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diretto da Romano Luperini

Diseguali e meritevoli. Considerazioni intorno a Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito

Un concetto-ombrello

Chi mai potrebbe dichiararsi, senza sfidare il senso comune e quello del ridicolo, contrario al riconoscimento del “merito”? Eppure questa parola così ovvia è un vaso di Pandora di sensi nascosti, molti dei quali inquietanti, almeno da quando è stata eretta a ideologia, la “meritocrazia”: troppo spesso confusa, nel dibattito pubblico e nel nostro inconscio sociale, con quel “merito” che, in effetti, è citato anche nell’articolo 34 della nostra Costituzione.

“Meritocrazia” è un concetto-ombrello: nel libro di Boarelli (Laterza, 2019) si parla infatti di valutazione, taylorismo, mobilità sociale, mito della trasparenza, eguaglianza, biopolitica, rapporto tra scienza e società … Una complessità rimossa dal fatto che il termine è ormai diventato una parola d’ordine inanalizzata. Dentro questo quadro in cui tutto si tiene, mi atterrò a una sola linea d’analisi e a un singolo tema per presentare e discutere il libro: quello dell’eguaglianza e della diseguaglianza.

Storia e fortuna di un concetto: la “meritocrazia”

La parola “meritocrazia” compare per la prima volta negli anni Cinquanta con connotazione negativa nei testi di due sociologi laburisti, Alan Fox e Micheal Young (quest’ultimo autore di un noto romanzo satirico e distopico, L’avvento della meritocrazia).

Le società di antico regime avevano potuto giustificare le diseguaglianze sociali sulla base del criterio della nascita, un criterio che per secoli era apparso naturale e che era invece l’ideologia dei pochi privilegiati. La società moderna introduce il principio dell’eguaglianza, ma, nei fatti, continua a perpetuare differenze di status, non più tra nobili e non nobili, bensì tra ricchi e poveri, potenti e deboli, capaci e incapaci, vincenti e falliti, … Anche la società democratica ha perciò bisogno, non meno della società tradizionale, di motivare persuasivamente le proprie diseguaglianze. A prestarsi perfettamente allo scopo è proprio il criterio del merito: tutti gli uomini nascono con eguali opportunità di partenza, ma l’effettivo successo o insuccesso dipenderà esclusivamente dalla loro abilità di realizzare i propri talenti, facendoli fruttare in concorrenza con quelli altrui.

Il radicato costruttivismo sociale di uomini di sinistra come Fox e Young ebbe facile gioco nel mostrare che l’egualitarismo della “meritocrazia” è invece la maschera dell’ennesimo tentativo di naturalizzare la diseguaglianza: gli uomini non nascono affatto con eguali opportunità e a vincere la competizione sono coloro che provengo da un contesto ricco in capitale socio-economico o culturale.

Ma nel corso dei decenni successivi l’originario carattere critico del termine “meritocrazia” si rovescia e banalizza nell’attuale senso positivo e apologetico, mentre progressivamente «l’analisi economica penetra in campi non economici e diventa una chiave di lettura per tutti i processi sociali» (p. 11) e il mercato viene presentato come «la forma “naturale” di organizzazione della società» (p. 51). In particolare dagli anni Sessanta, con la teoria del «capitale umano» di Gary Becker e del «valore economico dell’educazione» di Theodore Schultz, gli strumenti d’analisi dell’economia vengono applicati anche all’ambito dell’istruzione, con ragioni che hanno l’apparenza della perfetta plausibilità: lo studio è comunque una forma di investimento per il futuro, di cui si può calcolare il tasso di rendimento; i saperi “incorporati” negli esseri umani producono comunque ricchezza, generando esternalità positive, ecc. Ma è soprattutto l’individuazione della correlazione tra il livello di istruzione e il reddito che renderà il discorso meritocratico così persuasivo fino al punto di prendere l’apparenza di uno scontato buon senso: quante indagini demoscopiche fondate su questo fattore abbiamo letto? Nella versione ottimista questa correlazione viene tradotta nella ovvia formula che chi è capace nello studio occuperà una posizione migliore nella società: peccato che l’ottimista dimentichi di solito di dire che fine facciano i peggiori o anche soltanto i mediocri. Nella versione cinica e ansiogena, questa correlazione diventa una clava con la quale opinionisti, insegnanti, genitori picchiano sulla testa dei giovani ricordando loro che sarebbe pericoloso fallire: la “società della conoscenza” non perdona.

