini o donne che fossero, e qualche grande autore: Fenoglio, Giaime Pintor che mi sembrò terribilmente geniale – io lo leggevo avendo pressappoco la stessa età di quando lui era morto e quando ho potuto (tanti anni dopo) ho organizzato un convegno su di lui -, Primo Levi; Calvino già lo conoscevo; i più vecchi potevano essere anche straordinari, come Pavese de La casa in collina, ma esterni al fenomeno. Ogni tanto, nel mare magno dell’enfasi, pescavo articoli di giovani cronisti, ma anche di storici, molto lucidi (ricordo con riconoscenza Claudio Pavone), ma il più era propaganda. Quindi mi dovevo depurare da tanta retorica.
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