Così la convergenza e la reversibilità tra il linguaggio delle politiche scolastiche e quello dell’imprenditoria diventano perfette. Negli anni Novanta i libri bianchi europei e i quadri di riferimento sulle “competenze chiave” parlano la stessa lingua dei documenti prodotti da tavoli di industriali e organizzazioni internazionali dell’economia: se Boarelli non desse il riferimento bibliografico delle sue citazioni, distinguere quelle dell’Ocse e dell’Ert (European Round Table of Industrialists) da quelle della Commissione e dell’Unione europea sarebbe impossibile. Si prenda questa:

«promuovere le abilità imprenditoriali attraverso metodi di insegnamento e di apprendimento nuovi e creativi fin dalla scuola elementare, mentre dall’istruzione secondaria fino a quella superiore l’attenzione dovrebbe concentrarsi sull’opportunità di fare impresa come possibile sbocco professionale. A partire dall’apprendimento basato su problemi e attraverso collegamenti con le imprese, l’esperienza del mondo reale dovrebbe costituire parte integrante di tutte le discipline in forme adattate a ciascun livello di istruzione. Prima di lasciare l’istruzione obbligatoria tutti i giovani dovrebbero usufruire di almeno un’esperienza imprenditoriale concreta» (pp. 21-22, corsivi originali)

Linguaggio tecnico ed economico di industriali o progetto politico europeo?

Ma Boarelli non si limita a individuare un’intesa tra i due mondi. I pronunciamenti politici in materia di istruzione seguono cronologicamente quelli del mondo industriale: spendibilità pratica degli apprendimenti, “successo” formativo e nel lavoro, superamento del sistema dei diplomi nazionali a favore di un sistema sovranazionale di certificazione delle competenze “reali”, fino ad arrivare all’“educazione all’imprenditorialità” e all’enfasi sulla necessità di superare annosi dibattiti pedagogici “di principio”, nel buon senso di un confronto “post-ideologico”.

Insomma, il carattere apparentemente egualitario e democratico della “meritocrazia” ha avuto la funzione lubrificante di lasciapassare per ideali di competizione economica e di efficientismo presso un vasto pubblico, anche progressista e di sinistra.

Eguaglianza e diseguaglianza, individuo e società

Questo mito dei nostri giorni dal nome antifrastico ha perciò un carattere mistificatorio, capace di trasformare la diseguaglianza in eguaglianza e di giustificare l’ingiustizia. Non è un caso che proprio alla fine del libro Boarelli citi un classico come Destra e sinistra di Norberto Bobbio, in cui la distinzione tra le due posizioni politiche era affidata al criterio dell’eguaglianza: la sinistra è egualitarista, la destra inegualitarista. «Questa contrapposizione non trova spazio ai nostri giorni a causa dell’abbandono degli ideali ugualitari da parte delle forze politiche eredi della tradizione di sinistra» (p. 107), commenta Boarelli. Il discorso contro la meritocrazia è perciò un discorso per l’eguaglianza e per una sinistra che si risvegli infine, dopo trent’anni, dalla sindrome di Stoccolma che l’ha fatta infatuare del mercato come non plus ultra del coordinamento tra esseri umani, per la sua presunta capacità di garantire un gioco reciproco fra soggetti “eguali” nella ricerca di un utile in felice armonia con quello altrui.

Ma temo che dietro la maschera della meritocrazia si nasconda qualcosa di ancora più profondo e perturbante che non una ideologia strumentale alla difesa della diseguaglianza: una macchina mitologica che ben si presta a rimuovere alcuni dei punti ciechi della modernità. Insomma non basterà purtroppo denunciare, marxianamente, il rapporto ambiguo tra struttura e sovrastruttura per ottenere ipso facto chiarezza anche sul tema dell’eguaglianza.

Infatti, anche immaginando che fossimo in grado di risolvere il problema delle diseguaglianze di partenza, garantendo una reale eguaglianza delle opportunità, ci troveremo sempre e ancora di fronte al problema delle diseguaglianze in arrivo: per dirla con il linguaggio della sociologia, gli status acquisiti prima o poi si cristallizzano in status ascritti.

Leggiamo il citato Bobbio:

«Nella storia umana concreta, non in un’astratta filosofia della storia, le lotte per la superiorità si alternano alle lotte per l’eguaglianza. Ed è naturale che avvenga questa alternanza, perché la lotta per la superiorità presuppone due individui o gruppi che abbiano raggiunto fra di loro una certa eguaglianza. La lotta per l’eguaglianza precede di solito quella per la superiorità. In una gara atletica i vari concorrenti che lottano per la superiorità sono allineati tutti sullo stesso punto di partenza, ma a questo punto di partenza ciascuno è arrivato attraverso una lotta per l’eguaglianza, ossia per passare da una categoria inferiore a una categoria superiore. […] È una lotta per la supremazia nel momento in cui si lascia il grado inferiore, una lotta per l’eguaglianza quando si raggiunge quello superiore. Prima di giungere al punto di lottare per il dominio, ogni gruppo sociale deve conquistare un certo livello di parità con i gruppi rivali» (Destra e sinistra, p. 164)

In questa descrizione sono contenute le ragioni per le quali il merito risulta desiderabile anche per la sinistra: dal punto di vista dell’individuo, la lotta per l’eguaglianza è la lotta per emanciparsi da una condizione di subalternità. È per questo che un’affermazione oggi spesso ripetuta come l’“ascensore sociale si è bloccato” o la difesa della mobilità sociale possono apparire valori di sinistra. Ma ciò che è desiderabile per il singolo, nella sua lotta per il riconoscimento personale, non è senza conseguenze sul piano collettivo e dell’economia del sistema: a rigore un indice di alta mobilità è perfettamente compatibile con una società ipercompetitiva, in cui si sale (o si scende) con grande fluidità, per così dire “senza la rete di protezione” di qualche status ascritto. Dove c’è ascesa per qualcuno, c’è declassamento per qualcun altro, dove c’è realizzazione di eguaglianza, riprende la lotta per la superiorità, dice Bobbio. Questa contraddizione o aporia vive nel cuore stesso della modernità.

È noto un episodio che ha per protagonista don Milani: si infuriò con un contadino che avrebbe voluto far studiare il figlio da ingegnere. Dal punto di vista della sua rigorosa divisione del mondo in poveri e ricchi, andare all’università equivaleva a cambiare classe sociale, a prendere le fattezze del nemico. In questa sua impossibile radicalità, don Milani coglieva lucidamente questo effetto “perverso” della mobilità sociale.[i]

Non stupisce perciò che il ricorso a politiche scolastiche attente alle ricadute economiche, produttive, occupazionali dell’istruzione non sia ascrivibile soltanto a un’intrusione delle teorie del capitale umano nel discorso pedagogico e agli ultimi trent’anni di neoliberalismo, ma sia, al contrario, un tratto strutturale della scuola moderna. Proprio gli anni di maggior espansione e democratizzazione della scuola a livello globale, quei “trenta gloriosi” che vanno dal 1945 alla crisi petrolifera del 1973, sono stati anni di pianificazione accurata dei percorsi scolastici in quasi tutti i paesi del mondo. In altre parole, mentre gli Stati si preoccupavano di realizzare un maggiore egualitarismo scolastico (si pensi alla riforma della scuola media unica in Italia), contemporaneamente programmavano con grande cura anche la formazione delle professionalità di cui il mondo del lavoro avrebbe avuto bisogno.[ii]

Questo dispositivo è servito evidentemente per calmierare gli effetti implicitamente competitivi dell’acquisizione di status.

Oggi, nella sovrappopolatissima Cina, l’accesso all’università è regolato da un durissimo esame alla fine della scuola superiore. Le università hanno prestigi e livelli molto diversi. Gli studenti possono esprimere le proprie preferenze, ma saranno i punteggi nei test a stabilire chi accederà a quelle migliori e ai corsi desiderati. Si tratta di un caso di vera e propria pianificazione per allocare le “risorse”, perfettamente coerente alla politica di un regime che è insieme centralistico e “meritocratico”: impietosissimo per le conseguenze sulla libertà degli individui, ma efficientissimo dal punto di vista del sistema.

Individualismo moderno

Boarelli rileva una corrispondenza: le due società occidentali con le più profonde diseguaglianze, il Regno Unito e gli Stati Uniti, sono anche quelle in cui più è diffuso l’ideale meritocratico (tuttavia bisognerebbe aggiungere che le cause della diseguaglianza nei due paesi sono diverse e dipendono da una storia e una strutturazione complessiva della società che non sono sovrapponibili). È la verità, ma non è tutta la verità.

Il merito è un ideale fondativo degli Stati Uniti anche perché in quel paese la mancanza della secolare stratificazione sociale del Vecchio Continente permetteva di immaginare una società fondata ab ovo su principi democratici ed egualitari, ma capace anche di riconoscere e premiare l’intraprendenza dell’uomo moderno, che è definito non da ciò che è ma da ciò che è capace di fare.

Se osserviamo le high school americane, ci colpisce l’amplissima libertà di scelta delle materie: salvo la lingua madre e una disciplina che equivale alla nostra educazione civica (U. S. Governement), il resto del curricolo è totalmente nelle mani dello studente[iii]. Le spiegazioni che a volte si danno di questa libertà molto ampia sono spesso poco lusinghiere: supermarket delle materie, individualismo sfrenato, ecc… Queste spiegazioni colgono senza dubbio un elemento che sta al cuore della società americana, il radicale mercatismo; tuttavia gli ideali ispiratori di una scuola siffatta meritano di essere ricordati: «istruzione generale per tutti gli studenti in quanto cittadini futuri di una democrazia […] programmi a scelta per la maggioranza che intende sviluppare abilità utili […] istruzione adeguata per i talenti in grado di trattare materie accademiche e a livello avanzato».[iv] La democrazia americana ha seriamente scommesso sulla possibilità di garantire contemporaneamente una formazione comune a tutti i cittadini fino ai 18 anni e la realizzazione di alti traguardi individuali, secondo le aspirazioni e le capacità di ciascuno.

Questo doppio movimento – di uniformazione e di differenziazione – è probabilmente aporetico.

Conclusione: fare pulizia concettuale

Non dobbiamo illuderci: sconfiggere l’ideologia meritocratica non equivarrà a trovare la chiave per l’eguaglianza e per la libertà degli individui. Ma questa constatazione che potrebbe sembrare adatta alle meste conclusioni che arrivano alla fine della storia (e della Storia), è invece dettata dalla convinzione che, ben lungi dall’essere alle nostre spalle, «la sinistra non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena cominciato» (Destra e sinistra, p. 148). Per percorrerlo, occorre fare innanzitutto pulizia concettuale e il libro di Boarelli è da questo punto di vista uno strumento importante per cominciare a spazzare via un bel po’ di tic interpretativi, frasi fatte, superficialità taumaturgiche: perché se la questione del merito e della realizzazione delle potenzialità individuali non può essere ignorato come tema della destra, la fanfara retorica della meritocrazia semplicemente ci acceca, liquida i problemi ancor prima di averli analizzati e offre sospette panacee per tutti i mali. Ma questa operazione di pulizia concettuale è il primo passo, non l’ultimo.

[Ringrazio il prof. Federico Castigliano per le informazioni sul sistema universitario cinese]


[i] L’episodio è confermato dalla sua collaboratrice Adele Corradi in un’intervista a Goffredo Fofi su «Lo Straniero» del novembre 2012.

[ii]Cfr. Antonio Cobalti, Globalizzazione e istruzione, Il Mulino, 2006.

[iii]Cfr. Cobalti, cit. pp.  50 e sgg. Considerazioni sul sistema scolastico americano utili alla prospettiva che ho scelto per affrontare l’argomento si trovano anche in Christopher Lasch, La rivolta delle élite. Il tradimento della democrazia, Neri Pozza, 2017 (nuova edizione, con un nuovo titolo, del vecchio e noto La ribellione delle élite, Feltrinelli, 1987)

[iv]J. B. Conant, in Cobalti, p. 51. Corsivo originale.

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